di Antonio Errico
Certe mattine si svegliava inquieto, scontento, racconta. Si svegliava così, inquieto, scontento, dopo certe notti che sognava di essere un altro. Non erano poche le notti che sognava di essere un altro. Non erano poche le mattine che si svegliava inquieto, scontento, forse anche veramente infelice. A volte sognava di essere qualcuno che conosceva, altre volte qualcuno che aveva appena intravisto, una volta, per caso. A volte sognava qualcuno che non aveva mai conosciuto ma che nel sogno aveva una vita che era la sua. Quelle mattine faceva fatica ad alzarsi dal letto, a farsi la barba. Quelle mattine si sentiva dentro un dispiacere profondo. Per tutto il giorno si portava addosso quel sogno; si portava addosso quell’altro che aveva sognato. Una notte aveva sognato di essere un collega d’ufficio. Faceva quello che l’altro faceva solitamente in ufficio. Diceva le sue stesse parole. Faceva i suoi frequenti prolungati rumorosi sbadigli. Non ha mai sopportato quel collega, dice: la sua superficialità, il qualunquismo, l’indolenza, l’egoismo, la faciloneria, l’opportunismo. Forse il sogno aveva voluto punirlo trasformandolo in lui. Se lo ritrovò la mattina dopo, seduto di fronte. Avvertì un senso di quasi disperazione. Per il tempo di un sogno era stato quell’uomo, quell’altro. Per il tempo forse brevissimo di un sogno. Però era come se non avesse mai sognato nient’altro per cinquant’anni; era come se per cinquant’anni fosse stato quell’insopportabile collega con cui divideva l’ufficio. Aveva l’impressione che non avrebbe potuto sognare nient’altro, mai più, che quel sogno fosse il suo destino, che fosse condannato a quel sogno. Senza nessuna possibilità di sognare altro. Senza scampo da quel sogno interminabile, ossessivo.
A un certo punto cominciò ad avere anche paura di dormire, perché aveva paura di sognare di essere un altro, di svegliarsi dovendosi trascinare dietro quell’altro che era stato in fondo al sogno.