E’ dunque il combinato della caduta della domanda e della pressoché totale deregolamentazione dei mercati finanziari a dar luogo a questi esiti, pure a fronte di casi isolati di illeciti che, tuttavia, non possono essere considerati la causa del cattivo funzionamento del nostro sistema bancario.
In questo scenario, si genera il paradossale esito per il quale il sistema bancario, invece di finanziare gli investimenti, contribuendo a generare crescita, produce rischio e, in tal modo, accentua l’instabilità sistemica.
E’ forse ancora più paradossale il fatto che il Governo rinuncia ad attuare politiche fiscali espansive, che avrebbero l’effetto di accrescere l’occupazione, i consumi e i profitti monetari (quantomeno delle tante imprese italiane che operano sul mercato interno) e dunque a rendere solvibili le imprese, a fronte del fatto che è poi chiamato a “salvare” le banche attraverso aumenti di spesa pubblica o incrementi di tassazione. In altri termini, anziché prevenire i fallimenti, il Governo spende risorse per porre rimedio ai fallimenti una volta avvenuti. La reiterazione di queste misure le rende difficilmente comprensibili.
Vi è di più. Per i salvataggi bancari, dati i vincoli posti in sede europea in ordine alla crescita del deficit pubblico, il Governo ricorre prevalentemente ad aumenti dell’imposizione fiscale. La ripartizione dell’onere fiscale non è affatto una questione puramente tecnica, ma risente del potere contrattuale che banche, imprese e lavoratori hanno nella sfera politica. Nel caso italiano, il sistema bancario ha un elevato potere politico soprattutto a ragione del fatto che è creditore dello Stato, detenendo la gran parte dei titoli del debito pubblico. In tal senso, non è conveniente tassarle. Ed è per contro possibile e conveniente tassare soggetti che non sono creditori dello Stato: i lavoratori e le piccole imprese. E’ un fenomeno, non solo italiano, di redistribuzione del reddito a beneficio delle rendite finanziarie, che è stato definito “From Man Street to Wall Street” (dall’uomo della strada a Wall Street), e che contribuisce ad accrescere le diseguaglianze distributive e ad alimentare il circolo vizioso di bassi consumi, bassi profitti, elevate insolvenze e restrizione del credito. E contribuisce anche a rafforzare il potere di orientamento delle scelte di politica economica da parte della finanza. E’ stato rilevato, a riguardo, che, presso gli organi comunitari, operano 1700 lobbisti e più di 700 organizzazioni espressione del mondo bancario e finanziario, fra i quali la British Bankers Association e la German Banking Industry Commitee sono quelli che maggiormente incidono sulle scelte del Parlamento e della Commissione Europea. In questo scenario, è difficile attendersi misure di maggiore regolamentazione del mercato del credito ed è dunque più facile prevedere che, proprio per l’assenza di queste misure, l’operare del sistema bancario continuerà a contribuire a generare crisi.
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DI COSA SI OCCUPANO GLI ECONOMISTI?*
[in Keynes blog del 15 gennaio 2016, col titolo Il mainstream economico tra “neutralità politica” e lunghezza del pene]
SINTESI. La riforma dell’Università italiana, e il suo sottofinanziamento, hanno accentuato un fenomeno già in atto nel campo della ricerca economica, ovvero l’egemonia del c.d. mainstream liberista. E hanno anche contribuito al proliferare di studi caratterizzati dall’espulsione di qualunque elemento politico dal discorso economico e dalla sostanziale irrilevanza dell’oggetto di studio. Il mainstream, la visione egemone, è oggi questo: una galassia di teorie che non sempre e non necessariamente portano a prescrizioni di politica economica di segno liberista, e che spesso si traducono in esercizi autoreferenziali o bizzarri o concepiti nel quadro di una visione cumulativa della conoscenza, associata alla convinzione che l’Economia sia una scienza, nell’accezione della Fisica Teorica.
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L’Economia è una disciplina che orienta le decisioni politiche e che, per questo tramite, influisce in modo significativo sulle nostre condizioni di vita e di lavoro. Chiedersi di cosa si occupano gli economisti, in Italia e non solo, non è dunque una domanda oziosa.
Il punto di partenza è dato dalla constatazione che questo non è un periodo particolarmente fecondo di nuove idee. E’ quello che Alessandro Roncaglia, nel suo testo La ricchezza delle idee, ha definito l’età della disgregazione. La ricerca in Economia, non solo in Italia, è sempre più frammentata e specialistica, e soprattutto sempre più ‘autistica’: gli economisti tendono a dialogare esclusivamente fra loro, spesso coprendo di sofisticati tecnicismi o montagne di matematica pure banalità, tautologie o, nella migliore delle ipotesi, teorie che non “spiegano” nulla, né hanno l’ambizione di farlo[1].
Continua, e si accentua, l’egemonia del mainstream neoclassico-liberista – termine diffusamente usato, sebbene ambiguo – che tende sempre più a marginalizzare la tradizione di studi marxisti, neo-ricardiani e keynesiani che sono stati prodotti dai maggiori economisti italiani nella seconda metà del Novecento: una tradizione di ricerca che ha portato all’affermazione di teorie elaborate in Università italiane nel resto del mondo (da un po’ di anni l’Italia è importatore netto di teorie economiche).
Questa tendenza è favorita dalle nuove modalità di reclutamento e di avanzamento di carriera nelle Università derivante dalla c.d. Legge Gelmini. L’accesso alla carriera universitaria è, oggi, in Italia, non solo estremamente difficile (per non dire quasi impossibile) ma anche sempre più legata a lunghi periodi di precariato. Ciò per questa ragione. La riforma Gelmini ha sostituito al ruolo del ricercatore a tempo indeterminato (ruolo che va ad esaurimento) quello del ricercatore a tempo determinato. Al tempo stesso, si sono ridotti in modo massiccio i finanziamenti alle Università e si è legata la possibilità di reclutamento alla disponibilità di “punti organico” (facoltà assunzionali). In queste circostanze, si disincentiva l’assunzione di giovani ricercatori dal momento che questa costerebbe più dell’avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato[2]. In un contesto di continua riduzione di fondi, si può comprendere che, anche in presenza di giovani molto preparati, si tenda a preferire, risparmiando, l’uso di risorse umane già disponibili.
Chi viene reclutato e come avvengono gli avanzamenti di carriera (da ricercatore a professore)? Qui entrano prepotentemente in gioco i criteri di valutazione prodotti dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR). L’ANVUR – il cui costo di funzionamento è stimato a circa 10milioni l’anno – stabilisce un elenco di riviste sulle quali i ricercatori sono chiamati a pubblicare, definendole di classe A (http://www.anvur.org/attachments/article/254/RIVISTE_CLASSE_A_AREA13_R.pdf) sulla base di tecniche e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che ANVUR considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca. La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglo-canadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto, e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica: è recente la denuncia dell’Accademia dei Lincei contro l’uso di indicatori bibliometrici per la valutazione della ricerca, soprattutto nelle scienze umane e sociali (per approfondimenti rinvio a www.roars.it). E va anche ricordato che negli Stati Uniti – le cui Università sono comunemente ritenute estremamente sensibili alla “cultura della valutazione” – l’impact factor non è quasi mai considerato un indicatore attendibile per valutare la qualità della produzione scientifica. In Italia, i (pochi) reclutamenti nelle Università italiane e i (pochi) avanzamenti di carriera dei docenti universitari avvengono prevalentemente sulla base della qualità della ricerca scientifica dei candidati, come certificata dalla lista delle riviste elaborata da ANVUR sulla base del loro impact factor. Il che genera un meccanismo potenzialmente vizioso. La gran parte delle riviste considerate eccellenti tende a pubblicare articoli il cui contenuto è in linea con la visione dominante. Ciò induce attitudini conformiste, soprattutto da parte delle giovani generazioni, impedendo di fatto la produzione di ricerche realmente innovative. E poiché l’attività didattica non è mai disgiunta dall’attività di ricerca, i contenuti dell’insegnamento tendono a diventare sempre più conformi alla visione dominante, rendendo gli studenti sempre meno informati su teorie alternative a quelle dominanti[3].
Qui è rilevante chiedersi cosa e come gli economisti comunicano, ovvero quali teorie espongono e quali tecniche argomentative utilizzano per persuadere i loro interlocutori. Un utile punto di partenza è dato dalla considerazione di McCloskey secondo la quale “la ricerca della Verità è una cattiva teoria delle motivazioni umane” e gli scienziati “come esseri umani, cercano la forza di persuasione, l’eleganza, la soluzione di rompicapi, la conquista di dettagli sfuggenti, la sensazione di un lavoro ben fatto, l’onore e il reddito che derivano da un incarico”. Se si assume questo punto di vista, occorre chiedersi come gli scienziati (nel nostro caso, gli economisti) riescano a ottenere reputazione. In linea di massima, possono ottenerla per due canali non necessariamente alternativi: diventando “consiglieri del Principe” e/o cercando di ottenere il massimo numero di citazioni dei propri articoli. Con ogni evidenza, ciò avviene all’interno di specifici dispositivi di finanziamento e valutazione della ricerca scientifica, giacché, da un lato, il “Principe” ha sue idee politiche che necessitano di essere legittimate dalla ricerca stessa e, dall’altro, i dispositivi di finanziamento e valutazione non sono affatto neutrali rispetto ai contenuti delle pubblicazioni scientifiche. Anzi, i meccanismi che presiedono al finanziamento e alla valutazione, almeno nel campo delle scienze sociali (e, ancor più, in Economia) sono intrinsecamente normativi e sono normativi nel senso che non possono che assecondare gli interessi economici dominanti – o quantomeno non possono contrastarli. E’ ciò che si può definire un effetto di cattura degli economisti da parte di gruppi di interesse che esprimono una domanda politica di idee economiche. Occorre rilevare che tale domanda non necessariamente implica che l’economista debba legittimare politiche economiche che avvantaggiano alcuni gruppi a danno di altri, potendo, per contro, incentivare – tramite la distribuzione di finanziamenti e la valutazione della ricerca – il proliferare di studi che eliminano qualunque connotazione politica dal discorso economico. E’ ciò che viene definito l’imperialismo dell’economia. E’ un dato di fatto che un numero consistente e crescente di economisti si occupa di temi che non attengono propriamente a ciò che si sarebbe indotti a considerare temi economici. Ne costituiscono esempi l’economia della famiglia, l’economia della religione, l’economia della bellezza, l’economia dello sport, la teoria economica del tempo libero. Si tratta di studi che applicano il criterio della razionalità strumentale a qualunque scelta possibile, a volte giungendo a risultati talmente improbabili da meritare il c.d. IGnobel in Economia o da essere destinati alle “Humor Sessions” dell’American Economic Association. E già il fatto che esistano Humor Sessions nell’ambito dei convegni della più grande associazione scientifica di settore la dice lunga sullo stato della disciplina. A questi studi si affiancano ricerche puramente empiriche che certificano correlazioni senza causazioni, o correlazioni spurie: si verifica, cioè, che il fenomeno X è statisticamente correlato al fenomeno Y, ma che X non “causa” Y, dal momento che il fenomeno che si intende spiegare dipende da altre variabili e, dunque, la correlazione fra X e Y è del tutto casuale. E’ come rilevare che al crescere del numero di cicogne cresce il numero di neonati. In più, in questi esercizi spesso le variabili considerate non attengono alla sfera tradizionale dell’indagine economica. Un esempio estremo, che ha fatto molto discutere nella comunità scientifica internazionale, riguarda un articolo che affronta il fondamentale problema se la lunghezza del pene influenzi la crescita economica (https://mpra.ub.uni-muenchen.de/32706/1/MPRA_paper_32706.pdf).L’autore rileva che la correlazione esiste: Paesi nei quali la lunghezza del pene è maggiore tendono ad avere più alti tassi di crescita, e prova a motivarla con l’effetto che il testosterone avrebbe sulla propensione al rischio e, quindi, sulla dinamica degli investimenti. L’autore chiarisce che questo effetto potrebbe anche verificarsi per l’elevata autostima che deriva dall’avere un pene lungo e che un “eccesso” di lunghezza del pene potrebbe generare eccessiva assunzione di rischio. Si tratta di una variante di un certo interesse dell’Economica e del suo imperialismo, dal momento che riflette un’ulteriore tendenza tipica di questo approccio e che si potrebbe definire di misurazione senza teoria. Due caratteristiche accomunano i due approcci: i) l’espulsione di qualunque elemento politico dal discorso economico; ii) la sostanziale irrilevanza dell’oggetto di studio, se si considera rilevante un’analisi che prenda ad esame variabili propriamente economiche.
Il mainstream, la visione egemone, è oggi questo: una galassia di teorie che non sempre e non necessariamente portano a prescrizioni di politica economica di segno liberista, e che spesso si traducono in esercizi autoreferenziali o bizzarri o concepiti nel quadro di una visione cumulativa della conoscenza, associata alla convinzione che l’Economia sia una scienza, nell’accezione della Fisica Teorica.
Note
* Questo testo è una stesura ridotta e rielaborata di un’intervista rilasciata a www.siderlandia.it
[1] Si veda la denuncia dello scarso collegamento fra elaborazione teorica e fatti economici di Ronald Coase: http://www.hbritalia.it/blog/item/913-salvare-l%E2%80%99economia-dagli-economisti.html#.VmWO89LhDGg
[2] Sulla questione del sottofinanziamento delle Università italiane, si rinvia, in particolare a http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-crisi-dell-universita-italiana-31995
[3]Come hanno osservato, in particolare, Bellofiore e Vertova, in un articolo pubblicato sul “Manifesto” del 22 marzo 2012, dal titolo “Per una critica della valutazione”, la valutazione della ricerca, basata sulla “cultura della valutazione” (ovvero quella fatta propria dall’ANVUR), inevitabilmente genera omologazione, dal momento che non riconosce l’esistenza di una pluralità di “paradigmi” teorici in conflitto fra loro.
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IL JOBS ACT, LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE E LA REPRESSIONE DEL CONFLITTO
[“MicroMega” online del 16 gennaio 2016]
SINTESI. Il Jobs Act non ha contribuito alla crescita dell’occupazione in Italia, in particolare dell’occupazione giovanile. Ciò fondamentalmente a ragione della contrazione della domanda aggregata, imputabile essenzialmente alla riduzione degli investimenti e all’aumento dei risparmi precauzionali, in condizioni di crescente incertezza. Aumentano, per contro, i tassi di inattività e il lavoro improduttivo di sorveglianza e repressione del conflitto, e aumenta conseguentemente la spesa pubblica per farvi fronte. Delineando uno scenario del tutto irrazionale, nel quale lo Stato rinuncia ad accrescere l’occupazione attraverso incrementi di spesa pubblica per poi trovarsi nella condizione di dover comunque aumentare la spesa per garantire l’ordine pubblico.
Nella migliore delle ipotesi, ovvero volendo attribuire interamente al Jobs Act la creazione di nuovi posti di lavoro, si può stimare che, con riforma realizzata, l’occupazione è aumentata di circa 83.000 unità, nel periodo compreso fra gennaio e ottobre 2015. Ma occorre considerare che, nello stesso periodo del 2014, il numero di nuove assunzioni si è assestato a 174.000 unità, ovvero più del doppio. In più, su fonte ISTAT, per l’Istat tra il secondo e il terzo trimestre 2015 i disoccupati scoraggiati sono aumentati di 300.000 unità. Si registra anche un aumento del numero di lavoratori indipendenti: un dato che si presta a interpretazioni non univoche, dal momento che è verosimile che si tratti di giovani con occupazione discontinua, con partita IVA, in una condizione di lavoro subordinato, per così dire, nascosto. In più, su fonte Eurostat, si rileva che è ancora in aumento la disoccupazione intellettuale: solo un laureato su due trova lavoro nel nostro Paese, mentre siamo fanalino di coda per l’occupazione dei diplomati (30,5% a fronte di una media UE del 59,8%). Le statistiche sui laureati sono ancora più imbarazzanti perché risultiamo il Paese con meno laureati fra i 30 e i 34 anni, con una percentuale del 23,9% contro la media europea del 37.9%. A ciò si aggiunge il fatto che non aumenta l’occupazione giovanile, in un contesto, quello europeo, caratterizzato – per contro – da una significativa riduzione dei tassi di disoccupazione, come certificato da Eurostat.
Ciò non significa che il Jobs Act ha contribuito a ridurre l’occupazione: significa che la nuova legislazione del mercato del lavoro ha scarsissima influenza nel determinare gli andamenti dell’occupazione e che, dunque, questi sono influenzati in misura rilevante da fattori diversi rispetto a quelli che (de)regolamentano le assunzioni. Si osservi che la propaganda governativa mira a evidenziare la crescita delle assunzioni con contratti a tempo determinato: si tratta appunto di propaganda, nel senso che il Jobs Act si traduce in sgravi fiscali per assunzioni con contratti a tutele crescenti per anzianità di servizio (in sostanza, diventa sempre più difficile essere licenziati all’aumentare degli anni di servizio in azienda); cosa ben diversa dal tradizionale contratto propriamente a tempo indeterminato[1].
E’ molto plausibile che la mancata crescita dell’occupazione sia stata significativamente influenzata dall’andamento della domanda aggregata[2] e, in particolare, da due fattori.
1) In primo luogo, va evidenziato che la dinamica degli investimenti privati continua a essere di segno negativo rispetto agli scorsi anni. In più, le esportazioni nette, nel corso dell’ultimi anno, non hanno contribuito a far crescere la domanda, anzi. Su fonte ISTAT, si registra, per il 2015, una contrazione del saldo commerciale dai 5.3 miliardi dell’ottobre 2014 a circa 4.8 miliardi dell’ottobre 2015. Ciò è accaduto fondamentalmente a ragione del pur modesto aumento del tasso di crescita, che si è immediatamente tradotto in un rilevante aumento delle importazioni. La pressoché totale dipendenza del nostro settore produttivo dall’acquisto dall’estero di prodotti energetici, di beni strumentali e di prodotti intermedi ha prodotto una crescita delle importazioni nell’ordine del 5% (http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/il-deficient-spending-della-renzinomics/).
