L’insulto non si manifesta solo nella comunicazione orale, quando si verifica compresenza fisica contemporanea degli interlocutori. L’insulto si manifesta anche nello scritto, perfino in ambiti del tutto inaspettati come la letteratura. Due colleghe dell’università di Catania (Giovanna Alfonzetti e Margherita Spampinato) hanno studiato gli enunciati ingiuriosi nella produzione letteraria dei cosiddetti poeti comico-realistici del Due e Trecento. Negli anni a cavallo dei due secoli, in Toscana, alcuni rimatori scelgono di esprimersi con contenuti e modi che si contrappongono ai modelli di tono elevato dei poeti precedenti (provenzali e siciliani) e contemporanei (stilnovisti). Ecco i temi delle loro poesie. Esaltazione della passione amorosa come corrispondenza fisica, glorificazione dello svago di taverna, rifiuto di quel che ostacola il godimento dei beni terreni (le donne sgradevoli, vecchie e brutte, i padri tirchi e troppo longevi, gli ecclesiastici moralisti), lamento per la miseria che impedisce la vita gaudente. A ciò si accompagna l’immediatezza della lingua, che prevede l’uso di termini triviali e di espressioni di scherno verso chi ha una differente visione del mondo. Il personaggio più conosciuto di quella cerchia poetica è Cecco Angiolieri, autore di un sonetto famosissimo messo in musica, dopo oltre sei secoli, da Fabrizio De Andrè. «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» comincia la poesia. È un auspicio che gli elementi naturali (fuoco, vento, acqua), Dio stesso e le massime autorità religiose e politiche (il papa, l’imperatore) arrivino a scatenarsi contro l’umanità, con un augurio di morte riservato al genitori; i versi finali esprimono il proposito di prendere per sé le donne «giovani e leggiadre», lasciando agli altri quelle «vecchie e laide».
Naturalmente si tratta di un gioco letterario, nessuno oserebbe prendere alla lettera quelle parole. Che tuttavia non erano molto lontane da quelle reali, dalle ingiurie che spontaneamente fiorivano nelle strade, nelle botteghe e nei mercati anche in quei secoli remoti, allora come oggi. I registratori della voce non sono stati inventati fino ad epoca recente, e quindi non siamo in condizione di ascoltare neppure una parola di parlato reale dei secoli passati, a volte si riflette poco su questo dato di fatto: non una sillaba dell’oralità del passato è giunta fino a noi, a noi arrivano solo testi scritti. Possiamo attingere l’oralità del passato solo attraverso lo scritto.
L’insulto nell’italiano antico è un atto linguistico poco studiato, forse anche per una supposta carenza di dati significativi. In realtà non è così perché documentazione di quello che ci interessa possiamo trovare perfino in una lingua rigida e codificata come quella del diritto. Non nelle leggi e nelle disposizioni, né negli atti amministrativi e nei regolamenti: i testi giuridici e amministrativi ufficiali utilizzano un linguaggio preciso e rigidamente codificato, nel quale c’è poco spazio per la variabilità del parlato. Elementi del parlato si trovano invece negli atti dei processi, specificamente nella sezione narrativa di una sentenza. dove viene esposto alla lettera il fatto criminale: li si riportano in maniera testualmente rigorosa insulti, ingiurie, offese verbali che hanno dato origine al processo (i nomi degli studiosi di questi documenti sono indicati tra parentesi nell’elenco che segue). Documenti di Lucca, tra il 1330 e il 1384 (Dardano-Giovanardi-Palermo), di Recanati, della seconda metà del sec. XIV (Breschi), di Prato, dalle origini al 1320 (Fantappiè); di Pistoia, tra gli ultimi mesi del 1295 e i primi del 1296 (Larson) offrono testimonianze preziose di oralità spontanea e di discorso diretto, per noi veicolo di accesso alla lingua parlata del passato, con evidenti implicazioni di carattere sociologico (oltre che linguistico).
Un contributo interessante viene dal Salento. Il resoconto fiscale scritto a Nardò nel 1491, riguardante gli introiti della Corte del Capitano e le rendite della Bagliva (autorità pubblica preposta all’esazione di diritti fiscali) nell’anno precedente, rivela un contenuto particolarmente vivace in quanto registra tra l’altro le pene comminate a séguito di fatti di microdevianza insorti nel centro salentino (Coluccia; Castrignanò). Nel resoconto è riportato, spesso alla lettera, il “corpo del reato”, e cioè l’evento che ha generato l’erogazione delle pene: risse, liti familiari, piccoli furti, violazione di norme e divieti, ruvidità, bestemmie, minacce e insulti, una vera miniera di lessico e di fraseologia di uso quotidiano. Ecco qualche esempio: «Menga Albanese, denunciata per Antoni Merula, che li disse “orbo cornuto”»; «Notaro Francesco de Guarreri, denunciato per notaro Benardino, che li disse “Latro, sassino, menegodo”». E così via, con protagonisti, denunciante e denunciato, sempre diversi: «latro, tu te meriti la furca»; «ribalda, gallioffa»; «cane figlio de cane»; «albanese cane»; «iudio cane renegato», «o male previte». Numerosi naturalmente gli insulti a sfondo sessuale, sia diretti («puttana frustata, rufiana», «puttana, vatìnde a Lecce», «va, che ti cala Nunczo de Micheli» ‘va, che ti scopa Nunzo de Micheli’)¸ sia in un certo senso impliciti («marìtuma ti vede li homini chi tieni avanti la porta» ‘mio marito vede gli uomini davanti alla tua porta’). Alcune allusioni sono più sottili, significano una presa di distanza senza un insulto diretto: «sòrota non mi foi mugliere» ‘tua sorella non mi è più moglie’; «tu non fosti figlio de sòroma» ‘tu non sei figlio di mia sorella’. Non mancano minacce di azioni fisiche future: «tu non ày una die de vita» ‘non hai un giorno di vita’; «yo voglio tagliare la facce ad te et ad moglièreta» ‘taglierò la faccia a te e tua moglie’, «yo te voglio cacciare le ’ntrame» ‘caccerò fuori le tue budella, ti sventrerò’(«le ’ntrame» sono gli intestini).
Nulla di nuovo sotto il sole, allora come oggi. Oggi con un paio di novità importanti, la politica e il digitale. I comportamenti volutamente irrispettosi, la denigrazione, il sarcasmo, la maleducazione esibita, l’inciviltà contaminano un numero non piccolo di esponenti politici e molti elettori sembrano indifferenti o addirittura compiaciuti. Gli insulti, l’aggressività e l’odio, di cui la rete trabocca, sono favoriti dall’anonimato: identificare i responsabili, denunziarli, è diventato più difficile.
A noi resta un’arma, una sola ma efficace: prendere le distanze da certi comportamenti, nella rete, in politica e soprattutto nella vita. Esprimere ad alta voce il dissenso, senza acquattarsi. Questo obbligo morale riguarda tutti, nessuno può dire «non è affar mio».
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 22 novembre 2020]