Si avvicina un cane, un randagio grigiofumo, si stende ai suoi piedi, si rotola, alza le zampe, guaisce ruffiano. La ragazza gli dice qualcosa con voce ferma, come un rimprovero, un disappunto, un affettuoso scontento. Forse la ragazza di novant’anni e il randagio si conoscono da tempo. Forse quello che si dicono è un discorso più volte sospeso. C’è un velo di nuvola rosa intorno alla luna e una brezza leggera che scivola fra i vichi, si spande per la piazza, accarezza i vestiti.
I rintocchi segnano i quarti dell’ora. Però si ha l’impressione che quel rintocco del tempo non sia altro che una finzione. Si ha l’impressione che il tempo non esista davvero, che sia parte di una scena recitata dall’Eterno, una di quelle scene con le quali si rammemoraa ciascuno il proprio essere finito e infinitamente piccolo.
Un luogo da scoprire, da riscoprire, in questi giorni d’autunno. Se non è possibile anche solo da pensare, da ricordare, immaginare. Un paese in cui ritrovarsi, forse, riconoscersi, anche. Per esempio un paese a Sud del Sud che sembra il paese di una filastrocca, uno di quei paesi costruiti sulle pianure dei libri di lettura.
Da una persiana all’improvviso si affaccia una voce. Un canto sommesso. Un sussurro appena più forte. Una ninnananna, forse, in lingua antica. Un griko, forse. Voce di donna. Limpida, arrochita solo in qualche accento, in una modulazione. Quasi che quel passaggio di canto sia un abbandono al ricordo che porta con sé il brivido leggero di un sogno segreto.
Forse era così il canto delle sirene. Forse è così la voce di un desiderio tremante e lungotempo taciuto. Il lamento per una pena nascosta forse è così.
Poi i rintocchi del campanile spengono la voce. Come se avessero segnato la conclusione di un tempo, o come se da quel momento cominciasse un’altra vita, quella della notte che è separata, diversa, distinta da quella del giorno.
La bellezza di un luogo forse è un paese così, a Sud del Sud: che pare venuto fuori da una poesia di Vittorio Bodini o di Vittore Fiore.
E’ un paese che si riprende tutto il sapore della memoria. Un luogo che oscilla tra passato e futuro, mentre il presente scorre come il rigagnolo lungo il marciapiede che viene da vasi di fiori appena innaffiati. E’ un paese situato sul confine fra la realtà e l’immaginazione, dove ogni cosa sembra che sia vera e sia falsa ad un tempo solo, dove sembra che tutto sia già accaduto, che tutto debba ancora accadere, e le ore che passano non hanno dolore oppure hanno un dolore cosciente, pacato, forse anche sapiente, perché sanno che è parte delle stagioni, come la felicità, la giovinezza, l’allegria e la tristezza, l’euforia, la malinconia. La vita e la morte.
E’ un paese che vive un’attesa pacata del giorno a venire. Forse come il geco che si muove lentamente nell’ombra del fogliame di un rampicante che si distende sul muro.
La bellezza è in questo rifugio: in un paese che come diceva Pavese essenzialmente vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
L’orologio batte quattordici rintocchi. Undici forti, tre deboli, soffici. Manca un quarto alla mezzanotte. Ma è l’ora sbagliata di un orologio rimasto indietro, che nessuno ha pensato di aggiustare, perché qui il tempo che conta è quello di dentro, quello profondo.
La bellezza di un paese è un paese così, a Sud del Sud, in una sera così.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 18 ottobre 2020]