2) In secondo luogo, è continuato, nel periodo considerato, l’aumento dei risparmi per motivi precauzionali. Si tratta di un fenomeno tipicamente associato a un aumento dell’incertezza, che, nel contesto attuale, è in larga misura dipendente dal continuo aumento della disoccupazione giovanile e dei tassi di inattività, nella sostanziale assenza di ammortizzatori sociali. In altri termini, le famiglie italiane hanno reagito e reagiscono alla bassissima probabilità per i loro figli di trovare occupazione trasferendo loro reddito, ovvero sostituendosi allo Stato nell’erogazione di sussidi; il che, sul piano macroeconomico, si traduce in riduzione della domanda e conseguente riduzione dell’occupazione.
In questo scenario, i trasferimenti monetari alle famiglie (p.e. la manovra dei 500 euro) hanno scarsa efficacia, così come rischia di essere scarsamente efficace una manovra “espansiva” – come vuole essere quella contenuta nella Legge di Stabilità 2015 – che non agisca sui fattori strutturali che frenano la crescita dell’economia italiana: fra questi, in primo luogo, le piccole dimensioni aziendali e la bassa propensione a innovare. I trasferimenti monetari, infatti, in una condizione di elevata incertezza e di elevata pressione fiscale, si traducono (come si è verificato con la manovra dei 500 euro per gli incapienti) in aumenti di risparmi con effetti pressoché nulli sui consumi e la domanda interna. Ciò anche a ragione della drammatica compressione dei servizi di Welfare. La riduzione dei fondi alla Sanità e all’Istruzione (combinata con la loro progressiva privatizzazione), in un contesto di crescente invecchiamento della popolazione, spinge le famiglie a ridurre i consumi di beni e a destinare risorse crescenti a servizi di cura e alla scolarizzazione. Incidentalmente, si può osservare che la compressione dei servizi di Welfare ha contribuito e contribuisce alla continua riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro, per l’ovvia considerazione per la quale una popolazione poco istruita e con difficile accesso alle cure mediche è poco produttiva.
Vi è di più. La bassa probabilità di trovare impiego tende a generare due effetti. In primo luogo, e per quanto attiene a individui che possono sopravvivere attingendo ai risparmi accumulati, vi sono effetti di scoraggiamento e bassa intensità della ricerca di lavoro. In secondo luogo, e per quanto riguarda individui che non hanno redditi non da lavoro, l’inattività tende a trasformarsi in comportamenti anti-sociali, producendo un aumento delle attività criminali, come messo in evidenza da un recente rapporto di Bankitalia[3] Si può considerare, a riguardo, che il numero di detenuti è in continuo aumento, così come lo è la spesa pubblica per attività di repressione del conflitto[4]. E’ bene chiarire che si tratta di un fenomeno non solo italiano e che è significativamente correlato con l’aumento delle diseguaglianze distributive, come mostrato in Fig.1. Si può anche rilevare che le attività criminali sono di norma maggiori in presenza di elevata disoccupazione giovanile, secondo un effetto noto come age-crime curve per il quale gli individui nella fascia d’età superiore ai quaranta tendono a delinquere meno[5].
Figura 1: diseguaglianze distributive e detenzioni carcerarie nei Paesi OCSE
Se anche si ammette che la riduzione della conflittualità generi effetti macroeconomici positivi (ad esempio, perché incentiva gli investimenti), la conflittualità non espressa nelle relazioni industriali si manifesta altrove, con danni anche economici niente affatto trascurabili. Ci si riferisce all’alternativa fra exit e voice, ovvero fra ‘uscita’ e protesta[6], ovvero all’aumento rilevante delle forme di conflittualità non istituzionalizzate. Ci si riferisce, in altri termini, all’aumento della criminalità imputabile alla povertà crescente e alla crescente disuguaglianza della distribuzione dei redditi. Il problema è stato a lungo studiato negli Stati Uniti e lì le indagini più recenti segnalano un incremento estremamente rilevante del numero di crimini e di sovraffollamento delle carceri. Prima della crisi, si calcola che circa 1/5 della forza-lavoro statunitense è stata impegnata in attività di repressione e sorveglianza. Lo ‘Stato prigione’ (Garrison State) è la definizione data a questo modello di sviluppo. Un’economia nella quale il settore improduttivo è a tal punto esteso è un’economia che sostiene costi diretti e indiretti rilevanti: i detenuti – e coloro che li sorvegliano –non contribuiscono alla crescita economica, il loro controllo grava sul bilancio pubblico, la diffusa presenza di attività criminali disincentiva gli investimenti, riducendo, anche per questa via, il tasso di crescita.
Con riferimento al caso europeo e italiano, su fonte EUROSTAT si attesta che negli ultimi anni sono aumentati i reati contro il patrimonio. I reati da cui si può ricavare un guadagno economico (furti, rapine, truffe, estorsioni, spaccio di sostanze stupefacenti, usura, ricettazione) sono aumentati a partire dal 2010, mentre sono diminuiti i reati non economici. I furti in abitazione hanno registrato nel 2012 un aumento del 40% rispetto al 2010. Crescono anche le truffe informatiche e le rapine in abitazione (del 22,1% tra il 2011 e il 2012 e del 65,8% dal 2010), le rapine in strada (del 25,7% dal 2010) e quelle effettuate negli esercizi commerciali (+20,7% dal 2010), mentre il trend è ancora in diminuzione per le rapine in banca (5%). I dati mostrano che l’aumento delle diseguaglianze ha generato aumenti significativi su alcune tipologie specifiche di attività illecite, in primis i reati che non richiedono particolari abilità criminali, come i furti[7].
L’irrazionalità delle misure messe in atto risulta in tal senso palese: da un lato, il Governo rinuncia ad accrescere la spesa pubblica per aumentare l’occupazione, dall’altro è costretto a farlo perché l’aumento dei tassi di disoccupazione mina la coesione sociale e rende necessario accrescere i costi di sorveglianza e repressione del conflitto, ampliando l’”apparato disciplinare” (il c.d. guard labor)[8] e contribuendo, anche per questa ragione, a frenare la crescita.
Note
[1] V. http://sbilanciamoci.info/6610-2/
[2]Si veda, fra gli altri, http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/lavoro-e-sindacato/quota-salari-e-investimenti-alcuni-effetti-delle-riforme-del-lavoro/
[3] De Blasio, G. e Menon, C. (2013). L’impatto della crisi sulle attività criminali, Banca d’Italia, working paper n. 952.
[4]Si tratta di spese per vitto, alloggio ed eventuale trasporto detenuti, spese per le forze dell’ordine deputate alla custodia (polizia penitenziaria), spese per il personale dell’area socio-psico-pedagogica e per i dirigenti, oltre ad altri costi connessi ai progetti educativi e di inserimento lavorativo.
[5] Cfr. Farringotn, D.P. (1986). Age and crime. Chicago: University of Chicago Press
[6] Ci si riferisce a Hirschman, A.O. (1970). Exit, voice, and loyalty. Harvard University Press.
[7] V. http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=121004
[8] V. Bowles, S. and Jayadev A. (2005). Guard labor, “Journal of Development Economics”: 328-348.; Bowles, S.. and Jayadev, A. (2007). Garrison America, “Economists’ voice”, March: 1-7.
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La lunga crisi dell’economia italiana
[“MicroMega” online del 4 marzo 2016]
SINTESI: La lunga recessione italiana non dipende né
dall’elevato debito pubblico né dall’adozione della moneta unica. Essa andrebbe
piuttosto inquadrata in una prospettiva di carattere più generale che attiene a
ciò che viene definito il declino economico italiano: quella italiana è una
crisi nella crisi, che non trova eguali nel resto d’Europa. Un declino che può
essere datato agli shock petroliferi
degli anni settanta, che pongono fine a un modello di crescita basato sulle
esportazioni (il c.d. miracolo economico italiano), e che si accentua con le
manovre fiscali restrittive della prima metà degli anni novanta. Manovre che
riducono la domanda interna, attivando una spirale perversa di crescita della
disoccupazione e costante riduzione della produttività del lavoro.
La lunga recessione italiana non dipende né dall’elevato debito pubblico né dall’adozione della moneta unica, come le narrazioni dominanti – ovviamente su sponde politiche diverse – provano a spiegarla. Si tratta di motivazioni che, nella loro semplicità, sono facilmente divulgabili e, per un’opinione pubblica disattenta o poco informata, facilmente assimilabili. Non vi è però dubbio in merito al fatto che l’adesione alla moneta unica ha contribuito ad accentuare i problemi, sia perché l’impalcatura istituzionale dell’UME è di fatto costruita in modo da produrre deflazione e recessione[1], sia perché, attraverso l’attuazione di misure di austerità, contribuisce alla crescita del debito, in particolare nei Paesi periferici.
La recessione italiana andrebbe piuttosto inquadrata in una prospettiva di carattere più generale che attiene a ciò che viene definito il declino economico italiano: quella italiana è una crisi nella crisi, che non trova eguali nel resto d’Europa[2]. Per darne conto, può essere sufficiente il solo dato per il quale nel 2014 l’Italia è stato l’unico grande Paese europeo a sperimentare un tasso di crescita ancora di segno negativo, con un Mezzogiorno che continua a diventare sempre più povero (SVIMEZ, 2015).
La categoria del declino economico attiene a una prospettiva di lungo periodo ed è difficile individuare una data esatta dal quale farlo partire. Non vi è dubbio che il doppio shock petrolifero degli anni settanta costituisce un punto di svolta rilevante per l’economia italiana, dal momento che ha posto sostanzialmente fine al modello di crescita basato sulle esportazioni che è stato alla base del c.d. miracolo economico del precedente decennio. Si può, tuttavia, assumere il biennio 1992-1993 come punto di svolta ancora più rilevante, sia per il radicale cambiamento del segno della politica fiscale, sia per le note vicende giudiziarie che portarono alla delegittimazione del ceto politico (la c.d. Tangentopoli) e al conseguente insediamento dei Governi ‘tecnici’ presieduti da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi[3].
Sul piano empirico, Banca d’Italia riporta che, a partire dalla metà degli anni novanta, la spesa pubblica corrente si è sistematicamente ridotta, con una contrazione di circa un punto percentule fra il 1993 e il 1994. Viene anche rilevato che la spesa pubblica italiana in rapporto al Pil è stata (e continua a essere) sistematicamente inferiore alla media dei Paesi OCSE e che nell’ultimo decennio il tasso di crescita della produttività del lavoro si è ridotto di circa il 2%. Il che sembra confermare l’ipotesi interpretativa in base alla quale la riduzione della spesa pubblica contribuisce a generare effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro.
Il costante declino della domanda interna (soprattutto imputabile all’attuazione di politiche fiscali restrittive nel periodo considerato) lo si può spiegare a partire dalla fragilità del tessuto produttivo italiano e dalla conseguente tendenza della nostra economia a registrare disavanzi commerciali. In tal senso, risulta possibile argomentare che la riduzione della spesa pubblica è servita a evitare sistematici disavanzi della bilancia commerciale (e, al tempo stesso, per contenere la crescita del debito pubblico), a fronte della dipendenza dalle importazioni di materie prime (e macchinari). Al tempo stesso, essa è risultata funzionale a una specializzazione produttiva – il c.d Made in Italy – che non richiede rilevanti innovazioni tecnologiche (e che, dunque, non richiede rilevanti importazioni di materie prime e macchinari), e che deriva da produzioni generate per lo più da imprese di piccole dimensioni. I Governi che si sono succeduti almeno nell’ultimo ventennio hanno dunque rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria. D’altra parte, poteva sembrare, in quegli anni, una scelta scontata, sia perché legittimata dalla tesi del “piccolo è bello”, sia perché funzionale a contenere la dinamica della spesa pubblica per provare a ridurre il debito pubblico e, contestualmente, a evitare disavanzi sistematici della bilancia commerciale. La costante riduzione della domanda interna è derivata (e deriva), dunque, non solo da riduzione dei consumi e degli investimenti privati, ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si può considerare che un’elevata evasione fiscale implica una redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei percettori di redditi bassi, dal momento che, di norma, si tratta di redditi tassati “alla fonte”. Quest’ultima considerazione contribuisce a spiegare per quale ragione[4]. L’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che ha registrato la maggiore crescita delle diseguaglianze e il maggior grado di immobilità sociale. L’indice di Gini, l’indicatore comunemente utilizzato per misurare le diseguaglianze, è quasi raddoppiato nel corso degli ultimi trenta anni: il che significa che l’1% della popolazione si è progressivamente arricchito, in termini monetari e reali, e la restante parte della popolazione si è sempre più impoverita. L’Italia ha sperimentato questa dinamica in modo molto accelerato, anche in considerazione del fatto che le diseguaglianze distributive, nel nostro Paese, non sono solo diseguaglianze fra gruppi sociali, ma anche diseguaglianze (crescenti) fra aree geografiche. La crescita delle diseguaglianze è associata alla riduzione della mobilità sociale. Quest’ultima è misurata dall’elasticità intergenerazionale dei redditi, ovvero dalla quantità di risorse che vengono trasmesse da una generazione alla successiva, ed è anche immobilità di status:è cioè molto probabile, e sempre più probabile, che il figlio di un operaio diventi operaio e che il figlio di un imprenditore diventi imprenditore. Le politiche di ridisegno del sistema formativo che lo rende sempre più elitario hanno ampiamente contributo a questo esito, che rappresenta non solo un problema di equità, ma anche un problema propriamente economico dal momento che impedisce che, nel mercato del lavoro, la forza-lavoro sia allocata in base alle effettive competenze dei singoli e accentua, per conseguenza, un processo di allocazione della forza-lavoro basata sulle reti relazionali. Si tratta, peraltro, di un fenomeno che si autoalimenta, dal momento che i giovani provenienti da famiglie con basso reddito (e basso livello di istruzione) apprendono che – e si attendono che – il titolo di studio non accresce la probabilità di trovare impiego, o comunque un impiego coerente con le qualifiche acquisite.
L’esito di queste scelte è stato duplice e, in entrambi i casi, controproducente ai fini del recupero di un percorso di crescita. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (e l’aumento della tassazione) non è risultata una strategia efficace per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, che ha continuato a crescere soprattutto – se non esclusivamente – a ragione della riduzione del tasso di occupazione e del Pil conseguente all’attuazione di politiche fiscali restrittive in fase di recessione[5]. In secondo luogo, il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, contribuendo a ridurre ulteriormente le dimensioni medie aziendali. Imprese di piccole dimensioni sono, di norma, imprese poco innovative (che, dunque, non esprimono domanda di lavoro qualificato), nelle quali le retribuzioni sono basse, e sono imprese fortemente dipendenti dal credito bancario. E’ stato rilevato a riguardo che, nel caso italiano, la crescita della produttività del lavoro, nei pochi casi nei quali si è verificata, è principalmente imputabile alla crescita dei ricavi, secondo un modello di espansione dell’impresa definito “growth on the market”[6].
La lunga recessione italiana appare dunque imputabile a una sequenza così ordinabile: la riduzione della spesa pubblica ha ridotto i mercati di sbocco per le imprese che operano sul mercato interno (la gran parte delle imprese italiane); la riduzione dei mercati di sbocco ha compresso i profitti, le fonti di autofinanziamento degli investimenti – rendendo le imprese sempre più dipendenti dal credito bancario; la riduzione degli investimenti ha ridotto la domanda interna e il tasso di crescita della produttività, disincentivando la crescita dimensionale delle imprese[7].
Note
[1] V., fra gli altri, A. Parguez (1999). The expected failure of the European economic and monetary union: A false money against the real economy, “Eastern Economic Journal”, 25,1, Winter.
[2] V. C. D’Ippoliti. E A. Roncaglia. (2011). L’Italia: una crisi nella crisi, “Moneta e credito”, 64, n. 255, pp.187-227.
[3] Come osserva Graziani: “Il 1992 non fu soltanto … un anno di crisi per il Sistema Monetario Europeo; esso segnò anche, per la vita politica italiana, una svolta di considerevole portata”. A. Graziani (2000). L’economia italiana dal ’45 a oggi. Bologna: Il Mulino, p.166. Si può ritenere che quelle misure rispondevano all’obiettivo di avvicinarsi ai parametri di Maastricht, ma sembra un non sequitur proporre una catena logica che va dal cambio di indirizzo della politica fiscale di quegli anni all’adozione dell’euro, all’impossibilità di svalutazioni competitive alla “perdita di sovranità monetaria”, alla necessità logica delle politiche di austerità (derivante dall’architettura istituzionale dell’Unione Monetaria Europea) per arrivare alla recessione italiana. Ciò, se non altro, perché è dal 1981, anno del c.d. divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che in Italia è fatto divieto di monetizzare il debito pubblico – e, dunque, in questa accezione, la sovranità monetaria la abbiamo persa da oltre trent’anni. In più, l’austerità, nei Paesi centrali dell’Unione, in economie nei quali la crescita è export-led, sembra funzionare. Come ha rilevato Martin Wolf, sulle colonne del Financial Times, l’Europa ha realizzato un consistente surplus commerciale negli ultimi anni. Va tuttavia osservato che questo risultato è niente affatto uniforme fra i Paesi dell’area euro, e che, in particolare, il miglioramento del saldo delle partite correnti si è verificato quasi esclusivamente nei Paesi centrali del continente.
[4] Si consideri anche che un elevato debito pubblico si associa, di norma, a un’elevata tassazione sui salari. Ciò accade, in particolare, in contesti nei quali risulta non conveniente, per un Governo, tassare banche e/o imprese, ovvero in contesti nei quali le prime potrebbero reagire a un aumento della tassazione sui loro utili vendendo (o non acquistando) titoli di Stato e le seconde potrebbero reagire de localizzando. In più, la tassazione sugli utili di impresa può tradursi nella traslazione delle imposte sui consumi, generando, anche per questa via, riduzione dei salari reali..
[5] Ma anche per gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato. Tassi di interesse tenuti elevati per attirare capitali speculativi e provare, per questa via, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Cfr. A. Graziani. (2000). L’economia italiana dal ’45 a oggi. Il Mulino: Bologna.
