Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXVIII

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I diritti umani e mercato. La critica più convincente al pensiero di Stefano Rodotà, fondato sulla centralità e la salvaguardia dei diritti umani, è in Onofrio Romano, Politica o barbarie, “Alfabeta2”, maggio 2013, a. III – n. 29, pp. 21-22: “Quella dei diritti, stabilisce Rodotà, è ormai ufficialmente una marcia universale. Tutti gli uomini della Terra, a ogni latitudine socio-culturale, sono unanimemente impegnati lungo questa traiettoria di illimitata acquisizione di diritti. Ogni lotta sotto il cielo è agita in nome dei diritti umani, l’unica vera, grande narrazione del presente, dopo la fine delle grandi narrazioni. L’universalismo non è più imposto ma incessantemente costruito dal basso. Quello delle primavere arabe ne sarebbe in questo senso un caso flagrante. (…) Il punto è un altro. Il punto è la sostanziale abolizione della politica. Al suo posto si immagina una costituzionalizzazione integrale, globalmente sancita. Costituzionalizzazione della “persona” e dei suoi “bisogni”. Il collettivo sparisce (…). Non ci sono più idee, visioni, progetti di società alternativi che si confrontano dentro l’arena civile perimetrata dai principi costituzionali. La politica è interamente risolta, riassorbita nel progetto di costituzionalizzazione: il diritto, ci rivela infatti Rodotà, è “forse il solo strumento per dire che un altro mondo è possibile”. Il progetto è già dato. Inutile discuterne ulteriormente: esso coincide con la moltiplicazione infinita dei diritti singolari e non tocca mai lo scenario complessivo nel quale le persone galleggiano. … (….) … quel che è certo è che “mercato” e “diritti” condividono la stessa logica sistemica. Entrambi s’inquadrano perfettamente della “tradizione liberale” del pensiero della libertà che, come osserva Magatti, ha avuto la meglio sulla “tradizione critica”. Nella prima il soggetto della libertà è il singolo, il quale non ammette autorità sovra individuali che non siano mere istituzioni regolatrici del traffico: perciò il gioco politico consiste nella infinita moltiplicazione dei diritti. La tradizione critica è invece animata da un’ansia di superamento dell’esistente, dello scenario complessivo nei quali i singoli agiscono, verso un altro mondo possibile. Questa ambizione è ormai perduta. Diritti e mercato, in questo senso, non sono affatto oppositivi, ma solo due facce della stessa egemonia. I primi ne sono il volto idealizzato, il secondo è la sua espressione reale. Tutto si tiene.”

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Calligrafia. Leggo l’appello “disperato” di Guido Ceronetti, Riscoprire la calligrafia, nel “Corriere della Sera” di domenica 13 gennaio 2013, p. 35, che scrive: “… il problema essenziale è scrivere. Tenere corrispondenza, annotarsi tutto in un diario, amarsi scriventi (senza amore di sé non soffi neppure una candela), amarsi diversi proprio perché si scrive. Questo che faccio è un SOS disperato, perché senza l’uso costante della grafia manuale il regresso civile e umano delle nazioni può essere spaventoso. Il libro è aperto e indulgente anche per chi abbia pessima scrittura, e sia svogliato nel migliorarla, purché ne abbia una”.

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Confini e frontiere. Leggo la differenza tra confine e frontiera in Umberto Curi, Uniti da un confine, ne “La lettura – Corriere della Sera” del 16 dicembre 2012, p. 7: “Il confine è il cum (…). È quella linea che, nell’atto di separare, mi mette cum, “insieme” (…). Il confine parla di un rapporto, più ancora che di una separazione, allude ad un luogo di condivisione, anziché ad una separatezza. Ed è inoltre, certamente, anche il luogo nel quale e mediante il quale si definisce l’identità. Ma non si tratta affatto di un’identità “egoistica”, contratta in se stessa, quanto piuttosto di quella identità che si definisce mediante il rapporto con l’altro. Sono me stesso, anzi divento genuinamente me stesso, proprio lì dove “tocco” l’altro, dove lo riconosco nella sua alterità, in quello specifico evento che è costituito dall’incontro con l’altro. È sul confine che incontro quello straniero che è sempre hostis-hospes, quell’altro che viene, del quale mai potrò sapere in anticipo se sia ospite o nemico, ma che devo comunque dispormi ad accogliere.

