Il duchino di Cavallino si iscrisse alla mazziniana “Giovine Italia” nel 1842 quand’ancora aveva ventuno anni. In tali panni è possibile vederlo oggi nel bel film di Mario Martone, Noi credevamo. Tuttavia egli, come tanti altri risorgimentalisti salentini, non rimase per molto tempo affascinato dall’ideologia repubblicana, quanto invece il suo fare politico si esternò quasi subito nell’ambito dell’ideologia monarchica, soprattutto per via dei suoi natali aristocratici, che vedevano le origini in quel Chiliano di Lymbourg,
«uno dei quattro liberi signori di Germania che, venuto in Italia nel 1156, ebbe in dono da Guglielmo il Malo, in compenso di servizi resigli, alcune terre, e fra le stesse quelle di Castromediano, da cui prese il nome, che poi trasmise ai suoi discenti» (v. Carlo Massa, Sigismondo Castromediano, in «Il Bardo», dicembre 2001, che ripropone lo scritto del gallipolino Massa, pubblicato dalla rivista «Natura ed Arti» del 1896).
Tuttavia occorre dire che sin da giovane egli aveva bene in mente l’idea di un’Italia unita, perché per lui non aveva senso che la penisola, sin dalla più antica età denominata col nome che noi oggi le riconosciamo, rimanesse divisa in statarelli, castelli e castelletti, per cui capì subito che per unirla occorreva lottare contro chi in quel momento si opponeva a quell’unità. Fu così che, pure essendo egli un aristocratico salentino di antico lignaggio, si ritrovò accanto al popolo e ai lavoratori di Terra d’Otranto e con essi combatté la monarchia dei Borboni, anche loro membri della stessa classe sociale e regnanti da alcuni secoli il Regno di Napoli, ma restii all’Unità d’Italia. Certo, all’interno del processo risorgimentale, che puntava all’unità della penisola, ci furono pure le mene di alcune potenze straniere, soprattutto Francia e Gran Bretagna, ma una certezza deve rimanere tale, almeno per noi, e cioè che l’unità del paese che noi oggi chiamiamo Italia fu obiettivo unanime dell’intero popolo italiano sia del Nord che del Sud.
Oggi, con il senno di poi, si potranno scrivere fiumi di inchiostro per dire che l’unità poteva essere fatta così o colà, dall’alto o dal basso, oppure che a guidare il processo unitario sarebbero potuti essere i Borboni piuttosto che i Sabaudi, su tutto però un dato rimane inattaccabile, e cioè che fu il popolo italiano a combattere e soffrire per quell’obiettivo. Per 150 anni la penisola, nel bene o nel male, è rimasta unita, e oggi chi vuole perseguire un progetto di una sua nuova divisione lo potrà benissimo propagandare quanto vuole, sarà difficile però, stante le condizioni oggettive dell’epoca in cui viviamo, ottenere un risultato, perché non sono ancora del tutto scomparse le sofferenze e le tribolazioni sopportate dai rivoluzionari unitari del 1799, del 1821, del 1848, del 1859. E tra questi, per citare solo i nostri patrioti coinvolti nei moti del 1848, vanno sicuramente ricordati la gallipolina Antonietta De Pace (1818-1893)), l’altro gallipolino Bonaventura Mazzarella (1818-1882), l’otrantino Gaetano Brunetti (1829-1900), il galatinese Raffaele Albanese (1800-1887), il magliese Oronzo De Donno junior (1819-1886), il manduriano Nicola Schiavoni Carissimo, il tarantino Nicola Mignogna (Taranto), il leccese Giuseppe Libertini (1823-1874), l’altro leccese Achille Dell’Antoglietta, e tanti altri, fino ad arrivare a citare, come gemma del Risorgimento di Terra d’Otranto, Sigismondo Castromediano, fulgida figura di patriota unitario costituzionalista di fede monarchico-sabauda.