[6] A. Coad, R. Rao, and F. Tamagni (2011). Growth processes of Italian manufacturing firms, “Structural Change and Economic Dynamics”, 22, pp.54-70.
[7] V. S. Perri, S. e R. Lampa (2014). Il declino e la crisi dell’economia italiana: dalla teoria ai fatti stilizzati in R.Cerqueti (eds.), Polymorphic crisis. Readings on the Great Recession of the 21th century. Macerata: Edizioni Università di Macerata. Una lucidissima ricostruzione della lunga crisi italiana è stata fornita da Marcello De Cecco, recentemente scomparso, nel saggio Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano, “Economia Italiani”, 2012, n.3, pp.69-92.
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Effetti della diseguaglianza
[“Nuovo
Quotidiano di Puglia” del 6 marzo 2016]
Le diseguaglianze distributive, in tutti i Paesi
industrializzati, assumono ormai dimensioni allarmanti. Lo certifica l’ultimo
Rapporto OCSE, lo aveva registrato dal 2014 Thomas Piketty nella sua ricerca
sul Capitale nel XXI secolo. Il caso italiano è sotto molti aspetti
paradigmatico delle tendenze del capitalismo contemporaneo, ‘globalizzato’ e
‘finanziarizzato’. L’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che ha registrato la
maggiore crescita delle diseguaglianze e il maggior grado di immobilità
sociale. L’indice di Gini, l’indicatore comunemente utilizzato per misurare le
diseguaglianze, è quasi raddoppiato nel corso degli ultimi trenta anni: il che
significa che l’1% della popolazione si è progressivamente arricchito, in
termini monetari e reali, e la restante parte della popolazione si è sempre più
impoverita. L’Italia ha sperimentato questa dinamica in modo molto accelerato,
anche in considerazione del fatto che le diseguaglianze distributive, nel
nostro Paese, non sono solo diseguaglianze fra gruppi sociali, ma anche
diseguaglianze (crescenti) fra aree geografiche. E, non a caso, negli ultimi
decenni la forbice fra Nord e Sud del Paese si è costantemente allargata.
La relazione esistente fra diseguaglianze distributive e crescita economica è
probabilmente uno dei temi più dibattuti in ambito economico e, ciò nonostante,
una ricostruzione ragionata di quanto è accaduto associata a considerazioni
teoriche non ideologicamente viziate può aiutare a capire se le diseguaglianze
hanno effetti positivi o negativi sul tasso di crescita.
A partire dall’inizio degli anni Novanta, con le manovre fiscali restrittive
dei Governi Amato e Ciampi, si avviato in Italia un lungo percorso di
austerità, significativamente accentuato negli ultimi anni. La riduzione della
spesa pubblica (prevalentemente per servizi di Welfare) e soprattutto l’aumento
della pressione fiscale (prevalentemente gravante sui percettori di redditi
bassi) hanno ridotto la domanda interna e il tasso di crescita. Ne è seguito
l’aumento del rapporto debito pubblico/Pil e, per ripagare il debito, i Governi
che si sono succeduti nel corso degli ultimi venti anni hanno fatto quasi
esclusivamente e quasi sempre ricorso a incrementi di tassazione sui redditi
più bassi, peraltro rendendo il sistema tributario sempre meno progressivo. Si
è determinato un processo di redistribuzione dal basso verso l’alto: la
tassazione sui redditi bassi serviva a rimborsare il debito. Dunque, un
gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro alla rendita finanziaria. Che
non è soltanto una redistribuzione di risorse ma anche una redistribuzione di
potere. Le diseguaglianze sono aumentate e, contestualmente, si è ridotto il
tasso di crescita.
L’aumento delle diseguaglianze è un potente fattore di freno alla crescita per
numerose ragioni, fra le quali:
1. la riduzione della domanda interna conseguente alla caduta della quota dei
salari sul Pil. Il fenomeno è accentuato dal fatto che i percettori di redditi
bassi hanno, di norma, una propensione al consumo più alta dei percettori di
redditi elevati, così che la compressione dei salari riduce i consumi più di
quanto li riduca l’eventuale riduzione dei profitti o delle rendite.
2. la riduzione del tasso di crescita della
produttività del lavoro conseguente alla riduzione della domanda aggregata.
Questo meccanismo si verifica a ragione del fatto che la riduzione della
domanda disincentiva gli investimenti e la riduzione degli investimenti (e il
mancato ammodernamento degli impianti) ha ovviamente effetti di segno negativo
sulla produttività del lavoro.
Se si riducono domanda interna e produttività è evidente che si riduce, per
conseguenza, il tasso di crescita.
A fronte di questi effetti, già in atto, sembra poi di poter affermare che la
ristrutturazione in atto del capitalismo italiano nella crisi non può che
peggiorare lo scenario fin qui descritto. Con la massima schematizzazione, si
può affermare che il nostro tessuto produttivo ha le seguenti caratteristiche:
è composto in larga parte da imprese di piccole dimensioni con scarsa
propensione all’innovazione, collocate in settori produttivi “maturi” –
agroalimentare e Made in Italy, con un comparto dei macchinari
che tende a diventare sempre più marginale. Si tratta della configurazione che
il capitalismo italiano ha assunto almeno dal dopoguerra ma, al tempo stesso, è
una configurazione che si è profondamente trasformata negli ultimi anni. Il
fenomeno più rilevante è il processo di deindustrializzazione che ha riguardato
l’intera economia italiana e ancor più il Mezzogiorno e che si è manifestato
con la perdita di circa il 25% della produzione industriale. E’ opportuno
osservare che i processi di deindustrializzazione sono in corso nella gran
parte dei Paesi OCSE e che in quei Paesi sono fondamentalmente associati a
processi di finanziarizzazione. L’Italia è, fra questi (e ancor più nel
confronto con i Paesi anglosassoni), il Paese nel quale questi ultimi si sono
manifestati con la minore intensità.
La deindustrializzazione accentua le diseguaglianze distributive innanzitutto
perché riduce la domanda di lavoro altamente qualificato e, per questa via,
contribuisce a ridurre i salari. In più, essendo le imprese italiane sempre più
dipendenti dalle importazioni di materie prime e macchinari (in quest’ultimo
caso proprio per effetto della caduta degli investimenti), esse accentuano una
modalità di competizione basata sulla compressione dei salari e, dunque,
domandano – e ottengono – politiche che le agevolano nel perseguimento di
questo obiettivo: precarizzazione crescente del lavoro, moderazione salariale,
redistribuzione del carico fiscale sul lavoro dipendente per detassare i
profitti.
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La domanda della Regina
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 marzo 2016]
E’ stato calcolato che, nel caso italiano, l’errore di previsione sul tasso di crescita negli ultimi sette anni è stato di circa 7 punti percentuali: le previsioni sono state sistematicamente sovrastimate. E così è accaduto in tutti i Paesi OCSE. Si osservi che gli errori di previsione non riguardano scarti irrisori, ma spesso riguardano previsioni di crescita che, a posteriori, si rivelano recessioni.
Si è qui di fronte alla c.d. domanda della Regina: perché gli economisti, salvo rare eccezioni, non hanno previsto la crisi? La si chiama domanda della Regina, perché fu la domanda che Elisabetta rivolse agli economisti della London School of Economics in occasione della sua visita a quella prestigiosa Istituzione nel novembre 2008. Domanda alla quale non fu data risposta soddisfacente, inducendo la Regina a commentare che “evidentemente c’è stata un po’ di trascuratezza”. In effetti, trascuratezza vi è stata se si considera che la questione delle crisi economiche, nel paradigma oggi dominante in Economia, di orientamento neo-liberista, è al margine del dibattito. Gran parte della ricerca si concentra su esercizi autoreferenziali che ben poco hanno a che vedere con il mondo reale, spesso sommersi da montagne di matematica per accreditare la disciplina come scientifica, nell’accezione della Fisica Teorica e di laboratorio. In più, la visione dominante si fonda sulla convinzione che un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente a produrre pieno impiego e, dunque, le crisi economiche possono derivare esclusivamente da interventi esterni, in particolare da politiche fiscali o monetarie sbagliate. Più in generale, dall’intervento dello Stato.
A ben vedere, gli errori derivano semplicemente dal fatto che i modelli usati per le previsioni sono sbagliati e, in aggiunta, dal fatto che la previsione in Economia non è come la previsione nelle scienze cosiddette esatte. Se la questione si pone in questi termini, la domanda della Regina va così riformulata: perché gli economisti non utilizzano modelli diversi da quelli fin qui utilizzati per effettuare previsioni? Ovvero, perché non abbandonano teorie che si sono rivelate e si rivelano così manifestamente incapaci di prevedere?
La risposta rinvia al fatto che i modelli previsionali sono basati su un paradigma teorico che, per quanto si basi su ipotesi del tutto irrealistiche e per quanto non riesca a generare previsioni affidabili, dimostra un’eccezionale capacità di resistenza alle critiche. Ciò accade all’interno di dispositivi di valutazione della ricerca che, non solo in Italia, premiano di fatto studi che si muovono nella cornice del paradigma dominante, in un meccanismo che si rinforza attraverso il reclutamento di giovani generazioni che, essendo valutati sulla base dell’aderenza delle loro ricerche alla visione egemone, non possono che uniformarsi a questa. Per di più, non sono pochi gli economisti neo-liberisti che ritengono che l’Economia non può prevedere le crisi.
Occorre considerare il fatto che la sistematica incapacità di generare previsioni attendibili nuoce gravemente alla scienza economica, dal momento che crea il sospetto che vi sia un condizionamento politico che spinge i ricercatori a sovrastimare il tasso di crescita previsto per l’obiettivo di accrescere il consenso per il Governo in carica. Dunque, crea il sospetto che la ricerca, in Economia, non è libera e che semmai risponde a una domanda politica di legittimazione scientifica dell’ordine sociale esistente.
Di questi temi, di massimo interesse anche per non addetti ai lavori, si occupa Francesco Sylos Labini nel suo ultimo libro Rischio e previsione (Cosa può dirci la scienza sulla crisi), che verrà presentato a Lecce, alla Libreria Adriatica, domenica 20 marzo dalle ore 18. L’evento è organizzato dall’Associazione italiana dei dottorandi e dottori di ricerca.
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Sintesi. L’ultimo Rapporto SVIMEZ segnala che la crisi nel Mezzogiorno ha assunto dimensioni devastanti e che la crescita dei divari regionali continua ad accentuarsi. Questo esito è fondamentalmente da imputare alle maggiori dosi di austerità imposte alle regioni meridionali, in uno scenario nel quale il Mezzogiorno è un mercato di sbocco sempre meno rilevante per le imprese settentrionali.
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Perché il Mezzogiorno non interessa più
[In “MicroMega” online del 5 aprile 2016]
L’ultimo Rapporto SVIMEZ segnala che la crisi nel Mezzogiorno ha assunto dimensioni devastanti e che la crescita dei divari regionali continua ad accentuarsi. Può essere sufficiente un solo dato per darne conferma: a fronte del dato generale per il quale l’Italia è stata la sola, fra i maggiori Paesi dell’Eurozona, a far registrare un tasso di crescita negativo nel 2014, dal 2008 le regioni meridionali hanno perso circa il 13% del Pil, a fronte di una flessione (anch’essa rilevante) del 7.4% per il Centro-Nord. In più, la lunga recessione meridionale si associa a un significativo aumento delle diseguaglianze distributive: l’ultimo Rapporto ISTAT sul “Benessere Equo e Sostenibile”, del 2015, certifica che il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti è 6,7 volte superiore a quello posseduto dal 20% delle famiglie con i redditi più bassi mentre nel Nord il rapporto è di 4,6.
Le cause dell’aumento dei divari regionali sono fondamentalmente tre.
1. In primo luogo, data l’esistenza di effetti c.d. di polarizzazione, una volta determinatasi aggregazione di imprese in una data area, tale area attrae investimenti e manodopera altamente qualificata. Il Mezzogiorno è pienamente coinvolto in questa dinamica perversa che, si osservi, si attiva spontaneamente, in assenza di interventi di istituzioni esterne al mercato.
2. In secondo luogo, le politiche di austerità hanno maggiormente colpito le regioni meridionali a ragione, fondamentalmente, del fatto che lì sono collocate prevalentemente imprese che vendono su mercati locali. In tali circostanze, la riduzione della spesa pubblica riduce i mercati di sbocco, generando, per conseguenza, riduzione dei profitti (o fallimenti), degli investimenti, dell’occupazione. A ciò si può aggiungere che, rispetto al Nord, sono maggiormente presenti nel Mezzogiorno imprese di piccole dimensioni, che, proprio per questo, sono fortemente dipendenti dal sistema bancario e pagano tassi di interesse sui fondi a prestito notevolmente più alti rispetto al resto del Paese, o comunque hanno maggiori difficoltà di accesso al credito[1].
3. In terzo luogo, i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno somministrato dosi relativamente maggiori di austerità proprio alle aree più deboli del Paese.
Quest’ultimo aspetto, di estrema rilevanza politica, sembrerebbe in prima approssimazione delineare un vero e proprio puzzle, dal momento che intuitivamente non si capisce per quale ragione, in fasi recessive, si accentua volontariamente la recessione laddove è più intensa. A ben vedere, si tratta di una decisione politica che riflette un ben preciso orientamento di teoria economica, secondo il quale, per produrre crescita economica, occorre accentrare le risorse nei poli che sono già più produttivi: in altri termini, una variante degli effetti c.d. di sgocciolamento (trickle down). L’ipotesi, tutta da dimostrare, è che le diseguaglianze (in questo caso territoriali) generano crescita. E’ la metafora del treno: se la locomotiva parte, si tira dietro tutti i vagoni. Fuor di metafora, si ritiene che la crescita dei profitti delle imprese del Nord incentivi la domanda di sub-forniture, tipicamente rivolta alle imprese meridionali, con conseguente aumento dei profitti anche a beneficio di queste ultime. Questa ipotesi sembrerebbe essere confermata dall’esistenza di “filiere lunghe” che, in alcuni settori produttivi (tipicamente la produzione di automobili) e in alcune regioni (in particolare, Campania e Piemonte), producono strette interconnessioni fra imprese meridionali e imprese del Centro-Nord (http://www.economia.rai.it/articoli/l%E2%80%99interdipendenza-delle-filiere-produttive-tra-mezzogiorno-e-centro-nord/31661/default.aspx). E’ molto diffusa, poi la convinzione che il basso tasso di crescita del Mezzogiorno dipenda dalla sua scarsa dotazione di “capitale sociale” (https://www.bancaditalia.it/chi-siamo/funzioni-governance/direttorio/ignazio-visco/visco-pubblicazioni/4_volume_mezzogiorno_2010.pdf): una convinzione che rafforza gli indirizzi di policy messi in atto negli ultimi decenni, dal momento che l’aumento della spesa pubblica nel Mezzogiorno si tradurrebbe esclusivamente in sprechi, inefficienze, corruzione. La tesi della carenza di capitale sociale (nell’accezione estesa di carenza di relazioni di fiducia, di solidarietà, di rispetto delle norme sociali e morali) si presta a numerose obiezioni, fra le quali: i) non è esattamente chiaro cosa esattamente si intenda con questa espressione, o comunque non vi è unanime consenso sulla sua definizione; ii) per conseguenza, è estremamente difficile, se non impossibile, una sua corretta quantificazione, essendo peraltro una variabile multidimensionale. Se si ritiene che una diffusa presenza sul territorio di attività criminali sia una proxy di bassa dotazione di capitale sociale, pare che questo sia il principale argomento utilizzato per dar conto dell’arretratezza del Mezzogiorno. Una recente ricerca[2] mostra che nei principali media italiani la parola-chiave più utilizzata quando si tratta del Mezzogiorno è appunto “criminalità”, volendo suggerire che la criminalità causa il sottosviluppo. Va tuttavia ricordato che si è in una fase di globalizzazione criminale (e che dunque la criminalità organizzata non è solo un fenomeno meridionale) e va sottolineato che molto probabilmente è semmai il deterioramento del capitale sociale è un effetto della recessione. Si argomenta anche che gli studenti meridionali, stando alle valutazioni OCSE-PISA, risultano meno preparati degli studenti del Nord, rafforzando, anche per questa via, la tesi per la quale è la carenza di capitale sociale (nella sua accezione più estesa) la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno[3].
A ciò va aggiunta la constatazione per la quale le politiche di redistribuzione del reddito non sono mai neutrali rispetto al potere politico dei soggetti in campo – in questo caso le regioni. Ed è ormai ampiamente noto che il messaggio che viene ripetutamente trasmesso è la reiterazione dell’antico argomento per il quale la responsabilità ultima del sottosviluppo del Sud va ricercata nell’incapacità dei suoi amministratori di gestire risorse pubbliche, in particolare i Fondi Strutturali Europei. Va chiarito che il problema esiste ma che, come di norma si procede in questi casi, esso viene generalizzato per giustificare manovre di politica economica che risultano, di fatto, ulteriormente dannose per le regioni meridionali. D’altra parte, vi è poco di nuovo in questa storia, se non un dato (rilevante) che attiene alle nuove configurazioni che ha assunto il rapporto fra Nord e Sud del Paese. Le maggiori dosi di austerità imposte al Mezzogiorno (area popolata, in larga misura, da imprese di piccole dimensioni molto dipendenti dal settore bancario) ha dato luogo a una spirale perversa così ordinabile: la riduzione della spesa pubblica ha ridotto i mercati di sbocco, riducendo conseguentemente i profitti e aumentando il grado di insolvenza delle imprese (o generando fallimenti), con conseguente restrizione del credito (o aumento dei tassi di interesse), riduzione degli investimenti, dell’occupazione e del tasso di crescita. Da parte sua, il Governo sceglie la strada più semplice di dipingere il Mezzogiorno come un’area “vitale”, nel documento introduttivo del c.d. Masterplan (http://www.governo.it/articolo/masterplan-il-mezzogiorno-linee-guida/2069).
