di Rosario Coluccia
In un articolo del «Messaggero» leggo: «No al politically correct. Lettera di 150 intellettuali». L’anglo-americano “politically correct” ha generato nell’italiano, per calco-traduzione, la locuzione aggettivale “politicamente corretto” che definisce un atteggiamento di rispetto nei riguardi delle minoranze e dei gruppi socialmente deboli (ad esempio: «Salvatore parla in modo politicamente corretto, non usa mai termini offensivi nei confronti degli omosessuali»); può essere anche sostantivo (ad esempio: «il politicamente corretto è il movimento, nato negli Stati Uniti d’America, che rivendica il rispetto delle minoranze e una maggiore giustizia sociale anche attraverso la lingua»). Le due espressioni, italiana e inglese coesistono nella nostra lingua, il forestierismo non ha soppiantato la più recente locuzione italiana.
Rientrano nell’uso politicamente corretto del linguaggio atteggiamenti che portano a evitare forme che, anche al di là delle intenzioni esplicite, potrebbero evocare discriminazione nei confronti di minoranze etniche, religiose o sessuali (come “negro”, “giudeo”, “invertito”) o di persone con svantaggio fisico (ad esempio “handicappato”, “cieco”, “nano”, “grasso”) o di professioni considerate ai livelli bassi della scala sociale (“spazzino”, “becchino”, “bidello”). In tutti questi casi, in varie forme e con soluzioni variabili, si possono usare espressioni che appaiono più neutre e non connotate in senso negativo. Se consideriamo le cose in questa prospettiva, alla lista precedente potremmo sostituire “nero”, “israelita”, “omosessuale”, “diversamente abile”, “non vedente”, “di bassa statura”, “sovrappeso”, “netturbino”, “necroforo”, “ausiliario”. La scelta è molto ampia, la lingua permette oscillazioni verso l’alto e verso il basso, a volte le parole si distribuiscono anche geograficamente. In luogo dell’asettico “omosessuale” in Toscana si dice “finocchio”, a Roma “frocio” (spesso pronunziato “froscio”), in Lombardia “culattone”. A volte i parlanti non attribuiscono a tali parole una valenza offensiva: «Non sapevo […] di commettere o esercitare turpiloquio usando il termine frocio per dire omosessuale. Noti che il termine è romano e che ne ho sempre ignorato la grafia, dal momento che si pronuncia froscio […] Usare frocio mi è sembrato più arguto e giocoso che non omosessuale. Più allegra espressione, per sottintendere anche il nostro divertimento, avrei potuto trovare nel lombardo: ma allora chissà Lei come si sarebbe offeso!» (così scriveva Giorgio Bocca, del quale in questi giorni ricorre il centenario della nascita, facendo allusione in fine al lombardo culattone, nella risposta a un lettore nel 1989, richiamata in un lavoro di Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi, dell’università di Roma 3, che ne hanno trattato in un congresso della Associazione per la Storia della Lingua Italiana ASLI).