Forse ci sono soltanto due modi per insegnare: dare tutte le cose per definitive o non dare mai nulla per definitivo; non mettere mai nulla in discussione oppure rimettere sempre tutto in discussione; consegnare verità considerate inconfutabili o proporre conoscenze consapevolmente relative.
Probabilmente il modo in cui si insegna dipende dalla visione che si ha del mondo e delle creature che lo abitano, dal significato che si attribuisce ai concetti di presente, di passato, di futuro, da quanto si crede che la conoscenza possa cambiare il corso della Storia. Probabilmente dipende da questo. Certamente dipende da molto altro. Per esempio dal sentimento che si mette nell’insegnare. Dalla passione. Per questo quando si diventa maestri non si smette di esserlo mai più: per il fatto che non si rinuncia al sentimento, che non ci si può negare la passione.
Roberto Vecchioni continua ad insegnare, con passione. In questo libro lo fa con la narrazione. Come quando racconta di una creatura di terra e di cielo che per il tempo che attraversò questa terra ebbe il nome di Alda Merini. Creatura innocente e leggera. Fare poesia è un modo di affidarsi alla provvidenza, diceva. E’ un concedersi al caso, un tentativo di arrivare ai confini della palude, di toccare la volta celeste. Diceva che il poeta deve prendere la materia incandescente che è la vita di tutti i giorni e farne oro colato. Diceva che la poesia a volte riempie anche la fame, il sonno, la sete, magari anche la ferita di un grande amore che è finito. E’ un modo di fuggire, di salvarsi la vita.
Alda è stata un poeta senza progetto, una che non ha mai cercato la poesia: la poesia le arrivava come arriva un pensiero, un affanno, un trasalimento, un brivido, un tremore improvviso.
Alda Merini aveva compassione istintiva e affiorante nei confronti del mondo, dei destini delle creature; aveva compassione per le cose che passano, per gli amori che si bruciano, per i fiori che appassiscono, per la bellezza che si oscura, per le storie che si spezzano, per il povero, il folle, il ricco, l’arrogante, per chi prega o bestemmia. Aveva compassione per l’infelicità e la felicità, per lo stupendo imprevisto di esistere, per le stelle che ardono, per la cenere che non cova più fuoco, per i giorni che muoiono. Aveva compassione di sé, soprattutto, del suo essere come polvere o vento.
Diceva di non aver mai ritoccato un verso.
C’era in questa affermazione una straordinaria coerenza tra psicologia e forma. Perché non si può sostituire o riformulare un verso come non si può trasformare l’emozione, la condizione, l’istante che lo hanno generato. Perché non si può amare allo stesso modo due volte, soffrire allo stesso modo due volte, pensare due volte la stessa cosa. Per Alda Merini la forma delle parole doveva essere quella stessa che avevano i suoi pensieri. Doveva avere lo stesso groviglio di alcuni giorni, la stessa limpidezza di altri. La forma della poesia doveva rassomigliarle.
Dice Roberto Vecchioni che insegnare vuol dire aggirare l’ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l’alternativo. “Perché noi siamo in un labirinto di stanze che danno una nell’altra e restiamo sempre fermi in quell’unica che crediamo certa, per paura di perderci, disperderci”.
Da quel labirinto che è la conoscenza non si esce, non si può uscire. Di conseguenza diventa indispensabile imparare a muoversi nelle sue stanze, a rinunciare alla certezza che ci concede quella che conosciamo meglio, che ci consola, per fare esperienza dell’incognita, dell’avventura. Per potersi dimostrare, sulla propria pelle, che conoscere comporta sempre il rischio che comporta l’ avventura dell’esistenza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 6 dicembre 2020]