2. per quanto attiene al commercio internazionale, le diseguaglianze possono favorire le ‘guerre commerciali’ e generare quindi protezionismo e conseguente caduta degli scambi. La crescita delle diseguaglianze, infatti, generando eccesso di risparmio si associa a elevati surplus commerciali, che, per essere assorbiti, richiedono che qualche Paese consumi più di quanto produca.
3. Le diseguaglianze possono anche avere impatti di segno negativo sulla dinamica del debito pubblico in rapporto al Pil. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che, comprimendo il denominatore di questo rapporto, accrescono il rischio associato all’acquisto di titoli di Stato e dunque fanno aumentare gli interessi passivi che uno Stato deve ai sottoscrittori.
Si badi che, nel caso italiano (e non solo), l’esistenza di una correlazione fra crescita delle diseguaglianze e debito pubblico è agevole da rintracciare. L’indice di Gini è stato, in Italia, in continua crescita negli ultimi decenni, portando il nostro Paese nella condizione di essere uno dei più diseguali su scala OCSE. Al tempo stesso il debito in rapporto al Pil è sempre cresciuto. Nelle previsioni di Confindustria, il debito è peraltro destinato a crescere dal 134.6%del 2020 al 157.8% del 2021.
Questa correlazione destituisce di fondamenta la tesi – ampiamente accreditata – per la quale l’Italia non aveva alternative alle politiche di austerità del Governo Monti perché ereditava un periodo di elevata spesa pubblica e, per conseguenza, di elevato debito pubblico.
Questa tesi appare smentita nei fatti. In primo luogo, nel periodo precedente l’insediamento del Governo Monti (2011-2013) l’Italia faceva registrare ancora avanzi primari. In secondo luogo, quasi mai il nostro debito è aumentato per l’aumento della spesa pubblica; è quasi sempre aumentato per l’aumento degli interessi sui titoli di Stato.
È da salutare con interesse il recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale che invita i Paesi industrializzati ad uscire dalla crisi della pandemia attraverso maggiori investimenti pubblici in conto capitale. Si tratta delle voci di spesa più sacrificate in nome dell’austerità: eppure si tratta del modo più saggio di fare spesa pubblica e del modo meno indolore con il quale inaugurare una stagione di maggior intervento pubblico in economia. Gli investimenti pubblici, infatti, hanno il maggior moltiplicatore fiscale rispetto ad altre voci del bilancio pubblico e costituiscono un trasferimento con segno positivo di ricchezza e di capitale fisico dalle generazioni presenti alle generazioni future.
Gli investimenti pubblici sono un fondamentale traino della crescita anche se realizzati nel settore della formazione. Qui l’intervento pubblico è cruciale al fine di indirizzare il sistema nella direzione di maggiore inclusività e maggiore equità.
Il settore della formazione, infatti, soprattutto nei Paesi anglofoni è tradizionalmente quello che maggiormente determina la mobilità sociale, che, come gli ultimi rapporti OCSE stabiliscono, è ormai di fatto ferma proprio negli Stato Uniti, Inghilterra e appunto Italia.
Occorre una radicale revisione negli stili di ragionamento economico che porti all’affermazione di un paradigma diverso da quello neo-liberista, per avere, contestualmente, maggiore spesa pubblica sotto forma di investimenti pubblici e lotta alle diseguaglianze, non più viste (come nella teoria oggi dominante) come al più un problema morale, ma come un fattore essenziale che ritarda la crescita e la diffusione del benessere materiale.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 ottobre 2020]