Sì, è vero, il Castromediano, nostro grande patriota unitario, fu uomo della Destra politica della nuova Italia, ma detto e precisato questo, nulla toglie alla sua grandezza spirituale e alla sua onestà intellettuale. Un opportuno giudizio, che facciamo nostro, sulla posizione politica del duchino di Cavallino, ce l’ha dato anni fa lo studioso Franco Martina in un suo bel saggio, intitolato Il fascino di Medusa. Per una storia degli intellettuali salentini tra cultura e politica (1848-1964) (Schena editore, Fasano, 1987). Eccolo:
«Il problema del ‘comunismo’ che già aveva turbato i sonni di Castromediano nel ’48, tornava ora con più pungente attualità. E anche nella sua prospettiva deformata esso mise alla prova un progetto culturale. Il laicismo così fortemente intriso di spirito antidemocratico finiva con l’essere l’altra faccia dell’ideologia della salentinità, divenendo l’elemento più idoneo a farne comprendere la valenza politica. Nel clima postunitario caratterizzato dalla caduta della spinta ideale e dalla diffusa tendenza alla svalutazione della politica, il progetto politico-culturale di Castromediano e di Casotti [si riferisce a Francesco, nipote acquisito dello stesso duca] si presentò come una risposta politica e come rifiuto di essa; come una presa di distanza dalla politica della Destra e come una sua difesa. Andò creandosi in questo modo un intreccio ambiguo di politica e cultura che aspetta ancora di essere sciolto» (v. Op. cit., p. 68).
Sigismondo Castromediano fu indubitabilmente un rivoluzionario, sia pure di indole moderata, e si ritrovò a partecipare ai moti a Lecce il 29 giugno 1848 e, successivamente, nel costituendo Circolo Patriottico Salentino, presieduto dal Mazzarella, dove rappresentò, col ruolo di segretario, il circondario di San Cesario di Lecce. Lo storico Pier Fausto Palumbo, per anni battagliero intellettuale delle memorie salentine, ha scritto:
«La figura di Sigismondo Castromediano riassume in sé due momenti – i più alti – della moderna storia di Terra d’Otranto: l’appassionata, fino al sacrificio, difesa degli statuti e della libertà, espressi nel moto quarantottesco, e la consacrazione che di questa libertà si ebbe nei processi e nelle prigioni; e il risorgere degli studi, dopo che l’Unità fu raggiunta e, nelle inevitabili delusioni dell’ora, gli spiriti più sensibili si ritrassero nel passato, quasi a cercarvi ispirazione e conforto per un migliore presente» (v. Pier Fausto Palumbo, Sigismondo Castromediano, in Patrioti, storici, eruditi salentini e pugliesi; Milella, Lecce 1980, p. 3).
Con lo spirito evocato dal Palumbo, il Castromediano fu sincero difensore della nuova Costituzione che, sull’onda delle conquiste (Libertà, Uguaglianza, Fraternità) della Rivoluzione francese del 1789, il re napoletano Ferdinando fu costretto ad emanare il 2 febbraio 1848 anche nel Regno di Napoli. In seguito al tradimento della stessa, abrogata subito dopo dallo stesso re e dalla sua corte, a Lecce e in tutta Terra d’Otranto scoppiarono disordini i e scontri violentissimi. La repressione delle guardie regie borboniche fu tremenda e il Castromediano, il 30 giugno 1848, con l’accusa di cospirazione politica, fu arrestato una prima volta, quindi una seconda (1 novembre 1848) assieme a molti altri, fra cui Nicola Schiavoni, Michelangelo Verri, Domenico Buia, Donadio e il leggendario Epaminonda Valentini, mazziniano della prima ora, cognato di Antonietta De Pace, e colui che introdusse nel Salento le nuove idee mazziniane e repubblicane. Bellissimo il ricordo che il Duca Bianco scrisse del patriota napoletano-gallipolino nel suo libro Carceri e galere politiche. Memorie (R. Tipografia Editrice Salentina, Proprietari Fratelli Spacciante, Lecce 1895), libro che il dantista Aldo Vallone ha definito con queste parole:
«Il documento di tutta una vita e del carattere di un uomo [S. Castromediano] è consegnato alle Memorie, che, almeno nelle parti più vive e drammatiche, meritano oggi di essere ricordate accanto a quelle di altri memorialisti ed esuli meridionali: N. Schiavoni Carissimo, N. Palermo, G. Pica, A. Garcea, S. Spaventa, C. Poerio e così via, fino ai sommi Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini e ai felici cenni che ci è dato trovare nei Ricordi di un orfano di Gioacchino Toma» (v. S. Castromediano, Pagine di narrativa risorgimentale (a cura di A. Vallone, Congedo, Galatina 1974, p. 11).
