Talvolta pioveva per intere settimane. Io me li ricordo i contadini, i giornatieri, i carrettieri che guardavano il cielo, con la cerata sulle spalle, fermi sulla soglia delle case, delle rimesse, delle stalle. Però dicevano che ci vuole l’acqua e ci vuole il sole, il caldo e il freddo, dicevano che ci vuole il tempo giusto per ogni stagione. Avevano quella saggezza che impedisce la lamentazione. Le creature modulavano i loro ritmi su quello delle stagioni, perché sapevano di essere parte di queste, parte del tempo.
A scuola si imparavano a memoria i versi che quell’onesto poeta di Cesenatico che fu Marino Moretti scriveva col lapis: “Il cielo ride un suo riso turchino/benché senta l’ inverno ormai vicino./ Il bosco scherza con le foglie gialle/ benché l’inverno senta ormai alle spalle./ Ciancia il ruscel col rispecchiato cielo,/ benché senta nell’ onda il primo gelo./ È sorto a piè di un pioppo ossuto e lungo/ un fiore strano, un fiore ad ombrello, un fungo”. Non riuscivamo a comprendere il senso del riso turchino; non sapevamo che cosa fosse un ruscello; non sapevamo che cosa fosse un pioppo. Sapevamo cosa fosse un fico, un ficodindia, un pesco, un mandorlo, un melograno. Però quei versi di Marino Moretti ci sono rimasti, dentro, nella memoria. Insieme agli autunni che abbiamo vissuto dopo. Come quello di Vincenzo Cardarelli.
Come quello di Nazim Hikmet che diceva “ veder cadere le foglie mi lacera dentro/ soprattutto se il cuore, quel giorno, / non mi fa male”.
Come quello di Vittorio Bodini che comincia così “Autunno, pescatore d’aragoste, ex pirata,/la cui stanchezza dà epidermidi umane/alle maniglie dei tram,/guarda con occhi d’anice la pianura industriale/fra i bulloni schiodati e i ceri del primo amore.”
Come quello di una canzone di Francesco Guccini che racconta di solitudini e déjà vu, e di futuri che diventano passati, e dei ricordi che prendono il posto dei progetti.
Anzi, abbiamo imparato che l’autunno è anche che una metafora. Come sono una metafora inverno, estate e primavera.
Comincia l’autunno in questi giorni, in queste ore. Un ponte sospeso, oscillante tra le sponde compatte dell’estate e dell’inverno.
Stagione della soglia che separa la memoria dalla speranza, la veglia fino a notte fonda dal sonno a prima sera, il giorno lungo dal giorno breve, la luce che sfolgora fino a tardi dal buio che cala presto, inaspettato, all’improvviso. E’ la stagione di un sentimento dolceamaro, di un’inquietudine soporosa, di una impercettibile vibrazione del silenzio.
E’la stagione dell’ombra che accerchia le creature, si spande densa sulle cose, le avvolge, le nasconde. In estate tutto si rivela fastosamente; in inverno tutte si ritrae nella segretezza dei rifugi; in autunno bisogna cercare nell’ombra, scavare nell’ombra, oppure affidarsi alla percezione, all’intuizione, alla sensazione, alla sorpresa, allo stupore.
E’ la stagione di certa malinconia sottile, di quell’incertezza pacata che s’insinua ogni volta che si lascia un tempo e se ne aspetta un altro, di ogni volta che si ha consapevolezza del luogo da cui si viene ma non si sa nulla di quello verso cui si va.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 20 settembre 2020]