Tradizionalmente, le posizioni ‘meridionalistiche’ si sono basate sulla convinzione, esattamente opposta a quella che è a fondamento della teoria degli effetti di sgocciolamento, secondo la quale la crescita del Mezzogiorno è semmai una pre-condizione per la crescita del Paese. Con la massima schematizzazione, si è ritenuto (e si ritiene) che l’aumento del tasso di crescita al Sud implichi un aumento della domanda rivolta alle imprese del Nord e, dunque, un più ampio mercato di sbocco per queste ultime. E, in effetti, nei periodi nei quali la crescita delle aree meridionali è stata sostenuta, lo è stata anche la crescita delle altre aree del Paese (http://www.internazionale.it/opinione/nicolo-cavalli/2015/07/30/mezzogiorno-ripresa-economica-crisi). L’evidenza empirica mostra che, prima della crisi, gli anni del c.d. miracolo economico italiano e, successivamente, del ciclo di lotte operaie sono stati gli anni nei quali è stata minima la divergenza regionale.
Una possibile ipotesi interpretativa che dia conto del totale abbandono del Sud, in questi ultimi anni, può partire da questa considerazione[4]. Il Mezzogiorno oggi, come SVIMEZ certifica, è oggetto di un vero e proprio tsunami demografico: gli imponenti flussi migratori degli ultimi decenni, soprattutto di individui con elevata scolarizzazione, hanno determinato un processo di progressivo invecchiamento della popolazione residente associato a un significativo calo delle nascite. Il combinato della deindustrializzazione, e dei connessi fenomeni di ‘ritorno alla terra’, e della crescente incertezza, imputabile alla crescente precarizzazione del lavoro, ha ridotto la propensione al consumo, accrescendo i risparmi per motivi precauzionali. Il Sud non è più, quindi, un rilevante mercato di sbocco. E peraltro lo è sempre meno se si considera che, rispetto a qualche decennio fa, la totale deregolamentazione dei flussi commerciali, unita alla notevole compressione dei costi di trasporto, rende possibile, per le imprese del Nord, individuare agevolmente mercati di sbocco in altri Paesi. L’ultimo Rapporto ISTAT-ICE certifica che la crescita delle esportazioni italiane è essenzialmente imputabile all’aumento delle vendite di imprese localizzate al Nord e che queste imprese esportano prevalentemente in Germania e Francia, all’interno dell’Eurozona, e negli Stati Uniti (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-07-29/monti-ice-l-italia-imbocca-ripresa-2015-export-crescita-5percento–123651.shtml?uuid=ACifETZ).
In questo scenario, le prospettive economiche del Mezzogiorno sembrano andare sempre più nella direzione di un modello di sviluppo basato su produzioni a bassa intensità tecnologica, in settori maturi (agricoltura e turismo). Avvalorando la retorica che vuole che compito dell’azione politica sia semplicemente assecondare le “vocazioni naturali” del territorio, anche se queste rischiano di accentuare e prolungare la recessione e amplificare i divari regionali.
Note
[1] V. il Rapporto PMI Mezzogiorno 2015 di Confindustria.
[2] S. Cristante e V. Cremonesini, La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo. Milano: Mimesis.
[3] Per una critica radicale al metodo INVALSI, si rinvia soprattutto ai numerosi interventi di Giorgio Israel (http://gisrael.blogspot.it/2015/02/contra-invalsi.html) e fra gli altri, a R.Puleo, Storia sociale dell’INVALSI, “La città futura”, Marzo 2016.
[4] Un abbandono anche, per così dire, simbolico, se si considera che all’atto dell sua formazione l’attuale Governo non aveva un Ministero per il Mezzogiorno e che l’attuale Presidente del Consiglio, nel discorso di insediamento, non ha mai fatto neppure cenno al Mezzogiorno, rinviando la questione – in sedi successive – a una non meglio chiarita “svolta culturale”.
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L’aumento dei divari regionali
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° maggio 2016]
Vi è ampia evidenza sul fatto che i divari regionali, in Italia, sono in continuo aumento ed è noto che i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno somministrato dosi relativamente maggiori di austerità proprio alle aree più deboli del Paese.
Quest’ultimo aspetto, di estrema rilevanza politica, sembrerebbe in prima approssimazione delineare un vero e proprio puzzle, dal momento che intuitivamente non si capisce per quale ragione, in fasi recessive, si accentua volontariamente la recessione laddove è più intensa. A ben vedere, si tratta di una decisione politica che riflette un ben preciso orientamento di teoria economica, secondo il quale, per produrre crescita economica, occorre accentrare le risorse nei poli che sono già più produttivi: in altri termini, una variante degli effetti c.d. di sgocciolamento. L’ipotesi, tutta da dimostrare, è che le diseguaglianze (in questo caso territoriali) generano crescita. E’ la metafora del treno: se la locomotiva parte, si tira dietro tutti i vagoni. Fuor di metafora, si ritiene che la crescita dei profitti delle imprese del Nord incentivi la domanda di sub-forniture, tipicamente rivolta alle imprese meridionali, con conseguente aumento dei profitti anche a beneficio di queste ultime. E’ molto diffusa, poi la convinzione che il basso tasso di crescita del Mezzogiorno dipenda dalla sua scarsa dotazione di “capitale sociale”: una convinzione che rafforza gli indirizzi di policy messi in atto negli ultimi decenni, dal momento che l’aumento della spesa pubblica nel Mezzogiorno si tradurrebbe esclusivamente in sprechi, inefficienze, corruzione.
La tesi della carenza di capitale sociale si presta a numerose obiezioni, fra le quali: i) non è esattamente chiaro cosa si intenda con questa espressione, o comunque non vi è unanime consenso sulla sua definizione; ii) per conseguenza, è estremamente difficile, se non impossibile, una sua corretta quantificazione, essendo peraltro una variabile multidimensionale. Se si ritiene che una diffusa presenza sul territorio di attività criminali sia una proxy di bassa dotazione di capitale sociale, pare che questo sia il principale argomento utilizzato per dar conto dell’arretratezza del Mezzogiorno. Una recente ricerca svolta presso l’Università del Salento da Valentina Cremonesini e Stefano Cristante (“La parte cattiva dell’Italia. Sud, media e immaginario collettivo”) mostra che nei principali media italiani la parola-chiave più utilizzata quando si tratta del Mezzogiorno è appunto “criminalità”, volendo suggerire che la criminalità causa il sottosviluppo. Va tuttavia ricordato che si è in una fase di globalizzazione criminale (e che dunque la criminalità organizzata non è solo un fenomeno meridionale) e va sottolineato che molto probabilmente è semmai il deterioramento del capitale sociale un effetto della recessione.
A ciò va aggiunta la constatazione per la quale le politiche di redistribuzione del reddito non sono mai neutrali rispetto al potere politico dei soggetti in campo – in questo caso le regioni. Ed è ormai ampiamente noto che il messaggio che viene ripetutamente trasmesso è la reiterazione dell’antico argomento per il quale la responsabilità ultima del sottosviluppo del Sud va ricercata nell’incapacità dei suoi amministratori di gestire risorse pubbliche, in particolare i Fondi Strutturali Europei. Va chiarito che il problema esiste ma che, come di norma si procede in questi casi, esso viene generalizzato per giustificare manovre di politica economica che risultano, di fatto, ulteriormente dannose per le regioni meridionali. D’altra parte, vi è poco di nuovo in questa storia, se non un dato (rilevante) che attiene alle nuove configurazioni che ha assunto il rapporto fra Nord e Sud del Paese. Le maggiori dosi di austerità imposte al Mezzogiorno (area popolata, in larga misura, da imprese di piccole dimensioni molto dipendenti dal settore bancario) ha dato luogo a una spirale perversa così ordinabile: la riduzione della spesa pubblica ha ridotto i mercati di sbocco, riducendo conseguentemente i profitti e aumentando il grado di insolvenza delle imprese (o generando fallimenti), con conseguente restrizione del credito (o aumento dei tassi di interesse), riduzione degli investimenti, dell’occupazione e del tasso di crescita.
Tradizionalmente, le posizioni ‘meridionalistiche’ si sono basate sulla convinzione, esattamente opposta a quella che è a fondamento della teoria degli effetti di sgocciolamento, secondo la quale la crescita del Mezzogiorno è semmai una pre-condizione per la crescita del Paese. Con la massima schematizzazione, si è ritenuto (e si ritiene) che l’aumento del tasso di crescita al Sud implichi un aumento della domanda rivolta alle imprese del Nord e, dunque, un più ampio mercato di sbocco per queste ultime. E, in effetti, nei periodi nei quali la crescita delle aree meridionali è stata sostenuta, lo è stata anche la crescita delle altre aree del Paese
Una possibile ipotesi interpretativa che dia conto del totale abbandono del Sud, in questi ultimi anni, può partire da questa considerazione. Il Mezzogiorno oggi, come SVIMEZ certifica, è oggetto di un vero e proprio tsunami demografico: gli imponenti flussi migratori degli ultimi decenni, soprattutto di individui con elevata scolarizzazione, hanno determinato un processo di progressivo invecchiamento della popolazione residente associato a un significativo calo delle nascite. Il combinato della deindustrializzazione, e dei connessi fenomeni di ‘ritorno alla terra’, e della crescente incertezza, imputabile alla crescente precarizzazione del lavoro, ha ridotto la propensione al consumo, accrescendo i risparmi per motivi precauzionali. Il Sud non è più, quindi, un rilevante mercato di sbocco. E peraltro lo è sempre meno se si considera che, rispetto a qualche decennio fa, la totale deregolamentazione dei flussi commerciali, unita alla notevole compressione dei costi di trasporto, rende possibile, per le imprese del Nord, individuare agevolmente mercati di sbocco in altri Paesi. L’ultimo Rapporto ISTAT-ICE certifica che la crescita delle esportazioni italiane è essenzialmente imputabile all’aumento delle vendite di imprese localizzate al Nord e che queste imprese esportano prevalentemente in Germania e Francia, all’interno dell’Eurozona, e negli Stati Uniti.
In questo scenario, le prospettive economiche del Mezzogiorno sembrano andare sempre più nella direzione di un modello di sviluppo basato su produzioni a bassa intensità tecnologica, in settori maturi (agricoltura e turismo). Avvalorando la retorica che vuole che compito dell’azione politica sia semplicemente assecondare le “vocazioni naturali” del territorio, anche se queste rischiano di accentuare e prolungare la recessione e amplificare i divari regionali.
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Gli effetti perversi della moderazione salariale
[“MicroMega”
online del 13 maggio 2016]
Sintesi. Le politiche di moderazione salariale dovrebbero generare crescita sia perché migliorano la competitività di prezzo delle nostre imprese esportatrici, sia perché, contenendo l’inflazione, accrescono i consumi e la domanda interna. L’evidenza empirica smentisce entrambi gli effetti, mostrando come la compressione dei salari abbia il solo esito di accentuare la recessione.
La ripresa della crescita economica in Italia viene fatta dipendere, nella visione dominante[1], dal combinato della liberalizzazione del mercato dei beni e dei servizi e da misure di deregolamentazione del mercato del lavoro, secondo gli effetti descritti nella seguente tabella.
(fonte: Tronti, 2009)[2]
Si tratta di uno schema che presenta non pochi punti di criticità, sia sul piano teorico, sia sul piano fattuale. Ciò che qui interessa rilevare è se la moderazione salariale può essere una strategia efficace ai fini della crescita delle esportazioni e se lo sia ai fini dell’aumento della domanda interna (per effetto del presunto aumento dei salari reali conseguente alla riduzione del tasso di inflazione). Tecnicamente, la risposta alla prima domanda rinvia alla stima dell’elasticità delle nostre esportazioni al prezzo, ovvero della possibilità, per i consumatori esteri, di sostituire facilmente i prodotti italiani con prodotti di altri Paesi. A riguardo non vi è uno studio che possa considerarsi conclusivo, soprattutto in considerazione del fatto che l’elasticità delle esportazioni al prezzo varia significativamente fra settori produttivi.
Una ricerca relativamente recente di Banca d’Italia[3] attesta che i consumi dei beni esportati da imprese italiane non risentono in modo significativo del loro prezzo e che l’elasticità delle nostre esportazioni è inferiore a quella dei principali Paesi dell’eurozona. Questo risultato non è sorprendente se si considera la specializzazione produttiva dell’economia italiana e la composizione del suo tessuto produttivo. ISTAT certifica che la struttura produttiva italiana è prevalentemente composta da imprese di piccole dimensioni, con bassa propensione all’innovazione e poco presenti sui mercati internazionali. Le imprese più esposte alla concorrenza internazionale sono localizzate al Nord. La nostra specializzazione produttiva è in settori ‘maturi’: agroalimentare e Made in Italy, con un comparto dei macchinari sempre più esiguo. La rilevazione di Banca d’Italia appare così pienamente coerente con questo scenario: i fattori che contano ai fini della crescita delle esportazioni non attengono alla competitività di prezzo (https://keynesblog.com/2015/04/08/le-svalutazioni-servono-a-poco-o-nulla/). Le imprese italiane esportano puntando sulla qualità dei prodotti e, nel caso del beni di lusso, semmai su prezzi elevati, dal momento che, per l’operare del c.d. effetto Veblen (per il quale la domanda aumenta all’aumentare del prezzo), un bene di lusso viene acquistato in quantità maggiori se il suo prezzo è elevato. In più, e soprattutto per quanto attiene ai beni di lusso, le nostre esportazioni dipendono essenzialmente dalla dinamica della distribuzione del reddito su scala globale: tanto più essa è diseguale, tanto maggiore è la domanda di beni di lusso rivolta alle imprese italiane. D’altra parte, in considerazione del fatto che l’economia italiana è dualistica, misure di incentivazione delle esportazioni (p.e. le svalutazioni competitive pre-euro) non hanno altro esito se non accentuare le divergenze regionali. E vi è da aggiungere che il tasso di cambio, in linea generale e ancor più nel caso italiano, risente profondamente dei movimenti speculativi di capitale[4], così che la sua svalutazione potrebbe non avere alcun effetto sulla bilancia dei pagamenti e potrebbe semmai avere effetti di segno negativo sulla propensione – già bassa – delle nostre imprese a innovare[5].
Il Rapporto ISTAT 2015 sul sistema produttivo italiano certifica che, negli ultimi anni, i principali aumenti di esportazioni si sono avuti verso la Germania (http://www.istat.it/it/files/2015/05/CAP-3-Rapporto-Annuale-2015-2.pdf) e che le imprese esportatrici sono quasi tutte localizzate al Nord. Si tratta di imprese alle quali ancora interessa la ricerca di base e applicata e ciò potrebbe dar conto del progetto di accentramento delle risorse per la ricerca in pochi poli localizzati nel Nord del Paese e del conseguente sottofinanziamento delle Università del Mezzogiorno[6]. Peraltro, già a regime, la spesa per ricerca e sviluppo è notevolmente superiore al Nord rispetto al Sud.
In più, per le imprese che operano sul mercato interno la moderazione salariale è semmai controproducente. Va premesso, a riguardo, che la riduzione dei salari monetari tende a non associarsi a un aumento dei salari reali netti (e dunque del reddito disponibile) soprattutto a ragione del fatto che l’imposizione fiscale grava prevalentemente sul lavoro dipendente[7]. Vi è di più. Se anche la riduzione dei salari monetari dovesse implicare un aumento dei salari reali, l’elevata incertezza (indotta soprattutto dalle condizioni di lavoro precario) induce risparmi precauzionali limitando il potere d’acquisto. La conseguente riduzione dei consumi genera i seguenti effetti.
a) Dal lato della domanda, la caduta dei consumi, a parità di investimenti pubblici e privati, riduce la domanda aggregata e il tasso di crescita, con un effetto amplificato dal fatto che, di norma, le famiglie con più basso reddito esprimono una propensione al consumo maggiore di quelle con redditi più elevati. A ciò si aggiunge che la compressione dei consumi tende a disincentivare gli investimenti privati, con effetti, anche in questo caso, di segno negativo sulla domanda aggregata.
b) Dal lato dell’offerta, la riduzione dei salari monetari pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica. In primo luogo, la riduzione della domanda interna riduce i mercati di sbocco a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno, con conseguente compressione degli investimenti e del tasso di crescita della produttività del lavoro[8]. In secondo luogo, e a questo associato, la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e ne accresce il grado di dipendenza dal settore bancario. La compressione dei margini di profitto, a seguire, in quanto accresce il rischio di insolvenza, induce le banche a ridurre l’offerta di credito (o ad aumentare i tassi di interesse sui prestiti) generando, anche per questa via, riduzione degli investimenti e della produttività. Non è un caso che le passività finanziarie sono di gran lunga maggiori nel Mezzogiorno. E non è un caso che i divari regionali continuano inesorabilmente ad aumentare.
Note
[1] Si rinvia, in particolare, a O. Blanchard. e F. Giavazzi, (2003). Macroeconomic effects of regulation and deregulation in goods and labour markets, “Quarterly Journal of Economics”, 118, 3.
[2] L. Tronti (2009). La crisi di produttività dell’economia italiana: scambio politico ed estensione del mercato, “Economia e Lavoro”, XLIII, pp.139-157.
[3] Si veda https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2015-0280/QEF_280.pdf?language_id=1
[4] Determinandosi secondo modalità proprie di un “concorso di bellezza”, secondo la definizione datane da Joseph Halevi: http://www.palermo-grad.com/non-esistono-mezzogiornificazioni.html
[5] A. Graziani (2000), Lo sviluppo dell’economia italiana dalla ricostruzione alla moneta unica, Bollati Boringhieri, Torino.
[6] V. G. Forges Davanzati, La distruzione dell’Università e le ragioni di chi si oppone, Micromega on-line, 26 gennaio 2016.
[7] OCSE certifica che la tassazione sul lavoro dipendente, in Italia, è fra le più alte in Europa e nel confronto con i principali Paesi industrializzati: v. http://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=AWCOMP.
[8] A.K. Dutt (2012). Distributional dynamics in Post-Keynesian growth models, “Journal of PostKeynesian Economics”, 34(3), Spring: 431-51
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Le ragioni economiche della riforma costituzionale
[“MicroMega” online del 2 giugno 2016]
SINTESI. La Costituzione che si intende riscrivere è una Costituzione modellata su parametri di efficienza economica, ovvero finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri. In un contesto che si definisce di globalizzazione, ciò che conta è la rapidità delle decisioni politiche che asseconda la rapidità dei processi di produzione e vendita. Letta in questa prospettiva, la riforma appare del tutto coerente con una logica efficientista, che si pone in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali.
Il progetto di riforma costituzionale è stato autorevolmente commentato da
numerosi costituzionalisti, che hanno concentrato la loro attenzione sugli
aspetti propriamente giuridici e politici del cambiamento prospettato[1]. Nel dibattito che si
è sviluppato in questi mesi, minore attenzione hanno ricevuto interpretazioni
che attengono a ragioni di carattere propriamente economico che spingono verso
la riforma della Costituzione italiana.
Per individuarle conviene partire da un fatto ampiamente noto. J.P.Morgan, una
delle Istituzioni finanziarie più importanti su scala globale, in un documento
del 2013, ha rilevato l’impronta “socialista” che sarebbe implicita nella nostra
Carta costituzionale[2]. In effetti, si
tratta di un’interpretazione che può essere condivisa se si leggono gli
articoli che più direttamente riguardano la sfera economica e, in particolare,
quelli che danno allo Stato anche funzioni di programmazione. Evidentemente,
dal punto di vista degli interessi della finanza che quella Istituzione
rappresenta, la presenza di elementi di “socialismo” nella nostra Costituzione
deve essere particolarmente sgradita. Va chiarito che il documento di J.P.
Morgan è estremamente rilevante, anche al di là del progetto di riforma
costituzionale, perché aiuta bene a comprendere i processi di depoliticizzazione in
atto: ovvero processi che demandano a tecnici non eletti la gestione della
politica economica, a condizione che quest’ultima sia concepita in modo da “non
essere invisa alle banche centrali”[3].
La propaganda governativa non richiama l’ammonimento
di J.P. Morgan, non fa riferimento al ‘socialismo costituzionale’ italiano,
preferendo concentrarsi essenzialmente su due aspetti.
1. La riforma costituzionale si rende necessaria per ridurre i costi della
politica.
2. La riforma costituzionale si rende necessaria per accelerare i tempi di
decisione.
Il primo argomento appare suscettibile di una immediata critica, che riguarda
il fatto che, se davvero si intende ridurre i “costi della politica”, non si
capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice –
attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli
stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta. Peraltro, come è stato
osservato, la previsione per la quale i senatori non percepiranno indennità in
quanto senatori (il che, ci viene detto, è un risparmio) è combinata con la
previsione che le medesime indennità i senatori le percepiranno dalle
istituzioni da cui sono espressi[4]. Ciò al netto del
fatto che – ed è bene ricordarlo – la remunerazione accordata a chi svolge
attività politica ha il suo fondamento nella possibilità data ai meno abbienti
di assumere incarichi. E’ evidente che nella situazione attuale questi
emolumenti hanno assunto dimensioni la cui legittimazione è oggettivamente
difficile da darsi, ma è altrettanto evidente che la politica ha un costo;
riforma o meno. Vi è di più, considerando che sebbene elevati in termini
assoluti questi costi appaiono assolutamente marginali rispetto ai costi che i
cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole
imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a
pagare il ceto politico. E che serve semmai a generare avanzi di bilancio. E
tuttavia, nel confronto con la media europea, ci troviamo di fronte al
paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una
classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di
austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione
fiscale) superiori a quanto accade altrove.
Il secondo argomento, apparentemente inoppugnabile (chi vorrebbe maggiore
lentezza delle decisioni?), è maggiormente rilevante giacché attiene ai
rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche. La
Costituzione che si intende ridisegnare è, a ben vedere, una Costituzione
modellata su parametri di efficienza economica, ovvero, finalizzata a rendere
l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri. Questo sembra il
punto essenziale sul quale si gioca questa partita. In un contesto che si
definisce di globalizzazione, effettivamente ciò che conta è la rapidità delle
decisioni politiche che asseconda la rapidità dei processi di produzione
e vendita di merci: la c.d. time-based competition che
diventa competizione fra Stati anche sulla rapidità delle scelte politiche. Letta
in questa prospettiva, la riforma appare del tutto coerente con una logica, per
così dire, efficientista: logica che, tuttavia, è in radicale contrasto con la
tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali. Ciò che conta è
l’efficienza dei processi decisionali, come si legge nei documenti preparatori
della riforma redatti da questo Governo (peraltro, del tutto in linea con i
governi che lo hanno preceduto).
Vi è anche da rilevare che il tema della qualità delle istituzioni è stato
oggetto, negli ultimi anni, di studi compiuti prevalentemente da economisti (si
pensi, innanzitutto, alla c.d. analisi economica del
diritto). Si tratta di studi che, applicando l’assunto della scelta razionale
ai problemi di decisione politica e di disegno delle istituzioni, giungono
fondamentalmente alla conclusione che è ottimale quel disegno delle istituzioni
(costituzioni comprese) che istituisce un meccanismo di incentivo/disincentivo
tale da rendere possibile la massimizzazione del benessere sociale[5]. In un certo senso, è
questa la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio,
niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei
diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un
modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di
efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in
economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di
bilancio). Ma qui, il punto ulteriore in discussione riguarda il nesso che
viene a istituirsi fra ‘governabilità’ ed efficienza, dal momento che non è
affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica
implichi un aumento dell’efficienza di sistema. In altri termini, appare
discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata
sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la
‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti. A ben vedere,
sussistono ottime ragioni per ritenere che il decisore politico è “catturato”
da gruppi di interesse e che, ponendo la questione in questi termini, il solo
risultato ragionevolmente prevedibile a seguito della riforma costituzionale
può configurarsi sotto forma di maggiore governabilità a beneficio dei gruppi
di interesse che il Governo difende[6]. E, almeno in questa
fase storica, non sono certo né i lavoratori dipendenti, né i pensionati, né le
piccole imprese. Va chiarito, a riguardo, che esiste un’ampia letteratura
economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita economica
risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a
una più equa distribuzione del reddito. Ma si tratta di una letteratura
marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale
modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e
su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di
classe dall’alto’.
In questo senso, il referendum ha una notevole implicazione economica, giacché pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente.
Note
[1] Si veda, fra gli altri, per il fronte del NO: Zagrebelsky, Il mio no per evitare una democrazia svuotata, Micromega-on line, maggio 2016. Si rinvia anche a G.Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale, Bari, Laterza, 2016. Per le ragioni del SI si rinvia, fra gli altri, a Salvatore Curreri, Le critiche che la riforma costituzionale non merita: http://www.huffingtonpost.it/salvatore-curreri/riforma-costituzionale-critiche-giuseppe-gargani_b_10201920.html.
[2] J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfay there, “European Economic Research”, 28 marzo 2013. Per un commento a questo articolo, si veda: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/.
[3] H. Radice, Reshaping fiscal policies in Europe, “The Bullet”, febbraio 2013.
[4] D. Gallo, Le ragioni del NO all’arretramento costituzionale, Micromega on-line, 31 maggio 2016.
[5] V., fra gli altri, R.A Posner, The economic analysis of law, Harvard, Harvard University Press, 1999.
[6] Sul tema, si rinvia, fra gli altri a P. Burnham, New Labour and the politics of depoliticization, “British Journal of Politics and International Relations” 3/2, 2001, pp. 127-149, che sottolinea la sostanziale impossibilità di coniugare le nuove modalità di regolazione del capitalismo con la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento.
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Sulla restrizione del credito
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 giugno 2016]
Nelle Dichiarazioni finali rilasciate lo scorso 31 maggio, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha realisticamente dipinto un quadro macroeconomico ancora caratterizzato da forti incertezze e instabilità: “nonostante i segnali di rafforzamento nel primo trimestre di quest’anno, l’economia dell’area dell’euro resta esposta ai rischi provenienti dal contesto globale. L’indebolimento del commercio si protrae; permane l’incertezza sulla capacità della Cina e di altri paesi emergenti di evitare un deciso rallentamento delle rispettive economie”. Detto diversamente: non solo siamo ancora in piena recessione, ma la riduzione degli scambi commerciali su scala globale, e il rallentamento del tasso di crescita cinese, lascia presagire un’ulteriore intensificazione della crisi.
Con riferimento all’Italia, Visco si è soffermato, in particolare, sulla solidità del nostro sistema bancario, facendo rilevare una lieve contrazione dei tassi di interesse bancari sui crediti concessi alle imprese.
A ben vedere, tuttavia, si tratta di ben poco e soprattutto di un andamento dei tassi italiani non in linea con la media europea. Uno studio recente del Centro Studi ImpresaLavoro della Confimprenditori ha rilevato differenze significative nelle condizioni del credito all’interno dell’Unione Monetaria Europea, con riferimento al periodo 2014-2015: in particolare, mentre le imprese tedesche hanno visto crescere i propri volumi di affidamenti dell’1,6% e quelle francesi del 3,3%, le imprese italiane hanno subìto un calo dei prestiti pari all’1,4%. Il fenomeno può essere spiegato con due motivazioni, che attengono, da un lato, alla specificità del tessuto produttivo italiano e, dall’altro, alle politiche economiche messe in atto nel nostro Paese negli ultimi anni.
1. Le imprese italiane, nella gran parte dei casi, e ancor più nel Mezzogiorno, sono imprese di piccole dimensioni, la cui probabilità di insolvenza (o di fallimento) è notevolmente maggiore rispetto al caso di imprese di piccole dimensioni. In più, la caduta della domanda interna, conseguente allo scoppio della crisi, ha ulteriormente contribuito ad accentuare il ‘nanismo imprenditoriale’ e ad accentuare una specializzazione produttiva in settori maturi: turismo, filiera agroalimentare, beni di lusso. E’ bene ricordare, a riguardo, che l’Italia ha perso ben 25 punti percentuali di produzione industriale nel corso dell’ultimo quinquennio. Ed è bene ricordare che, di norma, sono le imprese che operano nel settore manifatturiero a ottenere più facilmente credito, come rileva lo stesso Visco: “Le banche cercano attivamente di impiegare l’elevata liquidità a loro disposizione soprattutto in finanziamenti alla clientela in più solide condizioni patrimoniali, in particolare a quella di maggiori dimensioni e operante nel settore manifatturiero”.
A fronte di un’elevata probabilità di insolvenza di imprese di piccole dimensioni collocate in settori produttivi a bassa intensità tecnologica, è del tutto razionale, da parte del sistema bancario, razionare il credito e/o accrescere i tassi di interesse. Ciò anche a ragione della rilevanza della percezione di insolvenza, dal momento che nei rapporti banche-imprese la congettura del too big to fail (troppo grande per fallire) ha un peso importante. Si possono considerare, a riguardo, i dati relativi al tasso di rifiuto sul credito, un indice che segnala la percentuale di imprese che dichiarano di non aver ottenuto, in parte o totalmente, il credito richiesto: su fonte OCSE (2014) si registra che per le piccole e medie imprese all’inizio del 2008 questo valore ha raggiunto l’8,4%, a fronte del 7.2% per le imprese di più grandi dimensioni.
2. I Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno attuato politiche di austerità – sotto forma di contrazione della spesa pubblica – con maggiore intensità rispetto ai principali Paesi dell’Eurozona, generando un circolo vizioso che va dalla riduzione dei mercati di sbocco alla riduzione dei margini di profitto alla conseguente maggiore insolvenza alla restrizione del credito. Vi è di più. Come certificato dalla Banca d’Italia, a seguito della compressione dei mercati di sbocco e del conseguente peggioramento delle aspettative imprenditoriali, si registra anche una contrazione significativa della domanda di credito espressa dalle imprese. Questa dinamica è amplificata dal fatto che la gran parte delle nostre imprese, soprattutto nel Mezzogiorno, vendono sul mercato interno e, dunque, la riduzione della domanda interna ha un effetto rilevante sui ricavi e sui margini di profitto.
A ciò si aggiunge il fatto che, in Italia, più che in altri Paesi europei, conta molto il c.d. relationship banking, ovvero il complesso delle reti relazionali che strutturano il rapporto, nel tempo, fra impresa e banca. In altri termini, le banche italiane tendono a comportarsi in modo più accomodante, e dunque a concedere credito a condizioni più favorevoli, soprattutto a imprese con le quali nel tempo si è consolidato un rapporto di fiducia, anche indipendentemente dalla loro effettiva efficienza.
E’ opportuno notare che il nesso politiche di austerità – contrazione del credito configura un pericoloso meccanismo che si autoalimenta, secondo una sequenza così ordinabile. La riduzione della spesa pubblica riduce i mercati di sbocco; si riducono i profitti e aumentano le insolvenze (soprattutto delle piccole imprese e soprattutto delle imprese non manifatturiere); le banche reagiscono contraendo l’offerta di credito; gli investimenti si riducono contribuendo ulteriormente a ridurre la domanda aggregata, in una spirale perversa che può essere frenata solo mediante politiche fiscali espansive combinate con politiche industriali finalizzate ad accrescere le dimensioni aziendali e ad attivare flussi di innovazione. E’ la dinamica della domanda aggregata che regola il grado di dipendenza delle imprese dal sistema creditizio: e quando la domanda si contrae, i fondi interni disponibili per effettuare investimenti si riducono e con essi gli investimenti e il tasso di crescita.
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Sulle gabbie salariali
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 giugno 2016]
Ha fatto molto discutere un recente studio di Andrea Ichino, Tito Boeri ed Enrico Moretti, presentato al recente Festival dell’Economia di Trento, nel quale gli autori invocano, sebbene implicitamente, il ritorno alle c.d. gabbie salariali, ovvero a un meccanismo per il quale i salari monetari al Sud dovrebbero essere inferiori a quelli percepiti dai colleghi del Nord. Gli autori argomentano questa tesi con motivazioni che attengono alla giustizia distributiva (sarebbe cioè ingiusto pagare salari uguali in aree con prezzi diversi) e con ragioni propriamente economiche. In quest’ultimo caso, viene rilevato che minori salari al Sud genererebbero maggiore occupazione, sia per la maggiore convenienza delle imprese meridionali ad assumere sia per l’aumento dei profitti che ne seguirebbe e l’aumento degli investimenti.
Lo studio merita di essere commentato soprattutto per l’autorevolezza degli autori che lo hanno prodotto e della loro capacità di influenzare la politica economica nazionale. Partiamo anche qui da un dato, provando a capire se è vero che i salari reali (ovvero i salari monetari al netto del tasso di inflazione) sono effettivamente uniformi su scala nazionale. E’ stato stimato dall’ISTAT che, prima dello scoppio della crisi, nel settore privato i salari al Nord erano più alti di 13.000 euro l’anno rispetto ai salari percepiti dai lavoratori meridionali, e, per quanto attiene al reddito pro-capite, il divario tra le due aree del Paese è aumentato nell’ultimo biennio dello 0,2%. A fronte della riduzione della quota dei salari sul PIL che ha interessato l’intero Paese nell’ultimo ventennio, vi è ampia evidenza empirica del fatto che – fatti salvi alcuni brevi intervalli congiunturali – il rapporto fra salari dei lavoratori meridionali e salari dei lavoratori settentrionali ha segnato una costante riduzione. Per le ragioni che ho evidenziato prima, la caduta della domanda interna ha interessato soprattutto il Sud, generando un ulteriore incremento dei differenziali salariali. Vi è di più. L’Ufficio Studi di Banca d’Italia certifica che il processo di divergenza fra retribuzioni nel Mezzogiorno e retribuzioni nel Nord ha origine almeno a partire dall’inizio degli anni novanta e che, per quanto attiene al periodo che intercorre fra il 1990 e i primi anni duemila, l’incremento dei differenziali salariali su scala regionale si situa nell’ordine del 14%. Essendo minori in termini relativi i salari nel Mezzogiorno, i prezzi di vendita dei beni che le imprese meridionali vendono al Nord sono minori dei prezzi di acquisto dei prodotti del Nord da parte dei consumatori meridionali. Si è, cioè, già in presenza di un meccanismo spontaneo di deterioramento delle ragioni di scambio, stando al quale il libero scambio fra le due aree del Paese avvantaggia sistematicamente quella che, in partenza, ha il PIL più alto. Si consideri anche che le due voci principali di esportazione del Mezzogiorno riguardano i mezzi di trasporto e gli apparecchi meccanici, e che la gran parte delle esportazioni proviene da imprese la cui proprietà non è di operatori meridionali. Da un lato, i profitti provenienti dalle esportazioni vanno in parte a beneficio di imprese localizzate nel Mezzogiorno, ma il cui assetto proprietario è esterno all’area. Dall’altro lato, la quota residua di profitti attiene all’esportazione di prodotti intermedi, che vengono lavorati e venduti da imprese all’esterno dell’area, generando incrementi di profitto e beneficio di imprese non meridionali; profitti che, comunque, sono ottenuti mediante riduzioni dei salari dei lavoratori meridionali.
Si stima poi che, nelle regioni meridionali, oltre il
90% delle imprese censite ha un numero di dipendenti inferiore a nove. In tali
condizioni, appare del tutto evidente che la contrattazione aziendale o non si
fa o, se si fa, è al più un fatto meramente formale che si limita a ratificare
l’asimmetria dei rapporti di forza fra datori di lavoro e dipendenti,
asimmetria massima nelle micro-imprese.
E’ opportuno ricordare che il dispositivo delle gabbie salariali, vigente negli
anni cinquanta-sessanta, manteneva ope legis i salari monetari dei lavoratori
meridionali più bassi dei loro colleghi settentrionali, con un duplice
argomento: i) essendo differente il livello dei prezzi fra aree del Paese,
occorreva tenere basse le retribuzioni nominali nelle aree con prezzi più
bassi; ii) essendo minore la produttività del lavoro nel Mezzogiorno, e poiché
il salario è (deve) essere commisurato alla produttività del lavoro, occorreva
comprimere le retribuzioni nelle aree nelle quali la produttività era minore.