Ed ecco ora come il Castromediano ricorda Epaminonda Valentini:
«Privi di moto e delle altre necessità, fosca la luce e l’aria impantanata, le ambasce e i dolori da cui eravamo stritolati prepararono la più lacrimevole delle sciagure. Tra noi contavasi anche Epaminonda Valentini, gentile e colto, di modi distinti e piacevole favellatore, di largo cuore, di carattere fermo e di propositi irremovibili, che amava la patria con intensità di sincero patriottismo. Le barricate del 15 maggio [1848], nella capitale lo avevano veduto strenuamente combattere, e di ritorno a Gallipoli sua dimora, scorgendola vacillante, volle riaccendervi viva la fiaccola della libertà. Fu quindi colto anche lui e sospinto in prigione, ma affetto da malattia nel cuore, pingue e di temperamento sanguigno, ristretto in quella bolgia, sentivasi soffocare in ogni ora, invano reclamando un boccone d’aria pura. Le sue istanze, anche appoggiate dal parere dei medici, non gli permisero nemmeno di salire sulle terrazze dello stesso carcere, favore che, con qualche mancia, i custodi concedevano a quanti dei ‘comuni’ piacesse. E fu così che, nel pomeriggio del 29 settembre del 1849, l’Epaminonda, fulminato d’apoplessia, miseramente cadde: – “aria! […] aria!” – gorgogliando nella strozza; e fu quella la sua ultima parola. Spaventati lo sollevammo morto da terra, e lo adagiammo dapprima sopra una sedia, poi sulla cuccia. Implorato soccorso, lo svenarono, ma egli era morto: il sacrificio era già consumato. Non restava che dare un bacio al caro estinto e glielo demmo, e, fatto coraggio a noi stessi, gli togliemmo gli abiti indossati, lo rivestimmo di altri nuovi, lo profumammo con essenze, e lo sollevammo sopra una specie di catafalco improvvisato con gli assiti dei nostri letti, dove stette tutta notte, da noi circondato e da pochi ceri accesi che si poterono ottenere. Modesti funerali gli furono permessi; e nel nuovo giorno vennero a toglierci i resti del caro estinto. E mentre che moltitudine di amici e di curiosi si accalcava avanti al carcere a cederne il trasporto, noi pure dalle finestre gl’indirizzammo l’ultimo vale. Qual giorno di tristezza fu quello! Epaminonda lasciava una giovane sposa dilettissima, e due figlioletti che amava sino al delirio» (pp. 71-72).
È inutile dire quanto grande sia il pathos, la gratitudine, la nostalgia, con cui il Castromediano ricorda questo grande risorgimentalista meridionale. Ed è anche superfluo rimarcare la bellezza della pagina scritta dal duchino di Cavallino, tanto è ovvia l’evidenza che, a buon diritto, questo straordinario libro di memorie, non a torto, è stato da sempre paragonato all’altro suo gemello del Nord, Le mie prigioni di Silvio Pellico.
Com’è noto il Valentini morì a Lecce nelle carceri di san Francesco proprio tra le braccia del duca il quale, assieme agli altri rivoluzionari arrestati, fra cui Nicola Schiavoni (cito solo questo perché, come il Castromediano, era anch’egli di nobile lignaggio di Manduria e che per molto tempo della reclusione seguì passo passo le stesse orme del Cavallinese) toccò loro altra sorte. Nel processo (che durò oltre due anni) intentagli, il Castromediano fu condannato (sentenza del 2 dicembre 1850) a morte per sedizione, commutata poi in 30 anni di carcere. Scrive Oronzo Valentini che egli, di
«animo nobile, forte e risoluto a soffrire, […] fu più volte domandato se voleva la grazia ed egli fieramente la rifiutò. “Non sono io reo, rispondeva il Duca con calma, per aver voluto mantenuta la Costituzione data e giurata dal re, bensì lo è chiunque non la rispetta; né io voglio mai dividere la mia sorte da quella dei miei compagni, ai quali dimando di ritornare”» (v. O. Valentini, Il Duca Sigismondo Castromediano, in «Popolo Meridionale», anno 1, n. 20, Lecce 3 settembre 1895, p. 1).
