Banchi 7. In lode dell’inutilità della letteratura e della grammatica

Questa è la prima volta che scrivo qualcosa che abbia direttamente a che fare con la pandemia in atto: ho scelto di continuare a leggere con i miei allievi i testi che amo, nelle classi iniziali continuiamo a scoprire insospettati entusiasmi per alcune strutture grammaticali o iniziamo l’avventura vertiginosa delle etimologie e so che tutto questo è perfettamente inutile e per questo bellissimo e irrinunciabile.

Anche il modo (spesso abborracciato, miope, spesso ottuso) di fornire indicazioni per affrontare la cosiddetta emergenza è filiazione diretta del processo in atto da anni: asservire la scuola alle esigenze del mercato avvoltolando il tutto nell’ipocrita parola d’ordine del “mettere l’allievo al centro del dialogo educativo”.

Continuare allora a trovare mezz’ora per discutere dei valori di un aggettivo o per tradurre due versi di Trakl è silenzioso atto di resistenza e di rivolta nella sua fiera inutilità (non è utile al mercato, non è utile al potere), anche quando la “didattica a distanza” impone e frappone nuove fatiche e nuovi ostacoli – ma è proprio la distanza temporale della maggior parte delle opere che leggiamo ad allenare all’abolizione della lontananza e, contemporaneamente, alla sua feconda bellezza: quel ch’è lontano dall’asservita, banausica quotidianità attrae e conquista la mente per farla aspirare a livelli di pensiero più alti: più umani – quel ch’è lontano chiama il desiderio a essere avvicinato e il lungo arco di tempo che unisce questo presente (spesso malato d’infantilismo e sempre di narcisismo) al cosiddetto passato rende ridicola la distanza spaziale che s’è spalancata all’interno delle classi nella recente primavera e che rischia di tornare a spalancarsi nei giorni prossimi venturi.

[“Zibaldoni e altre meraviglie” del 30 ottobre 2020]

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