Viene in mente Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura, e la sua Like a rolling stone. Un tempo vestivi così bene… ora sei una perfetta sconosciuta… La canzone è riferita a Jane Sedwick ma ha una valenza molto più ampia. Ci sentiamo così al di sopra, queste cose non riguardano noi. Viene in mente un’altra canzone, questa volta di Frank Zappa, It can’t happen here: Non può succedere qui. Se succede altrove poco importa. Se succede qui, ogni tanto, è un’immane tragedia, ma la frequenza degli eventi genera assuefazione: ci stiamo abituando alle centinaia di morti al giorno. Centinaia che diventano migliaia… perché la strage sembra non finire mai. Non sappiamo i loro nomi, non vediamo i loro volti. Rotolano via come pietre, e tutto questo sembra non accadere qui. Oggi ho sentito dire che hanno in media più di 80 anni, i morti per COVID. L’ondata di calore del 2003 uccise 11.597 anziani. Si stima che tra il 2007 e il 2017 siano morte più di centomila persone a causa dell’influenza “normale”. Un numero limitato è deceduto proprio per l’influenza, mentre per la stragrande maggioranza, affetta da altre patologie legate all’età, l’influenza è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E così le morti per COVID oramai sono quasi un fastidio. Vogliamo fare le spese di Natale, e andare a messa per farci vedere dagli “altri”, e vogliamo la settimana bianca, vogliamo mandare i figli a scuola perché non possiamo badare a loro quando restano a casa, e alla fine pensiamo che, comunque, a noi non toccherà. Magari i nostri vecchi non ci sono più, oppure sono una rottura di scatole. Capisco e condivido l’angoscia di chi rimane senza lavoro, ma pare che le proteste più vibranti siano per altri motivi. Forse è giusto così.
La morte è parte della vita e, quando si arriva in fondo, di qualcosa bisogna pur morire, no? Sarà alleviato il sistema pensionistico e sarà la volta che il paese ringiovanirà. Perché ci dicono sempre che siamo un paese di anziani, che ci sono pochi giovani. Siamo un paese di anziani perché viviamo a lungo e le generazioni si sovrappongono. Nei paesi “giovani” non si diventa vecchi: si muore prima. È questo il segreto per avere una popolazione giovane, magari prodotto di bombe demografiche che generano situazioni insostenibili, che fanno fuggire dalla disperazione. Un insetto che guardasse la nostra specie con una lente di ingrandimento, come noi guardiamo un nido di formiche, direbbe che il COVID sta riequilibrando le classi di età nella nostra popolazione. L’empatia che abbiamo per i morti “vicini” sta diventando cinismo. Ora ci danno fastidio e persino neghiamo che ci siano. Mi piacerebbe un sito web della memoria, dove siano mostrati i nomi, i volti, le storie, di queste migliaia di persone che sono spazzate via, settimana dopo settimana. Mio padre è stato nei campi di prigionia nazisti, a Buchenwald. Ne ho visitato uno, l’anno scorso. E c’erano i nomi e le storie di chi è passato di lì. Il museo della memoria virtuale per le vittime del COVID potrebbe ricordare quanto sia facile perdere la vita, dando il giusto valore alle cose. Siamo davvero pietre che rotolano e tutto questo accade proprio qui; anche a chi vuole andare a sciare, in discoteca, a messa… e ancora non stiamo parlando del veglione di Capodanno. Nota: mi piace entrare nelle chiese e visitarle. Di solito sono vuote, anche durante le normali funzioni religiose. Chi sente il bisogno di avvicinarsi all’altare lo può fare con discrezione, in un giorno qualunque. Non un solo giorno all’anno… almeno quest’anno (è per questo che ho messo la messa di Natale vicino allo sci e alle discoteche).
[“Il Fatto Quotidiano” online del 24 novembre 2020, blog di Ferdinando Boero]