In questo flusso di episodi, concetti, idee, a volte anche distanti tra loro, l’Autore cerca quella sovversione prospettico-interpretativa della realtà, prendendo a modello l’artista greco Fidia, come egli stesso scrive nella Prolessi: “Invocare i Santi Numi appunto per stabilire causa ed effetto per rendersi conto del fenomeno e correggere la condotta come fece Fidia che aumentò all’uopo l’altezza delle colonne del centro del Partenone, curvandole pure, affinché sembrassero eguali e dritte da lontano. Senza tale accorgimento infatti ne sarebbe derivata turba prospettica dovuta all’illusione ottica abbassante le colonne stesse in quel punto. E c’è da dire che ciò accade regolarmente per cui si segue lo stesso criterio, quello cioè di mettere ragazze di maggiore statura al centro, nella disposizione della fila in frontale delle ballerine sul Palco Scenico.” Un linguaggio metapoetico, il suo, con una sintassi franta da una fitta ragnatela di puntini di sospensione come a voler allungare ad libitum il detto, legandolo idealmente al non detto, frasi composte da una sola parola e parole composte da una sola sillaba, punti interrogativi ed esclamativi, larghissimo uso di segni di interpunzione. A dare basamento ai racconti sono eventi reali – la Belle Epoque, il Fascismo, la Seconda Guerra Mondiale, il dopoguerra-, e luoghi reali – Lecce, Tuglie, Carmiano, Novoli, il Salento in genere -, sui quali si innesta l’invenzione letteraria.
Il contenuto di questo volume non è un mero divertissement, ma uno sforzo di sottrarre il concetto di verità all’esclusivo dominio del già dato, persino di quel sensus communis che il Vico vuole legato all’eloquentia, connessa all’idea di un sapere retorico, e alla phronesis, intesa come sapere pratico, legato ad una certa idea di bene riconosciuta dalla comunità. E qui il cerchio si chiude.
Una scrittura, insomma, coraggiosa e scevra da pregiudizi, che si pone l’obiettivo di liberare la visione del mondo dell’Autore e di condurlo fino alle soglie di una domanda fondativa del senso profondo di ciò che siamo, in quanto insieme di eventi e ricordi correlati. E in questo “esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi”, come scriveva Nietzsche, “in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, […]le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete”.
Parafrasando il filosofo tedesco, potremmo allora dire che quello dell’Autore sia un tentativo, ben riuscito, di rimonetizzare quel metallo, in cui troppo spesso abbiamo trasformato le nostre convinzioni e il nostro vissuto.
[Prefazione a Mario Franchini, Rapsodie leccesi. Racconti di guerra e altre storie, Soc. Storia Patria Lecce, Giorgiani Editore, Castiglione, 2020]