Tra presente e futuro l’appartenenza al Salento

A questo apparteniamo; questo ci appartiene. Non importa se consapevolmente o inconsapevolmente. Ci appartiene. Apparteniamo. Semplicemente. Anche se il tempo e gli accadimenti e le forme del progresso hanno mutato la fisionomia di questa terra, a tutto questo apparteniamo e tutto questo ci appartiene.

Per esempio. Ci appartiene la sapienza di Antonio De Ferraris  detto Galateo, la sua stupefatta razionalità, la levità fantasiosa di Giuseppe Desa, il Frate Asino, il Santo dei voli; apparteniamo agli affreschi desolati delle cripte bizantine, alle edicole votive che si manifestano improvvise dentro i vichi dei centri storici, ai crocicchi delle strade di campagna, ai volti dei vecchi sul limitare delle case, a tutte le razze che sono passate da queste contrade. Ci appartengono i volti atterriti dei contadini quando la grandine devastava i vigneti. Siamo dentro i vagoni gonfi di valigie di cartone legate con lo spago che andavano verso Nord.

Qualche volta non ci facciamo neanche caso, eppure apparteniamo alla vertigine di  certi campanili di Grecìa, agli enigmi dei menhir svettanti e solitari; ci appartengono  i canti dei carrettieri che ritornavano dalle cave, quelli delle donne che si alzavano dai campi di tabacco. Anche se abbiamo dimenticato, perché il tempo porta anche  dimenticanza, ci appartiene la leggenda di Enea che sbarca da queste parti. 

Ci appartiene il sibilo lungo. Ecco cos’è il sibilo lungo: lo raccontò una volta Antonio Verri.

Scrisse: “Cambia, cambierà, di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti; ecco, quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento”.

Trentacinque anni fa, Verri aveva visto lontano; aveva capito molto, quasi tutto, forse tutto. In trentacinque anni è cambiato molto, quasi tutto, forse tutto.

Però forse resta il dialogo con la terra, che si realizza attraverso l’attribuzione  di significati sempre nuovi al suo lessico essenziale.

Quel sibilo lungo della terra, quel grosso respiro che per Antonio Verri rappresenta l’espansione di un fiat originario, di un’eco di vibrazione ancestrale,  si ripropone continuamente come una irrinunciabile condizione di senso, il lievito di un’idea, come un sentimento del tempo in una dimensione di  continuità e di coesione.  Forse rinnova e rinvigorisce il vincolo che stringe l’uomo alla sua terra e che in qualche modo ne determina la visione del mondo e dell’esistenza, che in qualche modo ne conforma l’esperienza di essere qui, ora, così, in un equilibrio tra presente e passato, storia e memoria, concretezza e figurazione immaginaria.     

Apparteniamo a questa terra, dunque. All’immagine del delfino che ha in bocca la mezzaluna, al morso della tarantola, all’assedio dei turchi. Ci appartiene questa terra liminare, confinante con il mare, confusa con il mare. Ci appartiene un pensiero che “depensa”, come diceva Carmelo Bene, che si spensiera  fino a sublimarsi, per poi ricongiungersi alla concretezza delle storie, alla realtà di ogni giorno che sorge  e che tramonta. 

Questa terra ci appartiene. A questa apparteniamo. A questa terra rassomiglia il nostro volto, come nel racconto di Borges.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 27 settembre 2020]

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *