In quegli anni si è delineata la nostra identità soggettiva e collettiva, è maturata la nostra appartenenza a qualcosa, a qualcuno, si sono conformate le nostre categorie di pensiero; in quel tempo abbiamo costruito le certezze alle quali ci affidiamo e si sono insinuate le incertezze con le quali ci ritroviamo a fare sempre i conti.
In un saggio che s’intitola “Oltre il Novecento”, Marco Revelli sostiene che il Novecento è finito, e tuttavia la sensazione che la sua fine comunica è quella di un falso movimento, di un arresto, o di una inspiegabile difficoltà a procedere. “Come nell’ “Angelo sterminatore” di Buñuel, anche noi stiamo immobili al di qua d’una soglia già cronologicamente infranta, forse ormai fuori con le nostre fiammanti tecnologie e l’effimera mutevolezza delle nostre mode, ma mentalmente prigionieri d’un secolo che ci trattiene con la forza spenta delle sue antitesi non risolte. Con la potenza impalpabile dei suoi fantasmi non placati”.
Il Novecento pretende che si discenda nelle sue profondità per scoprirne le meraviglie e i relitti.
Ma durante la discesa, ad un certo punto ci ritroveremo sempre, inevitabilmente, davanti allo sbarramento di quella frase di Thomas Mann: “Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile?”.
Ad un certo punto, davanti a quello sbarramento, avremo l’istinto di abbandonare la discesa, di risalire alle nostre rassicuranti superfici, di limitarci alle cose che vediamo e che passano, che ascoltiamo e che si disperdono, alle storie lineari, con un incipit ed un explicit che non ci confondono, non ci impensieriscono.
Allora, a quel punto, per non rinunciare al tentativo di comprensione, forse avremo bisogno di una sintesi essenziale. Forse, a quel punto, avremo bisogno della letteratura: di quell’universo di finzione che però rappresenta un catalogo del tempo e delle storie e delle creature di quel tempo.
Avremo bisogno di quella condizione che ci consente la possibilità della riflessione, dell’analisi, del confronto. Certo, il territorio è sterminato. Bisognerebbe fare selezioni, e le selezioni sono sempre arbitrarie. A limitarsi soltanto alla letteratura italiana si potrebbe dire Gozzano e Montale. Per esempio. Si potrebbe dire Buzzati, Svevo, Tozzi, Moravia. Il Calvino della Resistenza. Pirandello, Pratolini, Pavese, Pasolini, Stefano D’Arrigo e Primo Levi. Fenoglio, certo: Fenoglio. Ma sono solo esempi. Nomi fatti a caso. Elsa Morante. Quasimodo. Ungaretti. Giovanni Comisso, Ignazio Silone, Italo Svevo e, indubbiamente, Gabriele D’Annunzio, Piero Jahier. Forse, prima di tutti, verrebbe quella riflessione che un ragazzo di trentuno anni scrisse pochi mesi prima di morire in combattimento sul Pogdora, il 20 di luglio del 1915. Si chiamava Renato Serra, e il libro è l’ “Esame di coscienza di un letterato”. Davvero solo esempi; solo nomi a caso.
Ma la profondità del Novecento è nella letteratura. In quel luogo si manifestano, o si celano, i significati essenziali; allora è in quel luogo che occorre cercare. Poi, anche la letteratura che si è sviluppata in questi primi vent’anni di secolo, dice sostanzialmente, quasi esclusivamente, del Novecento, a dimostrazione che per avventurarsi nella dimensione del presente è indispensabile risolvere prima i problemi con il passato, capire tutto quello che è possibile capire, anche che esistono accadimenti di cui si possono soltanto intuire, ipotizzare, immaginare le ragioni, ma di cui probabilmente non si potrà avere mai una compiuta conoscenza.
Certo, la letteratura esiste per scagliare domande, non per concedere risposte, per insinuare dubbi, scardinare certezze.
Però, forse è con le domande scagliate dalla letteratura, con i dubbi che insinua continuamente, che si può tentare di scendere nel pozzo profondo del passato. Con la consapevolezza che quel pozzo resta insondabile comunque.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 4 ottobre 2020]