Juan Ramón Jiménez. Madre, dimentico qualcosa, ma non mi ricordo… (Madre, me olvido de algo, y no me acuerdo…)

Il verso di Jiménez è parte di un dialogo tra la madre e il figlio nella notte che precede la partenza di quest’ultimo verso il Nord. La scena è annunciata da due versi messi tra parentesi e in corsivo, quasi didascalia drammaturgica, nel testo originale, due versi che mostrano nel patio di marmo il baule già chiuso (“El baúl espera, cerrado ya, /en el patio de mármol”). Il figlio, già sveglio prima dell’alba, sente che dimentica qualcosa, ma non sa che cosa. Le domande della madre passano in rassegna quel che il figlio può aver dimenticato: il vestito, i libri, il ritratto… no, tutto è stato preso, eppure c’è, forte, nel sentire del figlio, la certezza di una dimenticanza, una dimenticanza, un vuoto, che non ha un nome: “– Madre, me olvido de algo, y no me acuerdo…/ Madre, ¿qué es eso que olvido?” (“Madre, dimentico qualcosa, ma non mi ricordo… / Madre, che cosa dimentico?”). L’alba, sopraggiungendo, accentua nei pensieri del figlio le ombre e l’ansia del distacco: con la partenza cesserà la voce della madre, il suo ascolto, e il mondo stesso, fuori, si profila come un grande vuoto. “¡No van a ninguna parte /los matinales caminos” (“A nessun luogo portano / i sentieri mattinali”). Ma ecco, all’improvviso, nell’alba che è già sorta, e nell’ansia che cresce, la rivelazione di quel che mancava, la rivelazione della natura vera dell’addio che sta per prendere forma: “¿Madre, ya sé lo que me faltaba: / todo, tú, y yo!” (“Madre, ora so quel che mi mancava: / tutto mancava… tu, io!”). Si disegna, nell’addio, il fantasma del Nord, del nero Nord, si sente il fischio del freddo vento (“Norte negro. / Silba el viento, grande y frío”). 

Se nella prima adolescenziale lettura ero colpito dall’esito del dialogo tra il figlio in partenza e la madre – la dimenticanza di sé e della madre, insieme, e dunque la partenza come distacco dal sé vissuto in quel luogo, dal sé dell’adolescenza, e dalla madre, che era presenza assidua e necessaria a quel sé e a quel luogo – nelle letture sopravvenute dopo molti anni (avevo nel frattempo ritrovato l’originale spagnolo), ero colpito da come i versi riuscissero a dire, con un andamento narrativo e teneramente familiare, il senso proprio della lontananza. Una lontananza che di fatto ancora non c’era, ma che ugualmente insinuava le sue ombre nella notte della vigilia, nell’ansia del figlio, in quel vuoto ancora privo di nome, e prendeva infine la forma di una mancanza inesorabile, necessaria, crudele: con la partenza si apriva l’oscuro tempo della dimenticanza di sé, della dimenticanza della madre, figura non solo dell’origine, dell’appartenenza, ma anche del luogo a sé più proprio, del tempo vissuto in quel luogo. La lontananza prima era presagita come distacco dalla presenza affettiva, poi era percepita come tempo e spazio di un altrove ignoto e gelido (i sentieri del mattino senza sbocco, il Nord, il sibilo del vento freddo): la lontananza come separazione dal caldo degli affetti. Insomma nei versi di Jiménez cominciavo a leggere una rappresentazione verticale dell’addio (per questo, quei versi sono riapparsi nel capitolo che nel Trattato della lontananza ho dedicato all’addio). 

L’affezione per quel verso che apre il dialogo notturno e per la poesia che lo comprende ha un’altra ragione, che avrei scorto meglio, anche questa, dopo alcuni anni: il fatto di avvertire, leggendo, in un modo certo sotterraneo e vago, il presagio della mia partenza, del mio addio alla madre. Che avvenne, appunto, come partenza verso il Nord, appena conclusa l’adolescenza (muovendomi, anch’io, dal Sud: non dall’Andalusia, ma da una terra che per certi aspetti le somiglia, il Salento). 

Certo, il verso scelto non ci porta direttamente nel cuore della poesia di Jiménez, nel suo giardino malinconico e incantato, dove la leggerezza del sentire unisce rimembranza e prossimità alla natura, meditazione e canto. E tuttavia, indugiando sulla soglia di un’adolescenziale partenza, quel verso ci mostra un aspetto che appartiene a tutta la poesia di Jiménez, cioè l’attenzione delicata ai sommovimenti dell’interiorità, anzi la forte cura dell’intimità: un’intimità che dà il suo colore allo sguardo sul paesaggio e sul mondo. 

El Adolescente

(El baúl espera, cerrado ya,
en el patio de mármol)

1

– Madre, me olvido de algo, y no me acuerdo…
Madre, ¿qué es eso que olvido?

– La ropa va toda, hijo.

– Sí, mas me falta algo, y no recuerdo…
Madre, ¿qué es eso que olvido?

– ¿Van todos los libros, hijo?

-Todos, mas falta algo, y no me acuerdo…
Madre, ¿qué es eso que olvido?

– Será… tu retrato, hijo.

-¡No, no! Me falta algo, y no recuerdo…
Madre, ¿qué es eso que olvido?

– No pienses más, duerme, hijo…

y 2

– ¡Madre! (La aurora es otra). Tu voz viva
sonará…, mas sin yo oirlo!
¡Sólo una hora por medio,
y ya está el mundo vacio!
¡No van a ninguna parte
los matinales caminos!
¿Madre, madre, ya sé lo que me faltaba:
todo, tú, y yo!
     .

(El cochero va cantando.
Los lejanos eucaliptos
aún nocturnos, dejan ver,
doblándose, el repetido
humo del tren. Bajo el puente,
Riotinto
torna su onda grana al pueblo.
La marisma inmensa. El niño
del carabinero grita
tras el coche: «¡Adios!»… Crujido
de arena bajo las ruedas
duras… Olor a marisco
podrido…)

Juan Ramón Jiménez (1881- 1958)

[“DoppioZero” del 23 giugno 2019]

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