Va nella stessa direzione, e anzi allarga i campi di intervento, il manuale per combattere la discriminazione e per la difesa delle diversità emanato ai primi di ottobre in Germania, indirizzato ai cittadini di quel paese. In sostanza norme che invitano a usare correttamente la lingua, per evitare che la persona indicata in modi scortesi o offensivi (a volte perfino involontariamente, per superficialità e senza pensarci troppo su) possa sentire violata la sua sensibilità dalle parole o dai modi con cui viene qualificata. Qualche esempio. Non bisogna parlare di «cambiamento di sesso», dice il manuale, ma (più favorevolmente) di «adeguamento di sesso». La parola tedesca «Auslaender» è composta da «Aus» che significa ‘fuori’ e «laender» che vuol dire ‘territori, regioni’: indica le persone che sono nate o provengono da territori che non sono quelli della Germania, in sostanza gli stranieri e gli immigrati. Un ricordo. Alcuni decenni fa mi recai per la prima volta a Saarbuecken, un’università tedesca nella quale poi sono ritornato, per ricerche e per insegnamento, almeno un paio di volte all’anno. Ero stato chiamato lì da Max Pfister, il secondo (in ordine di tempo) dei due straordinari maestri che la vita mi ha concesso in dono di incontrare; il primo è Francesco Sabatini, che molti lettori conoscono anche per la trasmissione «Pronto soccorso linguistico», che va in onda dagli schermi di Rai1 la domenica mattina, poco dopo le 8,30. Fin da quella mia prima volta a Saarbruecken fui colpito dalla presenza, nel campus universitario, di un «Auslaender club», un bar-birreria che accoglieva gli studenti e i professori stranieri. Ai tedeschi non era vietato entrare, naturalmente. Ma trovai già allora singolare l’idea di un locale specificamente destinato (anche nella denominazione) agli stranieri, ai non tedeschi. Oggi forse quella denominazione sarebbe impossibile. Secondo il manuale per combattere la discriminazione appena emanato in Germania non bisogna dire «Auslaender» ma «persona con storia internazionale».
Immagino l’obiezione. Si tratta di sottigliezze linguistiche irrilevanti, sofisticherie senza troppi fondamenti. Da più parti, cresce l’insofferenza per proposte di questo genere che, nella visione di alcuni, appaiono ispirate a una sorta di conformismo linguistico e di tirannia ideologica che di fatto limitano la libertà d’espressione. Alcuni ritengono che, con il pretesto di rivendicare ideali di correttezza e di giustizia, gli interventi lessicali suggeriti sono meri nominalismi, riguardano solo la forma piuttosto che la sostanza dei problemi e di fatto contribuiscono ad alimentare una nuova ipocrisia. Ci sarebbe il rischio che si instauri una regola non scritta di comportamento in base alla quale in ogni occasione o situazione dobbiamo attentamente soppesare le parole per evitare di fuoriuscire dai canoni corretti, per non essere etichettati (ingiustamente) come individui rozzi o sciocchi, come persone incuranti delle sofferte condizioni di vita altrui, come razzisti.
Questi argomenti sono seri, non possono essere negati senza discuterne. Certo non esprime serietà di intenti e riflessioni all’altezza un episodio che mi viene segnalato da Domenico Lenzi, ottimo matematico che i lettori di Nuovo Quotidiano ben conoscono. Se in rete si cerca «catania-al-raduno-della-lega-parla-il-vice-presidente-della-regione-calabria» si trova un video (quattro minuti e un secondo) che testimonia il fatto che ora mi interessa. Chiunque può guardare e farsene un’idea. Io ne riferisco in breve, senza fare nomi e senza scendere in dettagli, in maniera referenziale per evitare polemiche e strumentalizzazioni. In un incontro pubblico a Catania un importante politico della Regione Calabria rivendica il diritto di usare parole come «negro», «frocio», «ricchione», «zingaro» perché, a suo dire, sono quelle che lui ha appreso da piccolo; «questa è l’era della grande menzogna», sostiene l’importante uomo politico, per sottrarsi a simili imposizioni lui continuerà a usare quelle parole. Opponendosi così a coloro che intendono «coprire la nostra cultura ancora ben radicata» e a questo scopo «bruciano le parole, le cancellano dai dizionari». «Non glielo dobbiamo consentire», proclama con forza l’importante uomo politico, e la sala applaude.
Sulla base degli esempi precedenti, ciascuno dei miei lettori può decidere quale modello di lingua è più confacente alla propria personalità e alla propria visione del mondo. Per quanto mi riguarda ritengo che, in presenza di questioni reali, che pulsano nella società, sarebbe necessario stabilire preliminarmente opportune regole linguistiche, necessarie per una discussione civile. Le scelte linguistiche non sono neutrali, rivelano i sistemi simbolici dei parlanti. Le ideologie, individuali e collettive, si riflettono nelle concettualizzazioni e nelle categorizzazioni, trovando forma nella lingua e negli stereotipi che la lingua trasmette. Le parole sono associate ai nostri schemi mentali ed esprimono la nostra visione della vita. Il nostro modo di parlare è determinato dalle connessioni tra cultura, esperienza e lingua. Nominare in maniera corretta differenze e inclinazioni le fa emergere alla vista e serve a dare esempi positivi. Di fronte alle alternative lessicali che la lingua consente ognuno può scegliere. Rivelando, attraverso le scelte linguistiche, le strutture più profonde del proprio essere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 ottobre 2020]