Si può cogliere qui la netta differenza che intercorre tra il concetto di confine così definito e la nozione, solo apparentemente identica, di frontiera. In italiano, ma anche in francese, inglese, spagnolo, il termine “frontiera”, in quanto racchiude in sé la radice “fronte”, indica l’essere rivolti verso qualcosa – contro qualcosa. Al cum che unisce e pone in relazione, proprio del confine,  la frontiera sostituisce l’incombente prospettiva di un affrontarsi che ha il cupo suono della guerra. Alla mobilità e al dinamismo dei confini, si contrappone la fissità e l’insuperabilità della frontiera.”

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Un bacio. Giacomo Casanova, Storia della mia vita III, iv, cit., p. 110: << ‘Sento che ti mangerei’ disse ad esempio baciandola e diceva la verità, perché con un bacio non si esprime altro che la voglia di mangiare l’oggetto che si bacia.>>

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Il sistema e la paura. In un’intervista dal titolo Contro la paura, concessa da Marc Augé a Fabio Gambaro, “La Repubblica” di lunedì 28 gennaio 2013, p. 45: lo scrittore afferma: “Una volta si sognava di abbattere il sistema, oggi si spera solo che non crolli definitivamente per non esserne le vittime”.

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Pornografia. Immagini di innumerevoli prostitute/i popolano l’universo massmediatico, nel quale tutti siamo immersi; ogni immagine promette un piacere in cambio di un pagamento di cui il pornografo nemmeno si accorge poiché esso avviene nell’atto stesso di visualizzare l’immagine pubblicitaria. La pubblicità come forma subliminare della pornografia, divenuta metodo d’ogni scambio commerciale. Ogni merce, infatti, è associata ad un’immagine che adesca all’acquisto. L’acquirente ridotto/mutato in frequentatore di bordello, paga la merce e la porné. Siamo tutti frequentatori di bordelli, utenti di un piacere a pagamento.

Come spiegare tutto questo, se non all’interno di un sistema di potere che prevede la sottomissione completa e irredimibile di una parte dell’umanità all’altra?

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La storia è finzione. Riporto un brano dell’intervista rilasciata da Alan Pauls a Fabio Donalisio, Nei dettagli vive il tempo rimosso, “Il manifesto” di mercoledì 25 luglio 2012, p. 10. Alla domanda dell’intervistatore: “Vede la letteratura come un modo di testimoniare uno dei passati possibili?”, l’intervistato risponde: “No, non credo che la letteratura sia una vera e propria testimonianza, ma mi interessa molto la testimonianza e la sua relazione con la storia. Non cerco il passato come se fosse una verità originaria da recuperare in qualche modo, non credo sia così. Mi interessa molto di più il modo in cui noi elaboriamo il passato, come lo ricordiamo, lo deformiamo, lo inventiamo, alla fine. In tutti i miei libri ho una relazione stretta con la storia, ma non come se la storia fosse un luogo di verità. Anzi, la storia è il luogo dove la verità si falsifica, si modella, si distorce. Ed è questo che mi interessa.”

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Snobismo. La definizione di Mario Praz, Prefazione a William M. Tackeray, La fiera della vanità, Einaudi, Torino 1980, II edizione p. XVII, è lapidaria “… l’idolatria del “grande” …  è lo snobismo”.

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Il sesso per gli antichi.  Leggo quanto scrive in proposito Eva Cantarella, Quei quadretti “osceni” nelle antiche case perbene, con sottotitolo Il piacere era gioco, la pornografia sconosciuta, nel “Corriere della Sera” del 4 dicembre 2012: “Quando ci accostiamo alle rappresentazioni erotiche provenienti dall’antichità che chiamiamo classica, lo facciamo spesso partendo dal presupposto che i greci e i romani concepissero e vivessero il sesso come noi. Mentre così non è: anche in questo essi erano diversi da noi. E tra le differenze che ci separano, una (in particolare in materia di erotismo, ma ovviamente non solo), è assolutamente fondamentale: quella legata all’avvento del cristianesimo, con i divieti e i tabù che questo portò con sé (diversi da quelli pagani), e il diffondersi dei sensi di colpa legati alla concezione del peccato, del tutto ignota al paganesimo.

Conseguenza: lo scandalo odierno di fronte a rappresentazioni erotiche che allora non scandalizzavano nessuno. (…) Se lo sapessero, gli abitanti del mondo romano o romanizzato trasecolerebbero: per loro nessuna di quelle rappresentazioni era ‘pornografica’ “.