Assieme allo Schiavoni, Sigismondo Castromediano fu trasferito (4 giugno 1849) dal carcere di Lecce al carcere “Carmine” di Napoli, e da qui, quasi subito dopo, il 22 giugno, in quello di Procida, da dove fu nuovamente trasferito (1852) nel durissimo carcere di Montefusco (Avellino) (è in questo luogo che si svolge la parte più interessante del film di Martone Noi credevamo), dove rimase rinchiuso per 7 anni assieme ad altri patrioti, fra cui Cesare Braico (Brindisi, 1816-1887), N. Nisco, Michele Pironti (Montoro Inferiore, 1814-1885), V. Dono e soprattutto Carlo Poerio (Napoli, 1803-1867), col quale strinse una forte amicizia. Dopo i 7 anni di Montefusco, Castromediano venne nuovamente trasferito (28 maggio 1855) nel carcere di Montesarchio (Benevento), dove rimase rinchiuso altri 3 anni, infine venne trasferito a Nisida e a Ischia, fino a che la sua condanna (dodici anni ormai scontati, dal 1848 al 1859), il 27 dicembre 1858, non venne nuovamente commutata in esilio, che per lui significò l’Inghilterra.
Nel leggendario viaggio sulla nave statunitense “Stewart” conobbe e fece amicizia con Luigi Settembrini (1813-1876), Silvio Spaventa (Bomba, 1822-1993) e Francesco Agresti, anche loro provenienti dalle borboniche prigioni. Della durezza di queste carceri, Raimondo Ruju ha scritto una cruda pagina, parte della quale vale la pena rileggere:
«Procida, Montesarchio e Ischia, assai più che Montefusco e Nisida […] furono le terribili case penali dell’epoca. Ancora oggi, chi percorre la Statale che dalla Puglia penetra in Campania attraverso tutta la serie di valli e gobbe appenniniche che quasi fanno da spartiacque tra le due regioni, può scorgere il fosco Castello di Montesarchio, che domina questa piccola, antica città nelle cui celle, ricavate dai sotterranei, dai vecchi depositi, dalle gigantesche cantine, ebbero tortura e morte centinaia di patrioti incarcerati per delazione, per tradimento o in seguito alle accanite persecuzioni poliziesche. Altrettanto noto fu il bagno penale di Ischia, dal quale sembrava impossibile ogni tentativo di evasione. In questo carcere, come in quello dell’altra isola, Procida, venivano trasferiti tutti coloro che erano ritenuti particolarmente pericolosi per lo Stato borbonico. Vi passò infatti, il fior fiore dei mazziniani, dei costituzionalisti e dei liberali risorgimentali dell’intero Regno di Napoli. Tra questi, Sigismondo Castromediano, che ebbe a sopportare inenarrabili sofferenze, sia fisiche che morali: le catene che portò sono tuttora custodite nel Museo Provinciale di Lecce, e sono di per se stesse la più eloquente testimonianza della terribile vita quotidiana dei detenuti. Tuttavia, Castromediano sopportò quegli anni della sua vita con cristiana rassegnazione, ma con indomabile fierezza, respingendo ricatti indegni e la stessa grazia, che gli si voleva concedere a condizioni ritenute indecorose» (v. R. Ruju, Sigismondo Castromediano, in «Rassegna della Banca Popolare Pugliese», IV, Matino 1977).
Detto ciò, non ci vuole molto a comprendere che Sigismondo Castromediano fu un patriota unitario di tutto rispetto e che la sua biografia politica e umana lo colloca al centro della vicenda risorgimentale salentina tanto che, ancora oggi, nonostante le molte dimenticanze istituzionali e 150 anni di forzature dimenticatorie, è forte il legame che unisce le nostre generazioni alla sua. Lo testimonia una rievocazione storica, scritta da Giancarlo Vallone in occasione del centenario della morte. Questa:
«È difficile ricordare Sigismondo Castromediano dopo che egli stesso vi provvide con le pagine dei suoi ricordi che, insieme a quelle del Pellico, sono tra le più vive e commoventi della memorialistica italiana del Risorgimento […] È questa una chiave […] sulla quale misurare il pensiero politico di Sigismondo Castromediano, rispettando il profilo morale di quel pensiero, nato negli anni di cospirazione e maturato poi nel decennio della prigione e del martirio che ce l’hanno consegnato padre della patria, nella complessità della sua vita e delle sue opere» (cfr. G. Vallone, A cent’anni dalla morte, in «Il Bardo», Copertino, novembre 1995).
