Ed eccoci dinanzi al mare rugginoso della costa neretina, in una trattoria fatta di tufi, calce, salnitro, solitudine e ricordi, anche nobili, come quelli, ad esempio, che custodisce la vicina piazzetta circolare di Santa Maria al Bagno, metà moresca e metà “liberty”, che dà sullo stabilimento ex Malignano, il cuore del piccolo centro balneare. E’ qui, infatti, senza grancassa, senza fanfare e senza sbandierare chissà quali eroismi, che gli abitanti della frazione “neretina” conquistarono la loro medaglia d’oro al valor civile, per solidarietà umana. Il conferimento fu attribuito dall’allora presidente della Repubblica, Ciampi, al rappresentante della collettività, il sindaco di Nardò. E’ qui, in questo piccolo villaggio popolato da pescatori, noto ai salentini soprattutto per le “Quattro colonne”, cioè le rovine di una imponente torre tra le tante volute da Carlo V per il presidio della costa, che trovarono rifugio, ospitalità e assistenza gli ebrei scampati all’olocausto. In questo trampolino ideale proteso sul Mediterraneo e quindi verso la nuova patria d’Israele, la stella di David brillò con vigore, passione e speranza proprio dov’è ora il bar Piccadilly, in cui fu realizzata la Sinagoga e, più in là, nella masseria “Mondonuovo”, il kibbutz. Qui sostarono più di settecento ebrei e, tra loro, c’erano grandi personaggi della storia di Israele come Golda Meyer, David Ben-Gurion e Moshe Dayan, rispettivamente futuri presidente del consiglio e ministro della difesa… Ma ora siamo già a Galatina, la sua città, in Piazza S. Pietro, “dove le rondini si inseguono nel cielo sereno della piazza e garriscono”. Seduto al tavolino del bar, Gianluca pensa che gli piacerebbe scrivere lì, in presa diretta, come un impressionista, le sue osservazioni, ma non può farlo perché la scrittura ha un suo pudore. “Si tratta – scrive Antonio Prete – di una scrittura abitata da una presenza: il silenzio che separa un pensiero dall’altro, cioè una discontinuità e una sospensione in cui si può cogliere il riverbero dei giorni, il trascorrere del tempo.”
Le sistole e diastole della scrittura (“Forse non ci sarebbe scrittura se non ci fossero situazioni costrittive , tali da rendere necessario e irrinunciabile il ricorso alla scrittura medesima come forma di liberazione”- pag.36), mi fanno pensare a una poesia di Wislawa Szymborska, lo scrivere è come il battito del cuore: “Ti ringrazio, cuore mio:/ non ciondoli, ti dai da fare/ senza lusinghe, senza premio,/ per innata diligenza./ Hai settanta meriti al minuto./ Ogni tua sistole/ è come spingere una barca/in mare aperto/ per un viaggio intorno al mondo”. E lo stesso Virgilio aveva scritto in un altro libro: “Non si può decidere di scrivere o non scrivere, ma si può solo respirare, finché abbiamo fiato”.
Ora vado con Gianluca in un posto dove in realtà non sono mai stato, nel campo di Sirgole (Cutrofiano) “luogo dove un tempo c’era il mare. E se chiudo gli occhi, sento il vento che passa tra le foglie degli alberi; come se investisse un paesaggio marino e le folate fossero onde che si sollevano sulla distesa spumeggiante e ricadono su se stesse. Ma è solo paracusia, perché da milioni di anni non c’è più il mare, ritratto da una parte e dall’altra della penisola d una ventina di chilometri”. (pag.50)
A Sirgole c’è un bestiario fantastico che trasforma l’elzevirista Virgilio in un poeta ( pagg.51-56). Si parte dalla descrizione della civetta, che “composta e immobile si staglia su un cielo luminosissimo, residuo di un tramonto primaverile”, a quella del pipistrello, che “svolazza sopra le nostre teste , tra la stanza e il carrubo, attratto dal neon, o, meglio, dalle numerose prede ingannate dalla luce del neon: tafani, farfalline, zanzare, mosche… Ha il volo irregolare della rondine, ma le traiettorie ch’esso segue sono pervase di tenebra”; poi c’è il grillo, che “ama gli spazi aperti della campagna… E’ sua la musica notturna della campagna, il continuum sonoro, senza alti né bassi, il