L’obiettivo e le motivazioni oggi non cambiano. Si aggiunge che la compressione
relativa dei salari al Sud favorirebbe gli investimenti nell’area. E’ bene
chiarire che nessuno di questi argomenti trova un adeguato sostegno teorico ed
empirico. Innanzitutto, se anche il livello dei prezzi è inferiore nel
Mezzogiorno, occorre considerare che i lavoratori meridionali accedono a una
quantità (e qualità) di beni e servizi pubblici di gran lunga inferiore a
quella dei loro colleghi settentrionali.Si consideri che le
rilevazioni ISTAT che vengono poste alla base del ritorno alle gabbie salariali
non certificano un livello dei prezzi più basso per ogni bene di consumo nelle
città meridionali. A titolo puramente esemplificativo, si può richiamare il
fatto che i prezzi più alti dei prodotti dell’abbigliamento e delle calzature –
fra tutti i comuni italiani – si registrano a Reggio Calabria. Questo dato non
è sorprendente, se si tiene conto dell’effetto descritto in precedenza, stando
al quale sono i prodotti importati nel Mezzogiorno ad avere un prezzo maggiore.
Nel caso specifico qui citato, l’elevato prezzo dei prodotti dell’abbigliamento
e delle calzature a Reggio Calabria può dipendere oltre che dal fatto che si
tratta di prodotti importati, anche dai costi di trasporto. Poi, la minore
produttività dei lavoratori meridionali non è imputabile al loro scarso
rendimento, ma a un bassissimo tasso di accumulazione del capitale. In terzo
luogo, e per quanto attiene all’attrazione di investimenti, i riscontri
empirici disponibili, riferiti agli ultimi anni, segnalano l’inesistenza di
questo effetto.
Ichino, Boeri e Moretti arrivano alla conclusione per la quale i salari reali sono uniformi sul territorio nazionale solo perché danno un peso rilevantissimo al prezzo delle abitazioni, rifiutando, senza motivazione, di adottare indicatori del tasso di inflazione elaborati su fonti ufficiali (ISTAT in primo luogo). In tal senso, esso è indicativo di un uso non sempre ‘scientifico’ dei dati, ed è questo un problema sul quale gli economisti e i decisori politici dovrebbero seriamente riflettere. Soprattutto quando si mettono in discussione le condizioni materiali di vita di migliaia di lavoratori.
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Il caso Brexit
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 11 luglio 2016]
Il caso Brexit ha dato adito alle più ardite profezie sulla tenuta (o meno) dell’Unione Europea e, in generale, l’evento è stato interpretato come conferma di ciò che si era previsto, soprattutto da parte di economisti che sono convinti che certamente l’UE è destinata all’implosione o – variante di questa profezia – che è vi sono rilevanti rischi che ciò accada. Su questa linea, alcuni commentatori, che hanno ritenuto e ritengono che la crisi dell’Eurozona sia imputabile agli squilibri commerciali al suo interno, hanno stabilito che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione dipenderebbe dai crescenti squilibri commerciali che il Paese ha accumulato verso l’UE negli ultimi anni.
Seppure esiste evidenza empirica in tal senso, la causa di questi saldi negativi non può essere interamente attribuita all’adesione all’Unione (tanto più che il Regno Unito è al di fuori dell’Unione Monetaria e mantiene la sua sovranità monetaria), piuttosto è il segno di un crescente declino britannico in termini di produttività che ha cause prevalentemente endogene, come argomentato a seguire.
E’ davvero quindi difficilmente credibile che gli elettori britannici siano stati guidati nella loro scelta dalla consapevolezza dei crescenti squilibri commerciali che il loro Paese ha accumulato. Il reale risultato elettorale ci mostra semmai l’opposto, poiché sono stati proprio gli elettori meno colti e più anziani, e quindi meno consapevoli ed informati, a votare a favore della Brexit. D’altra parte, a ben vedere l’argomento dei crescenti squilibri commerciali, tranne poche eccezioni, è rimasto sostanzialmente ignorato nel dibattito politico sul “Leave”.
Queste analisi derivano dalla convinzione – che si vuole essere rafforzata dal voto britannico – che i problemi dell’Unione dipendono unicamente dagli squilibri commerciali al suo interno. Sia chiaro che si tratta di un problema, ma che, al tempo stesso, non è ovviamente il solo problema dell’Unione europea come si è venuta configurando e che, soprattutto, non si dà conto, trattando in tal modo il problema, né delle specificità di scelte di singoli Paesi né soprattutto del fatto che siamo di fronte a un evento mai verificatosi: un evento di enormi proporzioni, che non trova alcun precedente storico, tale da rendere sostanzialmente impossibile prevederne gli esiti. In più, il peggioramento del saldo delle partite correnti non si è avuto a ridosso del Referendum, ma è databile almeno al semestre precedente.
Un contributo in questa direzione, che non può che essere in questa sede un’analisi del tutto preliminare, rinvia ad altri fattori, che attengono alle cause remote e a quelle più prossime della scelta britannica.
1. A partire dagli anni ottanta, si è determinato, in Gran Bretagna e non solo, un crollo dei salari reali fondamentalmente imputabile alle politiche di precarizzazione del lavoro, seguite alla stagione delle privatizzazioni e al ridimensionamento del Welfare (con il conseguente aumento dei prezzi dei servizi sociali). Il modello proposto alla fine degli anni Settanta dal primo ministro conservatore, Margaret Thatcher, ha avuto pieno successo e si è consolidato in quel Paese ben prima degli altri Paesi dell’Eurozona. Questo modello non è stato sostanzialmente modificato dai governi britannici che si sono succeduti negli anni novanta e, ancor più, nei primi anni duemila.
2. Si sono accentuati i processi di ‘finanziarizzazione’ che, in ambito europeo, hanno riguardato prevalentemente il Regno Unito e questi ultimi si sono associati a un forte impulso alla deindustrializzazione e, per conseguenza, alla riduzione dell’occupazione altamente qualificata, con conseguenze di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro.
3. Al tempo stesso, l’aumento delle diseguaglianze distributive su scala globale ha contribuito a generare imponenti flussi migratori che hanno riguardato soprattutto i Paesi ‘core’ del continente. In modo “razionale” o meno, i lavoratori britannici e i settori più marginali della società britannica hanno risposto a queste dinamiche provando, con il “Leave”, a difendersi. Brexit, in quest’ottica, è l’esito della paura dei lavoratori inglesi low-skilled della concorrenza degli immigrati. Queste crescenti tendenze xenofobe hanno alimentato la crescita elettorale dell’UKIP (United Kingdom Independence Party)di Nigel Farage che è risultato il primo partito britannico (con il 26,6% dei suffragi) alle elezioni europee del 2014 e terzo nelle elezioni generali del 2015 (con il 12,7% dei suffragi). Parte del partito conservatore britannico ha cavalcato la stessa onda emotiva costringendo la leadership di David Cameron alla scelta referendaria. A completare il quadro, la scarsa presa del Labour Party su parte del suo elettorato che non ha seguito le indicazioni a favore dell’UE date della leadership laburista.
Forse conviene partire da questi fattori per capirne qualcosa.
Il voto referendario del 23 giugno ha di fatto definito un nuovo particolare blocco sociale che lega insieme le elite conservatrici, nostalgiche del vecchio Impero vittoriano, e che si sentono più vicine al Commonwealth che al continente europeo, e i settori marginali della società britannica, minacciati dalla crescente concorrenza degli immigrati, resa possibile proprio dalla deregolamentazione del mercato del lavoro e dal peso crescente della concorrenza degli immigrati nei confronti dei working poor.
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Buona occupazione?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 agosto 2016]
L’ultimo Rapporto Istat certifica un leggero aumento del numero di occupati e una contestuale riduzione del numero di inattivi. Il tasso di occupazione aumenta di un punto percentuale, mentre il tasso di disoccupazione (contabilizzato come rapporto fra numero di disoccupati e totale della forza-lavoro) aumenta, raggiungendo l’11.6%. Sembra una notizia positiva e ovviamente il Governo ha il massimo interesse ad attribuirsene il merito. E “fatti, non parole” è stato il commento del Presidente del Consiglio. E’ tuttavia necessario comprendere più a fondo cosa ha portato a questo risultato e se questo risultato va effettivamente considerato positivo.
1. Contrariamente alla tesi governativa, il Jobs Act non ha avuto alcun ruolo. La riduzione degli sgravi contributivi per le assunzioni con contratti a tutele crescenti – misura prevista in quel provvedimento – ha generato, come ci si attendeva, un aumento dell’occupazione precaria. In tal senso, prima di salutare i dati ISTAT come un clamoroso successo del Governo, è necessario interrogarsi sulla tipologia dei nuovi contratti di lavoro. Non si può considerare un successo l’aumento dell’occupazione precaria soprattutto da parte di un Governo che ha scommesso sull’aumento dei contratti a tempo indeterminato. Peraltro, è ragionevole attendersi che molto difficilmente questo obiettivo verrà raggiunto, dal momento che, nelle condizioni date, l’aumento dell’occupazione a tempo indeterminato (ovvero la somministrazione di contratti a tutele crescenti) si rende possibile solo mediante gli sconti fiscali che il Governo asseconda alle imprese che assumono con questa tipologia contrattuale. Di quante risorse il Governo potrà disporre per le decontribuzioni negli anni a venire? A quanto pare, di risorse di entità decrescente, come i fatti stanno a dimostrare: gli esoneri contributivi al 100% sono stati esauriti nel dicembre 2015.
2. ISTAT certifica che l’aumento dell’occupazione ha riguardato soprattutto (se non esclusivamente) individui di età superiore ai cinquanta: più in dettaglio, si è ridotta l’occupazione nella fascia d’età compresa fra i 35 e i 49 anni (111 mila unità). Ciò che verosimilmente è accaduto è che, in virtù di una legislazione pensionistica sempre più stringente, una platea ampia di lavoratori si è trovata nelle condizioni di posticipare l’età del pensionamento. Anche in questo caso, non sembra di poter fare riferimento a un successo del Governo. Semmai, se l’effetto è quello qui individuato si tratterebbe di un insuccesso.
3. Trattandosi di variazioni di entità modesta, occorre anche tener conto delle metodologie di stima utilizzate dall’ISTAT e di quelle utilizzate da altri Istituti di ricerca. EUROSTAT, in particolare, certifica che il tasso di occupazione in Italia è fra i più bassi nel confronto con altri Paesi dell’Eurozona, con una differenza di circa 10 punti percentuali. E che solo la Grecia ha un tasso di occupazione inferiore al nostro. In più, la valutazione sull’andamento del mercato del lavoro italiano cambia radicalmente di segno, rispetto a quella governativa, se si guardano le serie storiche, dalle quali risulta che il numero di occupati nel II trimestre 2012 (Governo Monti) ammontava a 22.706.000 unità e nel III trimestre 2015 (Governo Renzi) a 22.645.000 unità; nel II trimestre 2016 (Governo Renzi) a 22.546.000 unità.
A ben vedere, il fatto che l’occupazione, se effettivamente è aumentata, è aumentata in misura modesta riguardando prevalentemente lavori precari si spiega bene considerando che il quadro macroeconomico non si è affatto modificato negli ultimi mesi.
In particolare, la dinamica degli investimenti privati ha continuato a essere di segno negativo rispetto agli scorsi anni. In più, le esportazioni nette, nel corso dell’ultimo anno, non hanno contribuito a far crescere la domanda, anzi. Su fonte ISTAT, si registra, per il 2015, una contrazione del saldo commerciale dai 5.3 miliardi dell’ottobre 2014 a circa 4.8 miliardi dell’ottobre 2015. Ciò è accaduto fondamentalmente a ragione del pur modesto aumento del tasso di crescita, che si è immediatamente tradotto in un rilevante aumento delle importazioni. La pressoché totale dipendenza del nostro settore produttivo dall’acquisto dall’estero di prodotti energetici, di beni strumentali e di prodotti intermedi ha prodotto una crescita delle importazioni nell’ordine del 5%. In secondo luogo, è continuato, nel periodo considerato, l’aumento dei risparmi per motivi precauzionali. Si tratta di un fenomeno tipicamente associato a un aumento dell’incertezza, che, nel contesto attuale, è in larga misura dipendente dal continuo aumento della disoccupazione giovanile e dei tassi di inattività, nella sostanziale assenza di ammortizzatori sociali. In altri termini, le famiglie italiane hanno reagito e reagiscono alla bassissima probabilità per i loro figli di trovare occupazione trasferendo loro reddito, ovvero sostituendosi allo Stato nell’erogazione di sussidi; il che, sul piano macroeconomico, si traduce in riduzione della domanda e conseguente riduzione dell’occupazione. In più, su fonte ISTAT, l’indice di fiducia di imprese e consumatori ha continuato (e continua) a ridursi certificando che né gli investimenti né i consumi sono (e saranno nel breve periodo) in aumento.
Va detto che il 2016, per il mercato del lavoro italiano, andrà ricordato come l’anno del boom dei voucher, con un incremento, su fonte INPS, del 43% rispetto al 2015. Si tratta di “buoni lavoro” di 10 euro per prestazioni saltuarie e occasionali. Evidentemente, anche per questa ragione, occorre essere molto cauti nell’affermare che il mercato del lavoro italiano dà segni di miglioramento. Ciò che di certo si può affermare è che non si sta andando nella direzione auspicata dal Governo di creazione di “buona occupazione”.
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L’economia italiana è a crescita zero
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 settembre 2016]
L’economia italiana è a crescita zero, come certifica l’ISTAT nell’ultimo Rapporto presentato nei giorni scorsi. Vero è che bassi tassi di crescita si registrano in quasi tutti i maggiori Paesi dell’Eurozona (lo 0% interessa anche la Francia, a fronte del +0.4% della Germania e di una media UE dell’1.2% su base annua). Vero è anche che, rispetto a quaranta anni fa, i tassi di crescita delle economie industrializzate sono notevolmente più bassi, inducendo molti economisti a prefigurare un percorso di stagnazione secolare.
Va tuttavia riconosciuta una peculiarità italiana, che ha natura strutturale: si tratta del drammatico crollo della produttività del lavoro, che declina, in Italia, da almeno un ventennio e a fronte del quale nessun Governo ha individuato una terapia efficace per farvi fronte. La caduta della produttività dipende da numerose circostanze, sulle quali, peraltro, non vi è accordo fra economisti di diverso orientamento teorico.
Con la massima schematizzazione, si possono distinguere due posizioni teoriche e di politica economica.
Il primo, di matrice liberista, imputa la riduzione della produttività del lavoro fondamentalmente a due fattori: a) la rigidità del mercato del lavoro e, più in particolare, la c.d. rigidità funzionale del contratto di lavoro; b) la rigidità dell’allocazione della forza-lavoro all’interno dell’unità produttiva. La logica sottostante questa diagnosi si fonda sulla convinzione che solo una credibile minaccia di licenziamento (ovvero di non rinnovo del contratto) può incentivare il lavoratore ad erogare un rendimento elevato. Diversamente, assunto che il lavoro è solo fonte di disutilità, il lavoratore tenderebbe a comportarsi da “scansafatiche”. Si tratta di un meccanismo noto come effetto di disciplina, in base al quale la produttività del lavoro, determinata qui esclusivamente da fattori motivazionali, cresce al crescere della probabilità di licenziamento. In più, viene argomentato che la produttività del lavoro può crescere anche come effetto di una maggiore efficienza organizzativa. Si fa riferimento, in questo caso, alla possibilità che l’imprenditore possa modificare, senza vincoli normativi, l’assetto organizzativo dell’impresa, anche, p.e., mediante demansionamento.
Questi due argomenti costituiscono le basi teoriche dei provvedimenti di deregolamentazione del mercato del lavoro. Occorre rilevare che le determinanti della produttività del lavoro sono molteplici e non riconducibili, come nell’impostazione dominate, a sole variabili motivazionali. La dotazione di capitale fisso, in particolare, influisce in modo rilevante sulla dinamica della produttività, così come le competenze acquisite dai lavoratori mediante scolarizzazione e learning by doing, così come anche la struttura demografica della forza-lavoro.
In ogni caso, sembra di poter rilevare, in particolare nel caso italiano, che i dispositivi normativi finalizzati a far crescere la produttività del lavoro per il solo tramite di un aumento del rendimento trovano la loro ratio nel fatto che le imprese italiane, nella gran parte dei casi e soprattutto nel Mezzogiorno, sono imprese di piccole dimensioni, con bassa propensione all’innovazione, i cui investimenti sono prevalentemente finanziati dal credito bancario. In una condizione nella quale il Governo non intende attuare politiche industriali che contrastino il ‘nanismo imprenditoriale’ e, anche tramite il finanziamento pubblico della ricerca di base e applicata, promuovano innovazioni, appare evidente che la sola altra opzione possibile – quella di fatto perseguita in Italia negli ultimi anni – sia la c.d. ‘via bassa dello sviluppo’. Che passa da misure di moderazione salariale e, per quanto rileva in questa sede, per politiche di deregolamentazione del mercato e del contratto di lavoro che possano eventualmente generare incrementi di produttività per il tramite di una maggiore intensificazione dello sforzo lavorativo.
Occorre puntualizzare che la reiterazione di misure di precarizzazione del lavoro ha di fatto contribuito a ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro. Ciò fondamentalmente per due ragioni:
a. La precarizzazione del lavoro riduce la propensione al consumo, generando, tramite un effetto di accelerazione, la conseguente riduzione degli investimenti e della produttività del lavoro. La precarizzazione del lavoro riduce la propensione al consumo dal momento che, assumendo ragionevolmente che l’obiettivo dei lavoratori occupati sia mantenere sostanzialmente stabile il proprio tenore di vita, essa si associa a un aumento dell’incertezza derivante dall’aumento della probabilità di licenziamento e, per conseguenza, all’aumento dei risparmi precauzionali.
b. La precarizzazione del lavoro riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro dal momento che pone le imprese nella condizione di competere riducendo i costi (i salari in primis) e, dunque, disincentiva le innovazioni.
