Poco oltre, a p. 815, Kierkegaard continua: “Si può infatti affermare, con la precisione che regola il corso degli astri che colui che verso la verità si atteggia a semplice ammiratore sarà un traditore nell’ora del pericolo. Chi posa da ammiratore, si innamora delle cose grandi soltanto come un effeminato o un egoista: appena sorgono guai o pericoli o se la dà a gambe o, se non può, diventa un traditore per sbarazzarsi dell’oggetto della sua antica ammirazione”.
L’ammiratrice Annie, dopo aver torturato il suo idolo, finirà col tentare di assassinarlo. Morale della favola per gli uomini di successo: guardatevi dai vostri fan!
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L’io. A questo proposito, scrive Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, in Opere VII, 1975, 3, fr. 35 835), maggio-luglio 1885, p. 203: “Ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici è questo: non concedo loro che l’”io” sia ciò che pensa; al contrario considero l’io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di “materia”, “cosa”, “sostanza”, “individuo”, “scopo”, “numero”; quindi solo una funzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di “conoscibilità”.
Da mettere in relazione con quanto detto sull’io in questo Zibaldone.
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L’io. Su Anna Banti ho detto che la scrittrice nasconde il suo io dietro un egli della finzione narrativa, camuffandolo più che annullandolo come si conviene a un’autentica opera letteraria. Un escamotage molto simile (il si al posto dell’egli per sostituire l’io) è stigmatizzato da Marcel Proust nel personaggio di Brichot. Ecco cosa scrive ne Il tempo ritrovato, Alla ricerca del tempo perduto IV, traduzione di Giovanni Raboni, Mondadori, Milano 1993, p. 453: “A partire da quel momento, Brichot sostituì io con si, ma il si non impediva al lettore di accorgersi che l’autore parlava di sé, e permise all’autore di non smettere più di parlare di sé, di commentare ogni sua minima frase, di fare un articolo su ogni sola negazione, sempre al riparo del si.”
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Bovarismo. Il termine, come si sa, deriva da Madame Bovary, il personaggio dell’omonimo romanzo di Flaubert che scambia l’immaginario romanzesco per vita reale e vi rimane irretito, fino a morirne. Dal bovarismo deriva anche l’atteggiamento proprio del fan sopra analizzato. Lo spiega bene Emanuele Trevi, Dal mito Hemingway, in “Il Manifesto – Alias” di domenica 13 luglio 2008, p. 13: “Proprio ai tempi di Flaubert, però, l’asse del desiderio bovarista si sposta, determinando un’autentica rivoluzione della sensibilità, i cui effetti sono evidenti ancor oggi. Non sono più solo i personaggi delle storie a godere di un’esistenza più desiderabile, più ricca di senso, più erotica di quella dei loro lettori. Questa componente “ingenua” del bovarismo si complica dal momento in cui anche il romanziere, e la sua vita, diventano oggetto del desiderio, mitologie sociali, potenti modelli da imitare …(…)… in questa nuova fase storica del bovarismo, la vita del romanziere è sottoposta a un tale investimento libidico da sopravvivere facilmente, e più universalmente, della sua stessa opera.”
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Citazione. Scrive in proposito Emanuele Trevi, Pamuk. Mie macchine empatiche, “Il Manifesto-Alias” dell’11 marzo 2012, p. 3: “… la citazione è il centro del ragionamento critico. Scegli la citazione, diceva Cristina Campo, e poi fai crescere il tuo discorso “come un rampicante sui sassi”. …(…)… bisognerebbe fidarsi di essa solo quando è la traccia di un’ossessione, qualcosa che ritorna alla stregua di un sintomo. Perché basta riappropriarsi di se stessi, e dissolvere il velo di Maya delle cazzate che ci circondano, e la letteratura ritorna ad essere quello che è sempre stata, parole che si incidono nella mente e nel cuore, parole-destino, roba che non si consuma: malattie, tatuaggi, formule magiche”.
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Tutte le lingue sono creole. Édouard Glissant, Una jam session resistente, ne “Il Manifesto del 13 aprile 2012, pp. 10-11 chiarisce il concetto di creolizzazione: “Uno dei miei rimpianti è che tutti i tentativi, in Occidente, di preparare una riforma dei rapporti dell’uomo con se stesso e con ciò che lo circonda, sono ancora auto-centrati, non considerano il campo assolutamente spaventoso di complessità di ciò che accade nel mondo, per tentare di avviare questo cambiamento. Per questo ritengo che la creolizzazione non abbia solo un carattere linguistico, ma sia qualcosa che bisogna comunque vedere. Solo cinquant’anni fa, tutti i manuali di linguistica cominciavano con un capitolo sulle lingue indoeuropee perché si pensava che esse costituissero il basamento, l’origine.