trillo che ti culla e ti solleva da ogni affanno; segue la gazza, che muore subito se la metti in gabbia. Il suo verso gracchia come una trenula (la trozzula per la processione del Venerdì Santo): è irritante e arrogante. Domina la campagna in ogni stagione. E poi l’immancabile cicala che alla fine d’agosto già tace, scoppiata per il lungo disperato cantare. Appesa al muro o su un ramo del gelso, del carrubo o dell’olivo, vedi la vuota crisalide… C’è infine il pettirosso “che arriva dall’est per svernare, dalle foreste della Russia e dell’Ucraina… Ci tiene a farsi vedere: ostenta la sua pettina e canta…quando è sul carrubo quante cose racconta d’oltremare!” E “nei pomeriggi della tarda primavera e dell’estate, al calar del sole, arriva roteando la rondine dove l’ultima pastura del giorno le è ammannita dal contadino che innaffia gli alberi e solleva da terra ignari insetti.“
Sto vicino a lui anche nel corso di una passeggiata scolastica in cui spiega a una studentessa un po’ claustrofobica e annoiata che cos’è l’essenza del barocco. “E’ horror vacui… Qui tutto è Barocco, non abbiamo avuto né Rinascimento, né Arcadia, né Illuminismo né altro. Il Barocco è tutto, ubiquo e onnipresente, ha ingoiato e digerito ogni altro stile. In realtà quello che noi vediamo è il risultato di innumerevoli interventi di restauro. Nulla è rimasto com’era. Perciò sarebbe più corretto parlare di Neo-barocco” ( pag. 113)
In nessun caso, Gianluca può dimenticare la sua vocazione (non dico missione, perché sa di vecchia e abusata retorica, ma nel suo caso forse non lo sarebbe), che è quella dell’insegnamento, e nel finale lo vuole ribadire con la paideia, termine greco, il cui significato originario equivaleva a ‘educazione’ e che assunse poi il valore di ‘formazione umana’ per arrivare infine a indicare il contenuto di detta formazione, la cultura nel senso più elevato e personale, quel “sovrappiù “, diceva Tagore, su cui è fondata la nostra civiltà, ma Virgilio, pur considerando la paideia un argine a cui non si deve rinunciare per non far ritorno alla barbarie, vuole ribadire con forza di non farci troppe illusioni . “La moderna civilizzazione non sa che farsene di una paideia che ponga limiti al dominio dell’uomo o ne denunci la hybris. Essa segue la sua natura cannibalica che ci condurrà inevitabilmente verso l’autoannientamento. I segni – vere e proprie indicazioni di possibilità reali – ci sono già tutti…“.
Siamo all’uscita di questo tempio radiale degli appuntamenti onirici con la memoria. Ci troviamo in mezzo ad una lingua rocciosa e puntuta di scogli che sta proprio al traverso dell’Isola di Sant’Andrea, a poche centinaia di metri di punta dell’Aspide, il serpentello caro a Cleopatra, che separa le due località balneari neretine, Santa Maria al Bagno e Santa Caterina . Sembrano tornare i monaci basiliani , con le loro grandi icone bizantine , le tavole di legno dipinte e istoriate d’oro, le teste circolari, gli sguardi azzurri, le barbe profumate di incenso, le labbra pallidissime, le preghiere e le danze. “Noi – disse Louis-Ferdinand Celine – non cambiamo mai! Né calzini, né padrone, né opinioni, oppure cambiamo troppo tardi, quando non ne vale più la pena”. Celine, emblema del genio, ma soprattutto dell’uomo, infinita possibilità di bene e di male, come diceva Kierkegaard. Ma ecco che passa una nave, dall’isola di Sant’Andrea dirige nel porto di Gallipoli, la seguiamo con lo sguardo. Il tempo di uno sbadiglio, nell’umidore grigio di fine settembre, e la nave è subito nei pressi del Molo Foraneo. Incredibile a quale velocità si viaggia oggi! In altri tempo Scigliuzzo (mitico ormeggiatore gallipolino) avrebbe fatto in tempo a prendere la granita di limone e il caffè, e magari anche a fare una mezza pennichella prima che la nave attraccasse… “Ma sai, questo è il tempo del realismo non più magico”, ammicca Gianluca. E qui chiudiamo la partita.
Un abbraccio, caro Gianluca. E a rivederci presto, spero.
Roma, 27 settembre 2020