di Antonio Errico
Nelle prime righe del prologo delle “Storie di Giacobbe”, Thomas Mann fa esplodere, come una mina, questa affermazione e questa domanda: “Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile?”.
Forse non tutto il passato ha la stessa profondità. Forse il passato può essere più o meno profondo, e la profondità è determinata dai fatti, dalle circostanze, da quello che si è riusciti a comprendere di quei fatti e di quelle circostanze, da quello che resta incompreso, indecifrato.
Forse il Novecento è un passato dalla profondità abissale. Forse perché è ancora troppo poco passato. Forse perché non è ancora finito. Costituisce ancora il riferimento essenziale per molte conoscenze, per molte esperienze. In questo tempo di secolo nuovo, di nuovo millennio, il Novecento si ripresenta, a volte in modo leggero, a volte in modo invadente, nella nostra esistenza, ogni giorno. Perché veniamo tutti da lì, da quegli anni di storie intrecciate, talvolta complicate. Vengono da lì anche quelle creature che adesso hanno vent’anni, che una parvenza di Novecento la incontrano sui libri di storia. Vengono dalla sua scienza, dalla sua tecnica, dalla sua letteratura, dalle passioni, dalle contraddizioni, dai grovigli, dalle sue ambiguità, dai suoi chiaroscuri. Anche quelli che adesso hanno vent’anni vengono dalle bellezze e dalle tragedie del Novecento, dalle lacerazioni, dalle ansie, dalle tensioni, dagli entusiasmi, dalle disperazioni che lo hanno attraversato, da tutto quello che ha promesso e che ha mantenuto, da quello che ha promesso e che ha disatteso, dal progresso di cui ci ha fatto dono e dalle esasperazioni di quel progresso che alle volte ci turbano. Veniamo tutti da lì e ci portiamo dietro, dentro, i significati giganteschi che abbiamo acquisito e la tristezza per tutto quello che non siamo ancora riusciti a capire.