Non ho inventato io la scenetta, è di Gianni Rodari, scrittore celebre e oggi forse un po’ trascurato; di lui si è molto parlato pochi giorni fa, per ricordare il centenario della nascita (23 ottobre 1920). Insegnante alle elementari, poi giornalista, a partire dagli anni Cinquanta ha iniziato a pubblicare articoli su vari giornali (tra cui «Il Corriere dei Piccoli») e libri per bambini, ottenendo un enorme successo. Alcuni aneddoti, più di molte parole, valgono a caratterizzarne l’opera e la personalità. In un’intervista ricorda il primo libro da lui letto, «Cuore» di De Amicis, ricevuto in regalo quando frequentava la terza elementare: «Siccome mio padre faceva il fornaio e riempiva sempre il cortile di casse di pasta e aveva delle casse vuote, io ne prendevo una, ci facevo il mio rifugio e ci andavo a mangiare pane e cioccolata e a leggere il libro “Cuore” e a piangere». Amava i treni, a lungo osservati quando, a nove anni, rimasto orfano del padre, fu mandato per qualche mese nella casa del capostazione di Gavirate (un paese sul lago di Varese) dove una zia materna faceva la domestica. Amava i gatti, autonomi e capaci di muoversi senza dover chiedere troppi permessi, animali familiari nelle case dove viveva da bambino.
Per decenni, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, attraverso le pagine di «Cuore» di De Amicis (e di «Pinocchio» di Collodi) milioni di bambini e adolescenti si sono accostati all’italiano: il possesso della lingua nazionale era ancora ridotto, quasi del tutto limitato alla parte istruita della società. Quelle letture scolastiche, «Cuore» e «Pinocchio» , furono poi abbandonate, troppo in fretta e improvvidamente, a parer mio. Forse ai ragazzi di oggi non farebbe male familiarizzare con il mondo sobrio e non sguaiato che si riflette in quelle pagine e con il tipo di italiano da loro trasmesso: semplice, garbato, “educato” (anche se fatalmente discosto nel tempo e farcito, qua e là, da troppi toscanismi). Usando lui pure una lingua non difficile e accattivante, Rodari raccontava storie di gatti:il gatto casalingo, che non si muove dalla sua poltrona; il gatto Valentino che voleva insegnare l’inglese a un topolino; il gatto che aveva il bernoccolo degli affari e si era messo in testa di aprire un commercio di topi in scatola, solo che aveva fatto i conti senza l’oste, cioè il topo, che non voleva certo finire inscatolato, quindi il suo commercio fallì. Questo si legge alla lettera G del libro «L’alfabeto di Gianni», che contiene ventuno storie, una per ogni lettera, un alfabeto che con fantasia racconta la vita dell’autore. Così Rodari scriveva dei treni: «Nella notte di Capodanno, / quando tutti a nanna vanno, / è in arrivo sul primo binario / un direttissimo straordinario, / composto di dodici vagoni, / tutti carichi di doni… / sul primo vagone, sola soletta, / c’è una simpatica vecchietta…».
Questo era il mondo che Rodari trasmetteva ai bambini. Il gioco e la levità delle parole celavano in realtà una visione dell’insegnamento che puntava ai risultati partendo dalla leggerezza. E rendono assai opportuno l’omaggio editoriale che in quest’anno 2020 gli è stato reso, riunendo i suoi scritti in un bel volume dei «Meridiani» di Mondadori. Tanto per ricordare, la prestigiosa collana editoriale fondata nel settembre del 1969 con la volontà di proporre un «panorama di classici sempre contemporanei»; quella che pubblica (per citare solo gli italiani) «I Poeti della Scuola siciliana», le opere di Dante e di Petrarca, di Ariosto, di Manzoni, tra i moderni le opere di Pirandello e di D’Annunzio, tra i contemporanei quelle di Quasimodo, di Ungaretti, di Pasolini, di Arbasino.
Insegnare la lingua partendo dagli errori, il possesso dell’italiano come risultato di riflessione affabile e di autocorrezione, non censura senza spiegazioni dell’insegnante che si trincera dietro lo schermo invecchiato della matita rossa e blu (oggi quasi nessuno la usa più, ma qualche tempo fa era di moda). Riassumono un efficace modello didattico alcune righe de Il libro degli errori (1964): «Per molti anni mi sono occupato di errori di ortografia: prima da scolaro, poi da maestro, poi da fabbricante di giocattoli, se mi è permesso di chiamare con questo bel nome le mie precedenti raccolte di filastrocche e di favolette. Talune di quelle filastrocche, per l’appunto dedicate agli accenti sbagliati, ai «quori» malati, alle «zeta» abbandonate, sono state accolte – troppo onore! – perfino nelle grammatiche. Questo vuol dire, dopotutto, che l’idea di giocare con gli errori non era del tutto eretica. Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?».
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento la scuola italiana era animata da grandi fermenti. Disseminati qua e là, in luoghi diversi della nostra nazione, anche remoti rispetto ai centri principali, fiorivano tentativi di svecchiare i modi più tradizionali dell’insegnamento, mettendo in discussione principi e metodi che sembravano immutabili. In «Lettera a una professoressa» (1967), libro scritto insieme ai suoi alunni, Lorenzo Milani, il prete della scuola di Barbiana (un piccolo borgo sperduto sui monti fiorentini), lanciava una durissima critica alla scuola pubblica, che invece di combattere le diseguaglianze, sostenendo gli studenti più bisognosi e in difficoltà, stava amplificando il divario tra ricchi e poveri, perché premiava e faceva avanzare i ragazzi benestanti, respingendo i più poveri. Il deficit linguistico, derivante non da incapacità intellettuale ma dalle condizioni sociali, priva della possibilità di partecipare in modo attivo e costruttivo alla vita della comunità. Un altro prete, Roberto Sardelli, ammoniva: «Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali». Non solo preti, in quegli anni, certamente. Laici progressisti come Mario Lodi, Bruno Ciari, Orlando Spigarelli erano animati dalla medesima voglia di cambiare e di innovare.
Insieme a tutti loro, Rodari ha insegnato che il possesso della lingua è un bene primario e che le parole non sono neutre. Servono a capire il mondo e a interpretarlo, a camminare consapevolmente dentro il fluire della storia e a rappresentarla.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° novembre 2020]