Sigismondo Castromediano visse 84 anni spirando, nel conforto di tutti, il 26 agosto 1895 nella sua amata Caballino, città che egli descrisse in un libro rimasto famoso per gli studi delle prime monografie cittadine. L’editore Lorenzo Capone, anch’egli di Cavallino, ripropose questa monografia come la sua prima edizione dell’omonima Casa editrice: Caballino. Comune presso Lecce e l’antica Sibaris in Terra d’Otranto (1976).
Fernando De Domincis, introduttore del volume, ci dice che il manoscritto, sotto dettatura del Duca, fu opera del poeta Giuseppe De Dominicis (il noto Capitano Blak)
«suo compaesano: a lui dettò buona parte delle sue Memorie e gran parte della Monografia […] Del volume ci sono tre stesure: la prima rimasta incompiuta e rinnegata dallo stesso Duca; la seconda riveduta e corretta più volte tanto che è di difficile lettura; la terza contenente la seconda con tutte le correzioni autografe ivi apportate. L’edizione [quella del Casa editrice Capone] rispecchia la terza stesura [ed è] composta da sei quinterni di carta protocollo senza margini per complessive pagine 124» (v. Op. cit., pp. 9-16).
Nel leggere l’introduzione di Fernando De Dominicis, c’è un passo che mi ha fatto molto riflettere. Scrive:
«Sigismondo Castromediano, duca di Morciano e marchese [o duca?] di Cavallino, di portamento altero nella persona ma non tale, comunque, da fargli schivare i rapporti con gli umili, può essere considerato un uomo raro quanto unico soprattutto nella misura in cui preferì far calpestare se stesso ma non i suoi ideali. Alto nella persona, fiero nello sguardo, condusse la sua battaglia contro i Borboni con la penna e con l’intelligenza più che con la partecipazione personale ad azioni di sommossa. Non per questo, però, tradì mai gli ideali liberali che aveva fatto suoi, tutt’altro. Si assunse sempre, con altezzosità e con mitezza d’animo ad un tempo, le sue responsabilità./ Avrebbe potuto arricchirsi rinunziando ad una parte del suo modello di vita (e in effetti furono numerosi quelli che vi rinunziarono una volta cacciato il Borbone), ma preferì ritirasi nel suo avito castello a coltivare ricerche archeologiche e letterarie e a morire tra i suoi contadini: povero ma a testa alta per non essere mai sceso a compromesso con alcuno, tantomeno con se stesso» (v. Op. cit., pp. 9-10).
La storia della fine in povertà di Sigismondo Castromediano mi fa riflettere e mi spinge a rivedere alcune notizie che su di lui avevo registrato precedentemente. Intanto, nel rileggere il suo Testamento ci si accorge subito delle sue generose volontà rivolte al popolo “caballinese”. Scrive:
«Le biancherie ed i panni che i miei nipoti suddetti non giudichino di loro uso, dispensino ai poveri di Caballino […] Ordino e voglio che, fra un mese dal mio decesso, fosse dato in dono e consegnato in mio nome al Museo Provinciale di Lecce, il busto in marmo che mi rappresenta, insieme al basamento di pietra leccese che lo sostiene. Il quale busto è opera dello scultore Antonio Bortone, e trovasi temporaneamente depositato nella casa dei miei nipoti Barone Francesco Casotti e Maria Casetti Castromediano, in Lecce. Al busto tutti i miei eredi sono tenuti nel pari di consegnare e dare allo stesso scientifico istituto gli altri oggetti seguenti, di mia proprietà, cioè: 1. Gli abiti rimasti e la catena che vestivo e trascinavo per amor di patria e di libertà, nelle più disumane galere dei Borboni e che ora si trovano deposte nella cappella del palazzo di Caballino. […]» (v. Op. cit., Il Testamento del Duca Castromediano, in «Popolo meridionale», anno I, n. 22, Lecce, 29 settembre 1895, p. 2).
