Le vicende narrate nel brano della Genesi assicurano che, nei tempi più remoti, su tutta la terra vi era un’unica lingua, parlata da tutti gli esseri umani. Peregrinando da regione a regione, un gruppo di uomini raggiunge la pianura di Babel/Babilonia (città indicata nella Bibbia con il nome di Sennaar). Qui i nuovi arrivati decidono di fermarsi: contro la volontà di Dio che, benedicendo Noè e i suoi figli, aveva invece comandato: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra». Pieni di superbia, decidono di costruire una città e addirittura progettano di elevare una torre alta fino al cielo: decisione orgogliosa, sogno titanico che pretende di sfidare la natura congiungendo la terra al cielo e si pone in contrasto con il comandamento divino. Di conseguenza Dio decide di intervenire in difesa delle sue prerogative di signore del creato, sovrano assoluto dell’uomo e della storia. Per bloccare la realizzazione del tracotante progetto umano, Dio sceglie una strada sottile e per lui di facilissima realizzazione. Quegli uomini disobbedienti avevano un’unica lingua, e con questa comunicavano, si capivano facilmente, potevano far progetti e coordinare le proprie attività. Dio confonde la loro lingua, non riescono più a interagire, non possono armonizzare il loro lavoro: la costruzione della gigantesca torre si arresta, ne nasce un edificio sconnesso e incompiuto, che non può raggiungere il cielo. Il progetto di quel gruppo dissidente fallisce, all’uomo non è concesso di derogare dal comandamento divino. Lo strumento utilizzato da Dio per punire i superbi è la lingua, come ricorda anche il Salmo 55 10: «Disperdili, Signore, confondi le loro lingue: ho visto nella città violenza e contese».
In alcuni manoscritti medievali esistono delle miniature che rappresentano la costruzione della Torre di Babele. Molti pittori hanno dipinto lo stesso soggetto: le tele più famose sono forse quelle di Pieter Brueghel il Vecchio, il grande artista nordeuropeo, che intorno al 1563, per ben tre volte, dipinse quadri che si ispirano a questo mito. Ne parla Dante, in varie occasioni, attingendo non solo al testo biblico ma anche alla descrizione e ai commenti della vicenda che ne fanno autori come sant’Agostino, Isidoro di Siviglia, Rabano Mauro, anche il suo maestro Brunetto Latini, che Dante venerava e al quale si rivolgeva con il “voi” che segnala rispetto: «Siete voi qui, ser Brunetto?» (Divina Commedia, Inferno XV, 30).
Il pavimento roccioso della cornice dove sono racchiusi i superbi (Purgatorio XII, 34-36) è ornato da mirabili bassorilievi, nei quali sono rappresentati esempi di superbia punita. Nel terzo bassorilievo è raffigurato il gigante Nembròt, che secondo una certa tradizione era il re di quelle genti che avevano voluto edificare l’altissima torre: il bassorilievo lo raffigura «a piè del gran lavoro / quasi smarrito, e riguardar le genti / che ’n Sennar con lui superbi fuoro». Il «gran lavoro» è proprio quello inutilmente speso per costruire la torre; e ora Nembròt, «quasi smarrito», sicuramente in silenzio perché le sue parole non sarebbero capite da nessuno, non può che limitarsi a guardare con aria attonita gli altri che come lui peccarono di superbia, per aver tentato di sovvertire le leggi della natura e di Dio. Il nome del superbo gigante è ricordato nel Paradiso (XXVI, 124-126): Adamo, il primo uomo, precisa che la lingua da lui parlata era spenta già prima che quel popolo ribelle tentasse l’edificazione della torre di Babele, opera che non poteva essere compiuta, perché contraria al volere di Dio. Se nel Purgatorio c’è solo la sua immagine e nel Paradiso solo il suo nome, Nembròt sconta nell’Inferno (XXXI, 46-81) la sua pena: a causa della sciagurata sfida a Dio «pur un linguaggio nel mondo non s’usa», cioè le genti non parlano più una lingua sola. Il gigante grida parole sconosciute e incomprensibili: «Raphèl mai amecche zabì almi…»; e Virgilio saggiamente suggerisce a Dante di lasciarlo stare, perché il dannato non capirebbe una sola parola di qualsiasi lingua, come a chiunque è inintelligibile la lingua da lui usata.
Dunque secondo il mito biblico la diversità delle lingue del mondo nasce da un gesto di superbia che genera confusione. Se fossi in vena di umorismo, direi che quell’iniziativa divina (efficacissima e consumata senza violenza fisica) farebbe bene anche oggi, in questi tempi terribili dominati dalla pestilenza: ascolto e leggo moltissimi berciare a caso, dicendo tutto e il contrario di tutto, smentendo senza pudore loro affermazioni e loro comportamenti precedenti, insultando chi la pensa diversamente, incapaci di comprendere che da situazioni difficili come quella che viviamo l’Italia uscirebbe se fossimo seri, in grado di rispettare le regole, di essere prudenti (per noi e per gli altri), di fare ciascuno quanto è necessario, agendo correttamente. Se le parole di coloro che blaterano senza costrutto non fossero più comprese, allora forse quegli individui capirebbero che farebbero meglio a restare in silenzio.
Indagini scientifiche seriamente impostate contano attualmente fra 6000 e 7000 lingue parlate nel mondo, da sei miliardi di persone, che vivono in 181 stati indipendenti. Alcune sono parlate da centinaia di milioni di esseri umani, altre da gruppi enormemente più ristretti. Si pongono, complessivamente, problemi di vario ordine. La pluralità delle lingue, che può ostacolare la comunicazione tra parlanti diversi, è un male o va salvaguardata? Dobbiamo puntare a una sola lingua sovranazionale? In questo caso, è possibile fare una scelta? Si tratta di temi molto complessi e lo spazio concesso alla rubrica è ormai finito. Ne riparleremo la prossima settimana.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia dell’8 novembre 2020]