Questa felicità del riprincipiare, del reimmergersi nella realtà, c’entra poco con la scuola in quanto istituzione regolata da organigrammi, orari, curricoli; c’entra poco persino con la didattica e le metodologie, quelle istituzioni immateriali dentro cui precipitiamo il sapere per adeguarlo alle esigenze dell’apprendimento formale. Più che un sapere su ciò che la scuola è o deve o dovrebbe essere, è un’esperienza irrefutabile. Non vorrei nemmeno fare l’elogio dell’ineffabile. In verità sto parlando di una quotidianità, di qualcosa che accade per il semplice fatto di alzarsi dal letto tutte le mattine e di dirigersi verso quello spazio predisposto a questo accadere.
So bene che la scuola è un’istituzione storica e che potrebbe diventare decrepita ed essere superata da contesti e pratiche di apprendimento più giovani e competitivi: le università medievali, che pure avevano fatto concorrenza ai monasteri come centri di cultura, si irrigidirono in un sapere scolastico che le accademie rinascimentali e scientifiche ridussero a relitto storico.
So altrettanto bene che l’apprendimento è un fenomeno vastissimo, connaturato alla vita, che avviene ben oltre i recinti della scuola: quello informale e non formale oggi è onnipresente e gli stessi saperi scolastici potrebbero essere efficacemente digitalizzati, trasmessi via internet, distillati senza vincoli spaziali dalle piattaforme online. L’esperienza dell’entrare in classe – che è mia ma non è un’esperienza solipsistica, perché si dà soltanto per la presenza materiale degli studenti e quella immateriale delle materie che insegno – non ha a che fare né con la scuola, né con la didattica, in fondo. Se, nonostante la fatica e il caotico proliferare di discorsi pronunciati per il bene (e per il male) della scuola, continuo ad aver voglia di fare questo mestiere, è perché al fondo di tutto c’è questo: io entro in classe.
[“Zibaldoni e altre meraviglie” del 3 ottobre 2020]