Il libro, una sorta di magnifico panorama della cucina nazionale, raccoglie le mille tradizioni locali della nostra nazione, ricomposte in un mosaico che ne esalta diversità e qualità; ininterrottamente pubblicato da oltre cent’anni, è tradotto in diverse lingue straniere, tra le quali, inglese, francese, portoghese, spagnolo, polacco, russo e perfino giapponese. Ammiratissimo dagli studiosi di storia della gastronomia e dell’alimentazione (Piero Camporesi, Alberto Capatti, Massimo Montanari) e anche da cuochi famosi (Massimo Bottura), quel manuale fortunato dimostra che la cucina italiana (nelle sue manifestazioni intelligenti e non volgari, molto diverse dalle odierne trasmissioni televisive, spesso inguardabili) appartiene a pieno titolo alla cultura nazionale. Tanto famoso è l’autore che dal suo nome si è tratto un aggettivo: «Il secolo artusiano» si intitolava un convegno di studi celebrato nel 2011 per ricordare il centenario della morte del personaggio (atti curata da Giovanna Frosini e Massimo Montanari, stampati dall’Accademia della Crusca). Il processo di far derivare un aggettivo o un sostantivo da un nome proprio ricorre spesso nell’italiano, quando si tratta di personaggi molto conosciuti: «ciceroniano» ‘prolisso, ampolloso’ (estensivamente, con riferimento a Cicerone e alle sue opere), e anche «ciceronianismo» ‘tendenza a imitare lo stile della prosa ciceroniana’; «pilatesco» ‘ispirato a comportamenti vigliacchi o incapaci di responsabilità’ (spregiativamente, con riferimento a Pilato che preferì non intervenire di fronte alla condanna di Cristo), e anche «pilatismo» ‘atteggiamento di chi si interessa di una questione importante evitando di assumersi ogni responsabilità’. A volte il nome proprio diventa un nome comune, così, semplicemente, senza alcun cambio. Ecco un paio di esempi: «cicerone» è una ‘guida a pagamento che illustra ai turisti le caratteristiche di un museo o di un edificio’; «mecenate» è una ‘persona munifica che protegge letterati, artisti, ecc.’ (dal nome del patrizio romano del primo secolo avanti Cristo protettore di poeti e di letterati).
La ricetta n. 339 del libro di Artusi spiega: «Si chiama “àrista” in Toscana la schiena di maiale cotta arrosto o in forno, e si usa mangiarla fredda, essendo assai migliore che calda. Per schiena di maiale s’intende, in questo caso, quel pezzo della lombata che conserva le costole, e che può pesare anche 3 o 4 chilogrammi. Steccatela con aglio, ciocche di ramerino e qualche chiodo di garofano, ma con parsimonia, essendo odori che tornano facilmente a gola, e conditela con sale e pepe. Cuocetela arrosto allo spiede, che è meglio, o mandatela al forno senz’altro, e servitevi dell’unto che butta per rosolar patate o per rifare erbaggi. È un piatto che può far comodo nelle famiglie, perché d’inverno si conserva a lungo. Durante il Concilio del 1430, convocato in Firenze onde appianare alcune differenze tra la Chiesa romana e la greca, fu ai vescovi e al loro seguito imbandita questa pietanza conosciuta allora con altro nome. Trovatala di loro gusto cominciarono a dire: “àrista, àrista!” (buona, buona!), e quella parola greca serve ancora, dopo quattro secoli e mezzo a significare la parte di costato del maiale cucinato in quel modo». E dunque, partendo dalla ricetta, Artusi dà l’etimologia del nome che designa il cibo, che risalirebbe al greco «àristos» ‘migliore’, presente in parole italiane come «aristocratico», «aristocrazia». In realtà la parola «àrista» è nata prima del Concilio del 1430, se (come abbiamo visto all’inizio) è già in un documento del 1287. Ma potremmo anche pensare che l’esclamazione di quei vescovi greci abbia rinforzato una parola già esistente, che da quel momento si diffonde ampiamente nell’italiano (così suggerisce Sebastiano Timpanaro, uno dei più apprezzati filologi classici della seconda metà del Novecento).
Giusta o sbagliata quell’etimologia, Artusi occupa un ruolo importante nella storia della lingua italiana. Lo hanno mostrato gli studi di Patrizia Bertini Malgarini, Lorenzo Coveri, Giovanna Frosini, Silvia Morgana, Cecilia Robustelli, Ugo Vignuzzi. La lingua italiana si è modificata relativamente poco nel tempo, diversamente da quanto accade ad altre lingue europee di cultura. L’italiano si è formato su un impianto letterario trecentesco (Dante, Petrarca e Boccaccio) ed è rimasto abbastanza stabile per secoli. Solo al raggiungimento tardivo dell’unità politica, con l’apporto determinante di vari fattori di integrazione linguistica (scolarizzazione, migrazioni interne ed esterne, urbanesimo, mass media), grazie alla spinta di Manzoni in direzione dell’uso vivo, quel modello arcaizzante ha poco alla volta allargato i propri perimetri e ha acquistato una diffusione crescente, che si è intensificata nell’Italia repubblicana. Alla diffusione di una lingua moderna ha contribuito l’opera di scrittori abituati a scriver chiaro e facile: Collodi («Pinocchio») e De Amicis («Cuore»), letti nella scuola fino agli anni sessanta del Novecento e oggi quasi abbandonati (improvvidamente, a volte a vantaggio di autori di livello inferiore); Salgari, con romanzi conosciuti da un pubblico socialmente vario che attraverso la carta stampata scopriva il piacere dell’avventura (come si ricava dagli studi di Giuseppe Polimeni); e, in maniera capillare, proprio il nostro Artusi, con il suo libro entrato in milioni di case italiane.
«La scienza in cucina…», scritta in una lingua fluida, elegante e armoniosa, divenne familiare a generazioni di italiani e soprattutto di italiane, presenza preziosa e amica spesso presente nelle valigie dei nostri emigranti: esempio di opera dinamica e aperta, condivisa da un pubblico di cultura varia che attivamente partecipa, suggerisce, critica. Quel libro divenne presto un modello di lingua fresca e viva, corretta e scorrevole, in grado di contribuire alla creazione di un italiano parlato di uso comune.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 21 settembre 2020]