Peraltro, come rilevato dalla BCE, soprattutto nei Paesi periferici dell’Eurozona, “i capitali sono stati sempre più indirizzati verso settori poco esposti alla concorrenza, prevalentemente nell’ambito dei servizi, alla ricerca di rendite”: il che ha evidentemente contribuito ad accelerare il declino della produttività del lavoro, dal momento che è ampiamente noto che questa è significativamente più alta nel settore manufatturiero. Per quanto riguarda l’azione di questo Governo, va rimarcato che, anziché provare a intervenire post factum (ovvero dopo la pubblicazione dei dati ISTAT) con un piano di investimenti pubblici – i soli, in effetti, in grado di invertire la rotta – si poteva evitare negli scorsi anni di elargire miliardi di euro alle imprese per incentivarle ad assumere con contratti a tutele crescenti per cercare, per questa via, di spendere elettoralmente i successi del Jobs Act. Miliardi di euro che hanno dato esiti, in termini di creazione di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, estremamente deludenti.
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La finanza sovranazionale e la controriforma costituzionale
[“MicroMega” online del 27 settembre 2016]
“I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alle cadute delle dittature, e sono rimaste segnate da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste … I sistemi politici del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso basate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi” (J.P.Morgan, 2013).
Perché Matteo Renzi investe tutto il suo capitale politico per una riforma della Costituzione della quale, si può supporre, alla gran parte dei cittadini italiani non interessa per nulla? Perché lo fa in disprezzo del duplice fatto che la riforma è partorita da un Parlamento dichiarato illegittimo e del fatto che questo provvedimento non era nel suo programma elettorale? La risposta può rinviare a due soli ordini di ragioni: il primo, per così dire, psicologico; il secondo propriamente economico. Il primo potrebbe riguardare il fatto che Renzi voglia, per così dire, passare alla Storia come “il grande riformatore”, “il costituente del XXI” secolo. Potrebbe essere. Ma pare davvero una motivazione molto parziale a fronte della quale si può contrapporre una interpretazione che, senza cadere in improbabili complottismi, metta assieme alcuni fatti che ci portano a pensare che la riforma della Costituzione italiana si renda necessaria come scambio politico fra questo Governo e la finanza internazionale. Sia chiaro che non si fa qui riferimento a una cospirazione occulta, e tantomeno a un progetto eticamente censurabile, ma a una sequenza di eventi che quantomeno fanno seriamente dubitare della narrazione governativa. Andiamo per ordine.
1. Nel 2013, J.P.Morgan pubblica un rapporto nel quale invita il Governo italiano a modificare la Costituzione vigente perché contiene “troppi elementi di socialismo”. In particolare, J.P.Morgan insiste sulla inopportunità di tenere in vita una Carta Costituzionale di matrice novecentesca, nella quale i valori fondanti riguardano la tutela dei diritti sociali, il fondamentale ruolo attribuito allo Stato nella programmazione economica, il richiamo alla democrazia economica. Per la finanza sovranazionale, la Costituzione italiana è da modificare radicalmente, come quelle degli altri Paesi mediterranei dell’Eurozona, ma lo è ancor più rispetto a queste esperienze: l’Italia diventa, per così dire, un laboratorio per sperimentare dettati costituzionali adeguati al XXI secolo, ovvero coerenti e funzionali ai processi detti di finanziarizzazione1.
2. I rapporti fra Renzi e autorevoli esponenti di J.P.Morgan, in particolare con Jamie Dimon, sono ampiamente documentati ed è noto che attengono al salvataggio di alcune banche italiane, Monte dei Paschi di Siena innanzitutto per evitare effetti di contagio sull’intero sistema finanziario italiano2.
3. J.P. Morgan, allo stato dei fatti, è interessata a ricapitalizzare il sistema bancario italiano, in particolare il Monte dei Paschi di Siena. La spesa sarebbe irrisoria, data l’enorme disponibilità finanziaria di J.P. Morgan, probabilmente si riuscirebbe anche a trarne profitto. Ma a condizione che il Governo italiano proceda a fare le “riforme” indicate.
Se questa ricostruzione è veritiera, si giunge alla conclusione che la riforma Boschi-Renzi costituisce uno scambio politico fra Governo italiano e finanza internazionale per un obiettivo del tutto contingente e, per certi aspetti, neppure di rilevanza tale da motivare il superamento sostanziale della Costituzione vigente: il salvataggio del sistema bancario italiano, e in particolare, del Monte dei Paschi di Siena. Evidentemente, il corollario riguarda il fatto che la politica italiana è in larghissima misura eterodiretta: cosa che, per molti commentatori, non è peraltro nulla di così nuovo, dal momento che già dall’insediamento del Governo Monti si fece esplicito riferimento, in quel caso, a una decisione di Goldman Sachs.
Vi è un passaggio successivo. La finanza sovranazionale chiede all’Italia di accelerare i tempi di decisione e ciò si rende necessario dal momento che, in un contesto di ‘globalizzazione’ (sebbene con forti controtendenze registrate dall’aumento delle misure protezionistiche), il turnover del capitale è notevolmente accelerato e le scelte di localizzazione degli investimenti sono profondamente influenzate dalla capacità del singolo Governo, in un contesto di competizione fra Stati, di creare un ambiente favorevole all’attrazione di investimenti (e/o alla non delocalizzazione). In tal senso, l’invito di J.P.Morgan è pienamente ascrivibile a questa logica. Al di là del fatto che la nuova costituzione molto difficilmente porterà a un accelerazione dei tempi di decisione, in considerazione della sua farraginosità (come messo in evidenza ripetutamente dai sostenitori del NO al Referendum), la questione rilevante da discutere è se ammesso che questo risultato si produca (ovvero che i tempi di decisione si accelerino) ciò è un processo desiderabile o meno3. La risposta dipende in modo significativo dal modello di sviluppo dell’economia italiana che si intende promuovere o rafforzare. Per la seguente ragione. Con ogni evidenza, la finanza sovranazionale e le multinazionali che domandano la riforma costituzionale lo fanno per trovare in Italia un assetto istituzionale per loro più favorevole: bassi salari, risibile tutela dei diritti dei lavoratori, normativa trascurabile in materia ambientale, delineando un percorso di crescita in condizioni di ulteriore aggravamento delle diseguaglianze distributive e di ulteriore attacco al lavoro. Per chi ritiene che l’eventuale attrazione di investimenti non possa che avvenire sostenendo questi costi (inclusa la perdita della sovranità politica), il SI è una scelta scontata. Per chi ritiene che le diseguaglianze siano un freno alla crescita, che la finanza sovranazionale non debba ingerire nelle decisioni di uno Stato sovrano; per chi ritiene che la globalizzazione debba governata e che la totale libertà di movimento dei capitali sia una delle concause della crisi in corso la risposta non può che essere decisamente NO. La posta in gioco è, dunque, la vendita della nostra carta costituzionale al miglior offerente: il tentativo estremo di provare a fuoriuscire da una crisi della quale non si vede una possibile via d’uscita.
Note
1 http://www.giuristidemocratici.it/hotTopics/in_difesa_della_costituzione/post/20160317083833
2 Si vedano vari articoli pubblicati da Repubblica, giornale non sospettabile di essere anti-governativo, e, in particolare, Giovanni Pons, MPS. Il soccorso della finanza globale: vince JPMorgan, la banca dei governi, “La Repubblica – Affari e Finanza”, 26 settembre 2016.
3 V. G. Bucci, Revisione costituzionale e rapporti economico-sociali nell’era della crisi organica, “Osservatorio Costituzionale”, n.3, 2016.
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Dopo Bratislava
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 ottobre 2016]
Il recente vertice di Bratislava sul futuro assetto dell’Unione europea sembrerebbe, dato l’esito molto negativo del risultato, dar ragione agli euroscettici e, in particolare, ai sostenitori della fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’area euro. Si tratta di un’ipotesi coltivata, negli ultimi anni, da non pochi economisti, che torna in auge in ogni momento di riacutizzazione dei problemi interni all’Unione e sulla quale occorre sgombrare il campo da alcune ipotesi assai discutibili sulla quale si basa. Andiamo per ordine.
1.Si sostiene che il recupero della sovranità monetaria consentirebbe l’attuazione di politiche fiscali espansive, impedite dagli accordi europei sui vincoli all’espansione del deficit e del debito pubblico. Falso. L’Italia ha perso la sua sovranità monetaria con il c.d. divorzio fra Tesoro e banca d’Italia del 1981, voluto da Nino Andreatta e da Carlo Azeglio Ciampi. Da quell’anno, del tutto indipendentemente dai vincoli europei, non è consentito alla Banca d’Italia l’acquisito di titoli del debito pubblico (la c.d. monetizzazione del debito) e, dunque, la spesa pubblica può essere finanziata via tassazione o emissione di titoli di Stato sui mercati azionari, non più “stampando moneta”.
2.Si sostiene che la fuoriuscita unilaterale dall’euro consentirebbe all’Italia di recuperare un percorso di crescita trainato dalle esportazioni mediante la svalutazione della lira. Falso, anche in questo caso. Le svalutazioni, nel caso italiano, hanno sempre generato effetti perversi. In primo luogo, perché hanno consentito alle nostre imprese di far profitti non innovando. Ed è questo uno dei principali fattori che hanno determinato il drammatico calo del tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia, da almeno un ventennio. In secondo luogo, in un’economia dualistica nella quale le imprese esportatrici sono quasi esclusivamente localizzate nel Nord del Paese, le svalutazioni hanno significativamente contribuito ad accentuare i divari regionali. A ciò si può aggiungere che l’exit italiano non potrebbe che associarsi all’adozione di misure protezionistiche e che queste sarebbero estremamente dannose per le nostre imprese in un contesto nel quale le c.d. catene internazionali del valore rivestono un ruolo sempre più importante per la crescita economica (si tratta in sostanza di forme di delocalizzazione di piccole unità produttive specializzate nella produzione di beni intermedi che circolano nello spazio europeo e che sono acquistate dalle imprese produttrici di beni finali). La gran parte delle imprese italiane sopravvive grazie a rapporti di subfornitura di prodotti intermedi alle imprese localizzate nel centro del continente. Eventuali misure protezionistiche ne decreterebbero il fallimento.
3. Si sostiene infine che l’Europa è irriformabile e che, su questa premessa, i benefici dell’uscita sarebbero certamente superiori ai costi della permanenza. Falso o comunque tutto da dimostrare. In primo luogo, l’Unione europea ha subìto, nel corso della crisi, numerosi e importanti cambiamenti. Rilevante in tal senso il programma di acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari voluto dalla BCE di Draghi: il cosiddetto quantitative easing, assolutamente inimmaginabile da quando l’Unione Monetaria è stata costituita. In secondo luogo, non è mai esistita una unione monetaria delle dimensioni di quella attualmente esistente in Europa e di norma le ‘piccole’ unioni monetarie del passato si sono dissolte tramite accordo fra i Paesi membri: mai con abbandoni unilaterali.
Infine, i sostenitori dell’abbandono dell’euro incorrono in un cortocircuito logico, quando provano a motivare politicamente questa scelta. Il loro argomento, tipico di una certa sinistra politica italiana, è che poiché le politiche europee sono di destra, le politiche nazionali post-euro sarebbero necessariamente di sinistra. Qui siamo nella sfera delle speranze o delle utopie. Come è noto, escluse alcune ambiguità del Movimento 5stelle sul tema, la sola forza politica che esplicitamente vuole l’abbandono dell’euro è la Lega Nord. Si può realisticamente immaginare che la gestione dell’exit da parte dell’Italia si associ a non meglio definite politiche ‘di sinistra’ laddove a gestire l’eventuale transizione sarebbe il partito più a Destra nell’attuale schieramento politico?
Sia chiaro che il progetto di unificazione europea è a dir poco imperfetto e che ben pochi sarebbero disposti a difenderlo per come si è venuto configurando. L’Unione europea è tutt’altro che un’area monetaria ottimale e resta un puzzle capire come non sia ancora implosa. Ciò detto, ci sembra di poter condividere la tesi, o profezia, di George Soros, uno dei massimi speculatori sulla scena internazionale, per la quale se l’Unione morirà lo dovrà alla Germania. Quando l’economia tedesca non avrà più bisogno, come mercato di sbocco, del resto dell’Unione è probabile che troverà conveniente decretare la fine dell’esperimento. In tal senso, non ci sembra che l’insistenza del nostro Presidente del Consiglio sulla maggiore flessibilità nella gestione dei conti pubblici – tema ‘caldo’ nel recente vertice di Bratislava – sia risolutivo: il potere politico dell’Italia nel continente è ancora ai minimi termini e, in queste condizioni, fare la “voce grossa” nella migliore delle ipotesi è inutile; nella peggiore delle ipotesi può generare il sospetto che le risorse addizionali (di cui, beninteso, l’Italia avrebbe bisogno) verranno destinate a elargire mance: il provvedimento sugli 80 euro in busta paga e lo spreco degli sgravi fiscali del Jobs Act – senza alcuna ricaduta su occupazione e crescita – alimentano questo timore.
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Le implicazioni economiche della controriforma costituzionale
[“MicroMega” online del 25 ottobre 2016]
“Se la riforma costituzionale venisse bocciata il rischio politico aumenterebbe in modo rilevante e alcuni degli sforzi fatti per aumentare la produttività e rafforzare la crescita economica di lungo termine potrebbero subire una battuta d’arresto” Fitch Ratings, Inc./Ltd., – agenzia internazionale di valutazione del credito e del rating.
Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci sulla revisione di una parte consistente della Costituzione vigente. Si tratta di un tentativo di riforma che, se avrà successo, ridisegnerà in modo significativo i rapporti fra Stato e mercato nell’economia italiana. In altri termini, è estremamente difficile ritenere che si tratti esclusivamente di un’operazione, per così dire, ‘sovrastrutturale’ che incide esclusivamente sulla sfera della politica e dei rapporti di bilanciamento dei poteri fra camera dei deputati e nuovo senato, fra governo e amministrazioni locali. Detto diversamente, la riforma costituzionale la si può leggere come un provvedimento di politica economica, soprattutto su questi aspetti.
1) La modifica dell’art.81, già fatta due anni fa e mantenuta nel nuovo testo, di fatto stabilisce che le politiche di sostegno della domanda anche solo in funzione anti-ciclica (l’aumento della spesa pubblica in fasi recessive) sono incostituzionali, dal momento che il nuovo articolo – peraltro approvato con pochissima discussione in Parlamento – stabilisce che lo Stato italiano si impegna a mantenere tendenzialmente l’eguaglianza fra spese ed entrate. L’obiettivo del pareggio di bilancio diventa costituzionalmente garantito e, come è agevole intuire, diventa costituzionalmente garantita una particolare teoria economica. Quella, di impronta liberista, che si fonda sulla convinzione che la spesa pubblica sia solo fonte di sprechi e che in fasi recessive occorre semmai ridurre la spesa pubblica – la c.d. dottrina dell’austerità espansiva, ampiamente sperimentata in Europa e in Italia negli ultimi anni (e attualmente ancora dominante, in teoria e nei fatti), peraltro ampiamente smentita sul piano teorico e fattuale.
2) L’abolizione del CNEL non è affatto, come sostenuto sia dal fronte del SI sia anche da molti esponenti del fronte del NO, un atto dovuto in considerazione del fatto che si tratta di un ente inutile. A parte la difficoltà di dare una definizione condivisa di ente inutile, il CNEL è stato pensato come fondamentale organo consultivo per le attività di programmazione economica che la costituzione vigente assegna allo Stato. In tal senso, la sua abolizione sancisce la convinzione che lo Stato debba rinunciare a programmare l’attività economica, ovvero debba ritirarsi, fare un passo indietro, rispetto alle dinamiche proprie di un’economia di mercato.
3) Non è un mistero, anzi è parte integrante della propaganda ufficiale del Governo, che il tentativo di fuoriuscire da questa lunga recessione passa attraverso il tentativo di attrarre investimenti. Sul sito del Governo italiano, si invitano le imprese a investire in Italia (o a non delocalizzare) facendo presente che in Italia i salari sono ‘competitivi’, cioè bassi: il che è assolutamente vero. Cosa c’entra questo con la riforma costituzionale? E’ la ‘governabilità’ a dovere garantire questo esito, negli auspici del Governo. L’accentramento di poteri dovrebbe far sì che l’esecutivo assuma in tempi più rapidi di quelli attuali (sebbene sia noto che la produzione di leggi in Italia non sia assolutamente al di sotto della media europea) decisioni che favoriscano l’ingresso nel nostro Paese di capitali esteri. Si può ricordare che un obiettivo analogo si pose in fase di discussione dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e si può registrare che da allora, ovvero nell’ultimo biennio, la localizzazione di investimenti in Italia è stata sostanzialmente nulla. In quella fase, l’argomento era: le imprese non investono in Italia perché abbiamo un mercato del lavoro troppo rigido. In questa fase, l’argomento è: le imprese non investono in Italia perché i tempi di decisione della Politica sono troppo lenti. Stando alle rilevazioni del Centro Studi CGIA, la dinamica degli investimenti diretti esteri (IDE) presenta, per l’Italia, un saldo negativo, ovvero è maggiore il valore degli investimenti effettuati dalle imprese italiane all’estero rispetto al valore degli investimenti “in entrata”. La scommessa governativa – rivedere la Costituzione per attrarre investimenti – appare dunque molto ragionevolmente perdente, anche perché, considerando la recente bocciatura del nuovo testo da parte della finanza sovranazionale (attraverso il Financial Times), la riforma è troppo confusa per essere compresa da investitori esteri e non è neppure soddisfacente per chi la ha commissionata. E’ noto infatti che, a partire da un report del 2013, J.P. Morgan ha sollecitato una profonda revisione della Costituzione italiana, invitando il Governo a emendare i troppi elementi di “socialismo” che essa contiene, con particolare riferimento alla “tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori” e al diritto di sciopero, che, per la finanza sovranazionale della quale J.P. Morgan è fra le massime espressioni, andrebbero superati[1].
