Il primo effetto della moltiplicazione e polilocazione è un paradosso. Ricordiamo che la filosofia del linguaggio ha come fondamento l’assioma secondo cui ogni pensiero riceve il suo significato dal contesto in cui si trova. Moltiplicando un pensiero e mettendolo in luoghi diversi osserviamo che la diversità dei luoghi, essendo una diversità di contesti, è un fattore di diversificazione, perché non può non modificare ciò che riceve. Risulta che i pensieri, trovandosi in contesti diversi, rimanendo identici, divengono diversi congiungendo la loro identità con la loro diversità.
Inserito tra i poeti Valéry è dunque identico al Valéry inserito tra i pensatori, ma diverso. Anzi, la migliore prova che egli merita questo onore è fornita dal fatto che egli si accorse di congiungere l’identità con la diversità e riuscì ad esprimere in modo chiaro questa sua scoperta: “Chaque ‘chose’ est en réalité ‘plusieurs choses’ à la fois” (pag. 170).
In tal modo, grazie alla potenza della nostra ragione, capace di moltiplicare i nostri pensieri, si arriva alla grande scoperta ontologica: ogni oggetto è molteplice; sembra uno, ma in realtà è “molti oggetti in una volta”.
Nelle “filosofie vecchie” tra mondo dei soggetti e mondo degli oggetti c’era un abisso. Come fondamento di questa divisione era posto il dogma secondo il quale i soggetti sono attivi e gli oggetti sono passivi. La falsità di questo dogma è evidente; basta ricordarsi che tutto il nostro sapere sul mondo degli oggetti lo dobbiamo all’incessante attività degli oggetti che attaccano i nostri sensi inviando miliardi di segnali sulla loro esistenza.
Anzi, ogni oggetto (essendo in realtà “molti oggetti”) svolge non una sola attività, ma molte diverse attività ad una volta. Valéry si serve della parola “fonctions” e spiega che siamo abituati a concentrare la nostra attenzione solamente su una delle funzioni, e perciò la stragrande maggioranza degli uomini non si rende conto della “molteplicità interna” dell’oggetto.
Se io non avessi gli “Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche in Napoli” nella mia casa varsaviese in via Dante, se io non avessi letto la memoria della dottoressa Benedetta Zaccarello, ma anzitutto se essa non fosse penetrata negli strati più profondi dei Cahiers di Valéry, trovato i nascosti tesori e mostrato la sua scoperta, non avrei mai saputo che un poeta francese si era avvicinato al nucleo centrale del mio sistema.
Tra questi tesori mostrati dalla dottoressa Zaccarello trovo anche la stupenda anticipazione valeriana del mio concetto di res creanda, che pure è un concetto paradossale perché è un nome dell’oggetto che non esiste (non esiste ancora), ma già manifesta il suo desiderio di esistere, la propria richiesta di crearlo.
Nel mio sistema il nome di “res creanda” significa v i s i o n e di un “oggetto da creare”, cioè anzitutto un libro da scrivere, un simposio da organizzare, un quadro da dipingere, una musica da comporre, ed anche – ma in un senso essenzialmente diverso – un’allieva o un allievo da educare in tal modo che fossero capaci di fare ricerche e scoperte, scrivere libri, costruire nuove teorie. Ed ecco, nei Cahiers di Valéry la dottoressa Zaccarello ha trovato la versione francese di questo nome: “Qu’est ce que l’homme? N’est-ce pas une chose à faire?” (pag. 180).
Il contesto nel quale Valéry ha introdotto questa espressione mi rende perplesso, perché esiste il pericolo di una falsa interpretazione che deve essere decisamente respinta. Il Maestro – anche perfetto – non ha diritto di ridurre gli allievi a “oggetti” intesi come materia grezza per le sue creazioni. Non deve trasformare gli allievi in copie identiche alla sua personalità. Anzi, il primo dovere del Maestro è formare i “soggetti” capaci di creare se stessi attraverso una serie di atti di autocreazione.
[“Presenza taurisanese” a. XXXVIII n. 10 / ottobre 2020, p. 13]