Oggi, tutti i manuali di linguistica, sia quelli più scientifici sia quelli destinati alla volgarizzazione, cominciano con un capitolo sulle lingue creole. Perché ci si dice: non abbiamo assistito alla nascita delle lingue; forse possiamo trarre vantaggio dal vedere come queste lingue siano apparse bruscamente e in maniera così fulminante tra il XVI e il XVII secolo e siano arrivate fino a noi. Si può imparare qualcosa da questo, e che cosa si impara? Si impara che tutte le lingue all’inizio sono creole, che la lingua francese all’inizio è una lingua creola, che l’italiano è all’inizio una lingua creola – che sono approcci, mescolanze, tentativi, rifiuti, ribellioni, tra lingue regionali, classicismi del pensiero o dell’inconscio e che queste mescolanze hanno finito, in maniera imprevedibile e imprescindibile, con il fare una lingua. Oggi si sa questo. Oggi si può dire, a ameno che non ci sia qualcuno che non è d’accordo, che la lingua francese, ai suoi inizi, è una lingua creola; e io mi spingo ancora più lontano, dico che Rabelais è un autore creolo.
Dunque, la creolizzazione può offrire, non modelli, perché nessuno oggi al mondo ha il diritto di proporre modelli, ma approcci di struttura e di destruttura nel nostro universo ed è in questo che la creolizzazione è importante.”
Il fascino creolo della poesia dantesca, perché no?
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Il nichilismo. Scrive Michel Foucault, L’arte di vivere senza verità, in “Lettera internazionale” 100/2009, estratto ne “La Repubblica” del 1° luglio 2009, p. 43: “Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l’ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o, meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra volontà di verità e stile d’esistenza.
Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell’etica della virtù. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi. Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più. Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che “niente è vero”, come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell’arte di esistere. In un occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti d’esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità”.
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Relativismo e nichilismo. Leggo Franco Volpi, Contro Nietzsche, ne “La Repubblica” di venerdì 10 aprile 2009, p. 47, che commenta le parole di pronunciate da Benedetto XVI contro Nietzsche durante la messa del giorno prima, il giovedì santo: “… dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo.”
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Letteratura. Leggo l’intervista di Giuliano Gramigna rilasciata a Paolo Di Stefano nel 1995 e pubblicata nel “Corriere della Sera” di sabato 26 ottobre 2013, p. 56, col titolo “La letteratura è un impegno vitale ma i libri sono oggetti deperibili”: “Non mi sembrano molti quelli che credono nella scrittura come in qualcosa in cui si mette a repentaglio se stessi. Purtroppo i critici e i paracritici, e persino gli editori, finiscono per riconoscere che il libro è un oggetto deperibile, destinato a far posto ad altri libri altrettanto deperibili. Dunque si tratta di trovare il caso che faccia discutere e questo mette al muro gli autori. Lo scrittore non dovrebbe esistere se non incidentalmente come un nome sulla copertina, mentre dovrebbe esistere solo la sua scrittura. Adesso invece diventa più importante che l’autore sia qualcuno. E come è possibile che un autore, che nella scrittura mette sofferenza noia disgusto fatica di anni nello scrivere un libro, non cerchi in ogni modo che il suo libro abbia un’udienza e sia accettato. Non possiamo chiedergli di essere un eroe o un asceta. Il rischio è il silenzio e la totale assenza, e il non esistere è uno scotto durissimo per uno scrittore. (…) La scrittura è una fatica disperata, distruttiva: non si può avere un’idea debole della letteratura e scrivere seriamente. Sarebbe come mettere a rischio la propria vita per motivi fatui. Solo se l’impegno letterario è un impegno vitale – anzi, direi quasi mortale – vale la pena: è la fiducia in un atto essenziale, che può infischiarsene del successo. Certo, considerare secondario il successo può diventare il rifugio di tutti i falliti e gli incapaci, me ne rendo conto. Però d’altra parte bisogna anche correre il rischio d’essere incapaci e falliti. La scrittura si gioca su un criterio assoluto, non nei risultati ma in partenza. Per questo bisogna accettare la viltà, la condanna e il disonore delle tre copie. Accettare che la letteratura ti distrugga in ogni senso, non solo nell’assorbimento delle tue capacità vitali, ma anche nel toglierti l’alone e la forza narcisistica, che pure è indispensabile. È un paradosso. In psicoanalisi si dice che la parola non può esprimere mai completamente il desiderio, eppure la funzione della parola è di esprimere il desiderio. L’inconciliabilità della letteratura sta in questo: non si può fare letteratura senza che entri in campo il più forte narcisismo, che non è solo ambizione o vanità, ma nello stesso tempo la letteratura implica il sacrificio totale di questo narcisismo. Oggi vedo troppa conciliabilità”.