Ma, per molti aspetti, è anche una scommessa controproducente ai fini del recupero di un percorso di crescita, nonostante l’opinione del Centro Studi di Confindustria[2]. Come è noto, a partire dalla primavera scorsa, Confindustria ha esplicitato un netta posizione a favore del SI, con argomentazioni francamente imbarazzanti per chi continua a ritenere le previsioni in Economia una cosa seria, sebbene difficilissime da implementare e comunque da assumere cum grano salis. L’Ufficio studi di Confindustria prevede in caso di vittoria del NO uno scenario a dir poco drammatico: una riduzione del Pil dell’1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Curiosamente, a differenza di quanto normalmente si fa (e si dovrebbe fare) non si fanno previsioni sullo scenario alternativo (vittoria del SI), così che non è dato sapere, ammesso che la metodologia sia valida, se il SI produrrebbe crescita o – caso da non escludere – una recessione ancora più intensa.
Come vengono motivate queste previsioni? Fondamentalmente avvalendosi dell’argomento per il quale il NO produrrebbe instabilità; l’instabilità produrrebbe incertezza; l’incertezza si assocerebbe a declino degli investimenti e alla conseguente contrazione del tasso di crescita. Posta la questione in questi termini, viene da chiedersi, non retoricamente, perché non dovrebbe accadere quanto previsto in caso di vittoria del NO per tutte le possibili crisi di governo. E’ ovvio infatti che ogni cambiamento istituzionale genera incertezza, così come lo genera la resistenza (se ha successo), a cambiamenti di significativo rilievo del disegno istituzionale.
A ben vedere, sembra molto più ragionevole l’argomento contrario. Innanzitutto, è proprio il Governo ad aver creato le condizioni per un aumento dell’incertezza, che è esattamente la variabile che, proprio per la logica seguita dall’Ufficio Studi di Confindustria, disincentiva l’attrazione di investimenti. In secondo luogo, se si riconosce che la ‘riforma’ è finalizzata all’attrazione di investimenti occorre riconoscere che questa si rende semmai possibile comprimendo i salari e i diritti dei lavoratori. Sulla base di questa lettura, non sorprende che Confindustria sostenga pienamente le ragioni del SI. E tuttavia, questa strategia – se risulta inefficace, come c’è da aspettarsi, per l’aumento degli investimenti – rischia di generare ulteriore compressione della domanda interna e l’ulteriore intensificarsi della recessione.
Le implicazioni economiche della controriforma costituzionale
[“MicroMega” online del 25 ottobre 2016]
“Se la riforma costituzionale venisse bocciata il rischio politico aumenterebbe in modo rilevante e alcuni degli sforzi fatti per aumentare la produttività e rafforzare la crescita economica di lungo termine potrebbero subire una battuta d’arresto” Fitch Ratings, Inc./Ltd., – agenzia internazionale di valutazione del credito e del rating.
Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci sulla revisione di una parte consistente della Costituzione vigente. Si tratta di un tentativo di riforma che, se avrà successo, ridisegnerà in modo significativo i rapporti fra Stato e mercato nell’economia italiana. In altri termini, è estremamente difficile ritenere che si tratti esclusivamente di un’operazione, per così dire, ‘sovrastrutturale’ che incide esclusivamente sulla sfera della politica e dei rapporti di bilanciamento dei poteri fra camera dei deputati e nuovo senato, fra governo e amministrazioni locali. Detto diversamente, la riforma costituzionale la si può leggere come un provvedimento di politica economica, soprattutto su questi aspetti.
1) La modifica dell’art.81, già fatta due anni fa e mantenuta nel nuovo testo, di fatto stabilisce che le politiche di sostegno della domanda anche solo in funzione anti-ciclica (l’aumento della spesa pubblica in fasi recessive) sono incostituzionali, dal momento che il nuovo articolo – peraltro approvato con pochissima discussione in Parlamento – stabilisce che lo Stato italiano si impegna a mantenere tendenzialmente l’eguaglianza fra spese ed entrate. L’obiettivo del pareggio di bilancio diventa costituzionalmente garantito e, come è agevole intuire, diventa costituzionalmente garantita una particolare teoria economica. Quella, di impronta liberista, che si fonda sulla convinzione che la spesa pubblica sia solo fonte di sprechi e che in fasi recessive occorre semmai ridurre la spesa pubblica – la c.d. dottrina dell’austerità espansiva, ampiamente sperimentata in Europa e in Italia negli ultimi anni (e attualmente ancora dominante, in teoria e nei fatti), peraltro ampiamente smentita sul piano teorico e fattuale.
2) L’abolizione del CNEL non è affatto, come sostenuto sia dal fronte del SI sia anche da molti esponenti del fronte del NO, un atto dovuto in considerazione del fatto che si tratta di un ente inutile. A parte la difficoltà di dare una definizione condivisa di ente inutile, il CNEL è stato pensato come fondamentale organo consultivo per le attività di programmazione economica che la costituzione vigente assegna allo Stato. In tal senso, la sua abolizione sancisce la convinzione che lo Stato debba rinunciare a programmare l’attività economica, ovvero debba ritirarsi, fare un passo indietro, rispetto alle dinamiche proprie di un’economia di mercato.
3) Non è un mistero, anzi è parte integrante della propaganda ufficiale del Governo, che il tentativo di fuoriuscire da questa lunga recessione passa attraverso il tentativo di attrarre investimenti. Sul sito del Governo italiano, si invitano le imprese a investire in Italia (o a non delocalizzare) facendo presente che in Italia i salari sono ‘competitivi’, cioè bassi: il che è assolutamente vero. Cosa c’entra questo con la riforma costituzionale? E’ la ‘governabilità’ a dovere garantire questo esito, negli auspici del Governo. L’accentramento di poteri dovrebbe far sì che l’esecutivo assuma in tempi più rapidi di quelli attuali (sebbene sia noto che la produzione di leggi in Italia non sia assolutamente al di sotto della media europea) decisioni che favoriscano l’ingresso nel nostro Paese di capitali esteri. Si può ricordare che un obiettivo analogo si pose in fase di discussione dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e si può registrare che da allora, ovvero nell’ultimo biennio, la localizzazione di investimenti in Italia è stata sostanzialmente nulla. In quella fase, l’argomento era: le imprese non investono in Italia perché abbiamo un mercato del lavoro troppo rigido. In questa fase, l’argomento è: le imprese non investono in Italia perché i tempi di decisione della Politica sono troppo lenti. Stando alle rilevazioni del Centro Studi CGIA, la dinamica degli investimenti diretti esteri (IDE) presenta, per l’Italia, un saldo negativo, ovvero è maggiore il valore degli investimenti effettuati dalle imprese italiane all’estero rispetto al valore degli investimenti “in entrata”. La scommessa governativa – rivedere la Costituzione per attrarre investimenti – appare dunque molto ragionevolmente perdente, anche perché, considerando la recente bocciatura del nuovo testo da parte della finanza sovranazionale (attraverso il Financial Times), la riforma è troppo confusa per essere compresa da investitori esteri e non è neppure soddisfacente per chi la ha commissionata. E’ noto infatti che, a partire da un report del 2013, J.P. Morgan ha sollecitato una profonda revisione della Costituzione italiana, invitando il Governo a emendare i troppi elementi di “socialismo” che essa contiene, con particolare riferimento alla “tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori” e al diritto di sciopero, che, per la finanza sovranazionale della quale J.P. Morgan è fra le massime espressioni, andrebbero superati[1].
Ma, per molti aspetti, è anche una scommessa controproducente ai fini del recupero di un percorso di crescita, nonostante l’opinione del Centro Studi di Confindustria[2]. Come è noto, a partire dalla primavera scorsa, Confindustria ha esplicitato un netta posizione a favore del SI, con argomentazioni francamente imbarazzanti per chi continua a ritenere le previsioni in Economia una cosa seria, sebbene difficilissime da implementare e comunque da assumere cum grano salis. L’Ufficio studi di Confindustria prevede in caso di vittoria del NO uno scenario a dir poco drammatico: una riduzione del Pil dell’1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Curiosamente, a differenza di quanto normalmente si fa (e si dovrebbe fare) non si fanno previsioni sullo scenario alternativo (vittoria del SI), così che non è dato sapere, ammesso che la metodologia sia valida, se il SI produrrebbe crescita o – caso da non escludere – una recessione ancora più intensa.
Come vengono motivate queste previsioni? Fondamentalmente avvalendosi dell’argomento per il quale il NO produrrebbe instabilità; l’instabilità produrrebbe incertezza; l’incertezza si assocerebbe a declino degli investimenti e alla conseguente contrazione del tasso di crescita. Posta la questione in questi termini, viene da chiedersi, non retoricamente, perché non dovrebbe accadere quanto previsto in caso di vittoria del NO per tutte le possibili crisi di governo. E’ ovvio infatti che ogni cambiamento istituzionale genera incertezza, così come lo genera la resistenza (se ha successo), a cambiamenti di significativo rilievo del disegno istituzionale.
A ben vedere, sembra molto più ragionevole l’argomento contrario. Innanzitutto, è proprio il Governo ad aver creato le condizioni per un aumento dell’incertezza, che è esattamente la variabile che, proprio per la logica seguita dall’Ufficio Studi di Confindustria, disincentiva l’attrazione di investimenti. In secondo luogo, se si riconosce che la ‘riforma’ è finalizzata all’attrazione di investimenti occorre riconoscere che questa si rende semmai possibile comprimendo i salari e i diritti dei lavoratori. Sulla base di questa lettura, non sorprende che Confindustria sostenga pienamente le ragioni del SI. E tuttavia, questa strategia – se risulta inefficace, come c’è da aspettarsi, per l’aumento degli investimenti – rischia di generare ulteriore compressione della domanda interna e l’ulteriore intensificarsi della recessione.
Note
[1] Sul punto, si rinvia, fra gli altri, a G. Forges Davanzati, La finanza sovranazionale e la controriforma costituzionale, Micromega on-line, 27 settembre 2016.
[2] Centro studi Confindustria, La risalita modesta e i rischi di instabilità, Scenari Economici, giugno 2016, n.26.
[1] Sul punto, si rinvia, fra gli altri, a G. Forges Davanzati, La finanza sovranazionale e la controriforma costituzionale, Micromega on-line, 27 settembre 2016.
[2] Centro studi Confindustria, La risalita modesta e i rischi di instabilità, Scenari Economici, giugno 2016, n.26.
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La legge di stabilità e la precarietà del lavoro
[“MicroMega” online del 12 dicembre 2016]
Come rilevato da alcuni commentatori, la Legge di Stabilità 2017 risente della campagna referendaria e alcune disposizioni lì contenute sono state pensare per acquisire immediato consenso in vista della consultazione dello scorso 4 dicembre1.
Al netto di queste misure, i principali assi di intervento nel documento approvato sono sostanzialmente tre e presentano rilevanti elementi di criticità.
1. Risulta confermata, per quanto attiene alla ripartizione dell’onere fiscale, la linea seguita negli ultimi anni con misure di ulteriore detassazione per favorire gli investimenti, questa volta soprattutto nei settori ad alta intensità tecnologica (la c.d. Industria 4.0). Si tratta della reiterazione di interventi inefficaci dal momento che gli investimenti privati non aumentano via sgravi fiscali, come non sono aumentati negli ultimi anni, per la banalissima ragione per la quale se le aspettative sono pessimistiche, anche rilevanti sgravi fiscali si rilevano del tutto efficaci per incentivare la spesa privata. Ovviamente si tratta di misure che vanno bene a Confindustria e, non a caso, salutate con estremo favore dai suoi rappresentanti e dal quotidiano che ne rappresenta gli interessi. In sostanza, la detassazione, nelle condizioni date, ha il solo effetto di far crescere i profitti e/o di tenere in vita imprese altrimenti destinate al fallimento. Se non altro per questa ragione, la Legge di Stabilità mantiene l’impianto redistributivo a vantaggio delle imprese che ha caratterizzato le politiche economiche degli ultimi anni.
2. Risultano anche confermati gli sgravi fiscali per le assunzioni con le nuove tipologie contrattuali istituite dal Jobs Act. Su questo aspetto, dovrebbe essere ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere l’occupazione stabile), il Jobs Act si è rivelato fallimentare2. In sintesi, l’operazione si è risolta in questo. Sono stati accordati sgravi contributivi alle imprese, sulla base del c.d. decreto Poletti del 2014, per un ammontare stimato su fonte INPS di circa 20 miliardi per l’assunzione di lavoratori con contratti a tempo indeterminato (a tutele crescenti). Le imprese hanno risposto inizialmente trasformando i contratti precari in contratti più stabili – o assumendo – per l’ovvio obiettivo di avvalersi delle decontribuzioni, con un picco di riformulazione dei contratti a fine 2015. La riduzione dei fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle imprese, che evidentemente non potevano avere durata infinita, ha generato, come molti si aspettavano, una repentina inversione di tendenza: l’aumento del tasso di disoccupazione e la riformulazione dei contratti nella direzione di tipologie sempre più precarie. In particolare, nei primi sei mesi del 2016, le cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato superano le nuove assunzioni facendo registrare un saldo negativo di 120.253 unità, a fronte di quanto accaduto nello stesso periodo del 2015, in cui i nuovi contratti a tempo indeterminato erano 131.502. Il dato dipende esclusivamente dalla riduzione delle assunzioni, -33% rispetto al 2015; le cessazioni quest’anno non superano quelle del primo semestre dell’anno appena trascorso. In sostanza, il mercato del lavoro italiano è stato “drogato” per un paio d’anni, tornando alla sua condizione ’fisiologica’ una volta esauriti gli incentivi. Un provvedimento, quindi, non solo inutile per la ripresa dell’occupazione ma anche controproducente per lo spreco di denaro pubblico a favore delle imprese. In più, la fine della stagione delle decontribuzioni ha anche contribuito ad accentuare ulteriormente il tasso di precarietà. Si fa qui riferimento, in particolare, all’esplosione del voucher, pensati come remunerazione per lavori accessori (p.e. lavori domestici) e invece oggi sempre più utilizzati nel settore privato e nel settore pubblico per mansioni che nulla hanno di accessorio. Fra gennaio e giugno del 2016 ne sono stati venduti 69.899.824, in aumento del 40% rispetto a un anno fa e del 145% rispetto al 2014.
3. Risulta incentivata la contrattazione di secondo livello, attraverso agevolazioni fiscali per il potenziamento del welfare aziendale e dei premi di produttività. L’obiettivo è legare più strettamente gli andamenti della produttività del lavoro con le dinamiche salariali. La logica che è alla base di queste misure risiede nella convinzione che è efficiente e giusto pagare i lavoratori sulla base del loro contributo alla produzione e, dunque, si presume, in base al loro merito. E’ una condizione di efficienza dal momento che – in questa logica – si ritiene che un mercato del lavoro deregolamentato produca spontaneamente la più efficiente allocazione delle risorse. In tal senso, la disintermediazione del sindacato è una strategia efficace per impostare le relazioni industriali in modo ‘atomistico’, ovvero creando le condizioni per una contrattazione diretta fra singolo lavoratore e singolo datore di lavoro. E’ poi anche, o almeno si ritiene, una condizione di equità distributiva, dal momento che commisurare il salario alla produttività premia/premierebbe il merito.
Sebbene si tratti dell’impostazione teorica e politica dominante, essa si presta a non poche obiezioni teoriche e fattuali, fra le quali.
a) Non disponiamo di nessun criterio di misurazione oggettiva del merito individuale e, conseguentemente, non è affatto scontato che la commisurazione del salario alla produttività garantisca un assetto distributivo meritocratico. Il contributo alla produzione del singolo lavoratore è influenzato da numerose variabili, la gran parte delle quali non attiene alla sua personale bravura, o al suo personale impegno. E’ sufficiente considerare che la principale determinante della produttività del lavoro è l’accumulazione di capitale, la cui entità prescinde del tutto dall’impegno dei lavoratori, essendo il risultato di scelte delle imprese3.
b) L’attuazione di misure che spostino o incentivino la contrattazione aziendale rischia di riportare il mercato del lavoro nel Mezzogiorno a una condizione simile a quella di cinquanta anni fa, epoca nella quale erano vigenti le c.d. gabbie salariali (meccanismi di adeguamento dei salari monetari al tasso di inflazione). Non è uno scenario desiderabile, sia perché è oggettivamente regressivo, sia soprattutto perché se si va in questa direzione è ovvio che, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici e privati, si riduce ulteriormente la domanda aggregata nel Mezzogiorno, ovvero nell’area del Paese che ha maggiormente risentito e maggiormente risente gli effetti della crisi. E la riduzione della domanda, nel Mezzogiorno, non può che accentuare i divari regionali, in un contesto nel quale questi sono in continuo aumento da quasi un decennio, rendendo il Paese sempre più dualistico. L’effetto recessivo sarebbe peraltro accentuato dal fatto che le imprese meridionali sono, in media, di dimensioni notevolmente inferiori a quelle del Centro-Nord e, in molti casi, al loro interno non esistono neppure organizzazioni sindacali che possano contrattare salari e condizioni di lavoro, con la conseguenza che la ulteriore moderazione salariale al Sud configurerebbe una inutile e dannosa politica punitiva per i lavoratori meridionali.
Note
1 Si veda: http://sbilanciamoci.info/legge-bilancio-referendaria-2/. Ci si riferisce, in particolare, alla c.d. rottamazione di Equitalia. Si può osservare, a riguardo, che Equitalia non scompare affatto, ma cambia nome (Agenzia delle Entrate – Riscossione) e, soprattutto, che volendo incidere in modo significativo sulla riscossione delle imposte, sarebbe stato semmai opportuno limitare le regole vessatorie utilizzate, agendo sulle regole d’azione non sulla denominazione.
2 Per una efficace critica di ordine giuridico a questo provvedimento, si rinvia a Giorgio Fontana, La riforma del lavoro, i licenziamenti e la Costituzione, “Costituzionalismo”, dicembre 2016.
3 Sul tema si rinvia a Sebastiano Fadda: http://www.sbilanciamoci.info/content/pdf/1817, Paolo Pini, (2013).What Europe needs to be European, “EconomiaPolitica – Journal of Analytical and Institutional Economics”, vol.30, n.1, pp. 3-11; Leonello Tronti. (2010). The Italian productivity slow-down: The role of the bargaining model, “International Journal of Manpower”, vol.31, n.7.