di Gianluca Virgilio
Era una ragazzina di dodici anni, dieci ne aveva mia sorella e io otto. Era venuta da molto lontano ed abitava proprio di fronte a casa nostra, a Galatina, in un appartamento al primo piano, mentre noi eravamo su un piano rialzato, dall’altra parte della strada. Affacciandosi al balcone, Laura ci lanciava degli aeroplani di carta con su scritto non so più quali parole. Nei suoi si avvertiva la cura dell’aerodinamica, tant’è che essi arrivavano fino al nostro balcone, spinti da qualche corrente aerea, mentre i nostri non superavano mai la strada che ci divideva e cadevano giù, planando vicino ai passanti, per finire sotto le ruote di un’automobile in corsa. Il dislivello tra le due case era loro fatale.
Un giorno Laura venne giù dal suo balcone e cenò con noi. Allora scoprii che si trattava di una fanciullina loquace, che parlava modulando le parole con un tono che non avevo mai sentito prima e che mio padre certificò essere milanese puro. A tavola Laura disse che già sapeva bere il vino e mia madre le versò un goccino, e lei lo centellinò, disse mio padre, come fanno i veri milanesi.
Così cominciò la nostra amicizia, quarant’anni fa.
Oggi Laura mi ha dato da leggere le sue poesie e io ne sono contento, come quando le sue parole ci arrivavano a bordo di un aereo di carta o le sentivo modulate in quello strano modo meneghino di tanto tempo fa.
Che cosa è successo nel frattempo?
La parola scritta è fatta per gli occhi più che per l’orecchio, bisogna leggerla nel chiuso della propria stanza, in silenzio, mentre tutt’intorno la vita corre nelle occupazioni quotidiane, che ci lasciano sempre troppo poco tempo… Quel che va perduto è la phonè, la particolare intonazione di chi la pensò, la scrisse, e forse anche la recitò a voce alta a se stesso, per meglio apprenderne il suono.