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La civilizzazione, mettendo al bando il cannibalismo, ha salvato l’uomo dall’estinzione ed ha avviato il percorso che porterà l’uomo al dominio assoluto sugli altri viventi. La civilizzazione difatti è dominio, tanto maggiore il dominio quanto maggiore è la civilizzazione, che si è espansa – e continua a espandersi – sulla Terra non solo come dominio dell’uomo sulle altre specie viventi, che sistematicamente sono state assoggettate o sterminate, ma anche dell’uomo più civilizzato su quello meno civilizzato, anche questo assoggettato o sterminato, e sempre confermando il dominio del maschio sulla femmina all’interno di tutti i gruppi umani.

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Il metodo Ørberg, così chiamato dal linguista danese Hans Henning Ørberg (21 Aprile 1920 – 17 Febbraio 2010), consiste nello studio delle lingue antiche secondo un metodo cosiddetto naturale, che considera le lingue antiche come se fossero lingue moderne, cioè parlate da gruppi umani viventi. Questo insegnamento prevede la simulazione di precise situazioni della vita reale, entro le quali gli studenti apprendono a scrivere e parlare correntemente in latino o in greco. In realtà, il fine ultimo dell’apprendimento, a detta di Luigi Miraglia, principale fautore di questo metodo, è quello di leggere correntemente i classici. Il fine è dunque condivisibile, sebbene a fronte del drastico ridimensionamento del numero delle ore di latino e greco nei licei, la cosa appaia alquanto utopistica. Ma il punto critico è un altro. Si può imparare una lingua morta come se fosse una lingua viva? Chi capirebbe le motivazioni di una simile mostruosità? Ho visto in azione i discepoli del prof. Miraglia, che mi sono parsi tante scimmie ammaestrate portante nel circo del metodo Ørberg col fine di stupire i docenti convenuti in un corso di aggiornamento e di conquistare il loro consenso. Alcuni acquisteranno i libri, non c’è dubbio, e adotteranno il metodo, ma in molti l’operazione ha suggerito pensieri diversi. Il metodo Ørberg come il frutto avvelenato della sudditanza culturale, e in particolare linguistica, dei classicisti, alla didattica delle lingue moderne, soprattutto della lingua inglese (non quella di Shakespeare, s’intende, ma quella d’uso della globalizzazione), che, dopo aver sottratto molto spazio alle lingue antiche, rischia di snaturarne l’insegnamento residuo con una metodologia che è ad esse estranea.

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Distinzione tra realtà e reale, secondo Recalcati-Lacan. Scrive Massimo Recalcati, Quando la realtà anestetizza il “reale”, “La Repubblica” di lunedì 23 aprile 2012, p. 50: “La realtà è la realtà effettuale sulla cui esistenza nessuno – nemmeno l’ermeneuta nichilista più efferato – (…) può dubitare. La realtà di una ciabatta nella stanza o della pioggia sono fatti in sé, esterni, non sono né nella mia coscienza, né nel mio inconscio. La realtà ha le caratteristiche della permanenza indipendente dalla mia volontà. (…)

E il reale? Quando incontriamo il reale? Per Freud negli incubi. Ovvero in qualcosa che ci sveglia e ci impedisce di continuare a dormire (aggiunge: perché siamo arrivati troppo vicini alla verità del nostro essere più pulsionale). L’incontro con il reale è sempre l’incontro con un limite che ci scuote, con qualcosa che ci impedisce di continuare a dormire. L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita del lavoro che mette a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia (…). Tutto ciò che risveglia dal sonno della realtà è reale (…). In questo senso per Lacan il reale è associato ad un trauma che introduce nella nostra vita una discontinuità che spezza il sonno routinario della normalità della realtà. (…) Il reale, se dovessimo dare una definizione secca, non coincide mai con la realtà, ma è ciò che la scompagina. (…) Il reale non coincide con la realtà poiché la realtà tende ad essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – “inemendabile” – del reale. (…) La psicoanalisi segnala la tendenza degli esseri umani a cercare rifugio nel sonno realtà per neutralizzare il trauma del reale. La realtà è l’analgesico del reale. È uno schermo che serve a proteggere la vita: io sono io, la ciabatta è la ciabatta.”

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