Il sentimento di francescana povertà del Duca Bianco l’aveva rivelato anche O. Valentini nel suo editoriale allo stesso giornale in un numero precedente. Questo il passo:
«Non parlerò della sua vita politica e delle ingiustizie commesse dai governi che nominarono senatori dei Carneaidi e degl’imbroglioni e trascurarono il nome del Duca Castromediano che aveva reso dei grandi servigi alla patria./ Ridotto quasi alla povertà e perseguitato, egli non sbatacchiò mai le sue catene per ottenere sussidi o posti rimunerativi. Castromediano non volle mai nulla; egli era contento di quel poco che la Provvidenza gli aveva salvato dalla generale rovina della sua ricchissima casa./ A questo proposito rammento che parecchi suoi generosi ammiratori milionari, più volte, si offrirono di dargli somme per accomodare le sue malandate faccende; ma l’onest’uomo le rifiutò sempre./ Egli lavorava, studiava, scriveva, leggeva sempre. […] Sigismondo Castromediano era veramente una gloria vivente, un’esemplare e rara esistenza, un uomo d’un’altra età./ Con la sua morte, Terra d’Otranto perde[tte] l’uomo più importante, il suo vero primo cittadino; l’Italia l’uomo che, circondato dalla venerazione universale, faceva palpitare gli stranieri di affetto e di entusiasmo per le cose italiane» (cfr. O. Valentini, Il Duca Sigismondo Castromediano, in «Popolo meridionale», anno I, n. 2, Lecce, 3 settembre 1895, p. 1).
Come si vede, c’è sempre il riferimento alla povertà del duca, riferimento che verrà ripreso ulteriormente in altri interventi durante i funerali, tenuti a Cavallino il 27 agosto 1895, fra cui quello di Leonardo Stampacchia, che parlò a nome dell’Associazione progressista, e che disse:
«O Sigismondo Castromediano, scontasti bene amaramente il fallo giudicato supremo dai despoti del Reame di Napoli. Tu, stirpe di superbi signori, che furono dal medio-evo in poi saldi sostegni del trono e dell’altare; – tu osasti far ribellione alla incombente tirannide dei Borboni; e trasformasti questa casa [il palazzo marchesale di Cavallino] di signoria feudale in tempio di libertà, consacrato alla nazionale resurrezione. […] Tu muori povero; e questa povertà è la più splendida gemma della corona del tuo martirio: ché se le sfolgoranti dovizie avite mancano al tuo retaggio, questo è glorificato dalla vesta e dalla catena di galeotto, che posano oggi appreso al tuo cadavere, e ai posteri tramanderanno la tua apoteosi» (v. idem, p. 2).
Dello stesso tenore è pure l’orazione funebre di Giuseppe D’Oria, prof. dell’allora Istituto Tecnico, che parlò a nome dei suoi amici più cari:
«Chi ha conosciuto in vita il Duca Castromediano, chi si è solo una volta intrattenuto con lui, ne ha certo ammirato il carattere fermo, incrollabile e dolce ad un tempo; sotto il suo sorriso carezzevole e ispirante fiducia ha sentito vibrare l’acciaio che conformava quegli animi i quali, al par di lui, amarono di vero amore la libertà e il bene della patria, come lui per questi ideali santi soffersero, come lui son morti poveri, di quella povertà che è stata l’apoteosi più splendida della loro vera grandezza» (idem, p. 2).
Oggi, a Cavallino, a ricordare questo grande dell’Unità d’Italia, vi sono tante testimonianze anche monumentali, mentre a Lecce, oltre al Museo provinciale che porta il suo nome, tra Santa Croce, la Chiesa del Buon Consiglio e Palazzo Carafa (sede del Municipio) c’è piazzetta Sigismondo Castromediano con al centro la sua splendida statua bronzea, scolpita dall’esperta mano di Antonio Bortone. È lì, al centro di quella piazzetta, che noi oggi, nell’anno che celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, andremo a deporre una corona di alloro a ricordo dei Martiri del Risorgimento salentino e al patriota unitario Caballinese, che soffrì il carcere e morì povero per il bene della Patria Italia.
[2011]