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Scuola. Viaggio e pranzo rituali. In viaggio di istruzione di fine corso di studi con i miei studenti maturandi. Io e i miei colleghi, nella sala da ballo dell’albergo, siamo stati invitati a ballare e abbiamo ballato. Alla fine dell’anno, pranzo con gli studenti. Siamo stati inviati a pranzo e abbiamo mangiato insieme. Cose consuete, già vissute altre volte da docente e prim’ancora da studente. Ma stavolta mi sono chiesto il senso di tutto ciò e penso di aver compreso che ballare e pranzare insieme nel contesto scolastico su descritto significhi qualcosa di molto particolare: che ormai i nostri studenti sono diventati maturi (sosterranno l’esame fra un mese), cioè adulti, e quindi si può ballare e pranzare insieme, tra eguali. Condividere un viaggio e un pasto sono la prova rituale dell’avvenuto processo di maturazione degli studenti, che l’esame finale non potrà che confermare (ufficializzare).
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Saper guardare. Ottimo dialogo sul guardare in Fedor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Licia Brustolin, Garzanti, Milano 1990 (I ed. del 1973), p. 67: << “Be’, no, io invece avrei una grande desiderio di vedere” disse Adelaida, “e non capisco perché non andiamo all’estero. Sono già due anni che non riesco a trovare un soggetto per un quadro: L’Oriente e il Sud da un pezzo sono descritti… Principe, trovatemi un soggetto per un quadro.”
“Non m’intendo per nulla di questo argomento. Mi pare che basti guardare e dipingere.”
“Non sono capace di guardare.”
“Ma perché parlate per enigmi? Non capisco nulla!” interruppe la generalessa. “Che vuol dire che non sei capace di guardare? Hai gli occhi, guarda. Se non sei capace di guardare qui, non imparerai certo all’estero. E’ meglio che raccontiate, principe, come guardavate voi”.
“Ecco, sarà meglio” aggiunse Adelaida, “infatti il principe all’estero ha imparato a guardare.”
“Non so; laggiù mi sono soltanto rimesso in salute. Non so se ho imparato a guardare. Del resto, io per quasi tutto il tempo sono stato molto felice.”>>.
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Rotta balcanica. A Sarajevo, pronti per il viaggio di ritorno, apprendiamo che il nostro autista ha scoperto tre giovani migranti nascosti negli interstizi del pullman sotto il portabagagli e ha subito chiamato la polizia. Se non si fosse accorto, li avremmo portati con noi in Italia. Sì, ma in quali condizioni? Temperatura: 3 gradi. Sarebbero morti assiderati durante il tragitto. L’autista ha detto: “Per loro, la vita vale poco o niente”; ed io ho tradotto: “Per noi, la loro vita vale poco o niente”.
Qualche giorno dopo, torna da Sarajevo il pullman che trasporta gli studenti del secondo turno del viaggio di istruzione, si ferma vicino alla scuola e i ragazzi scoprono tra i bagagli un giovane migrante che, a dispetto di tutti i controlli, era riuscito a raggiungere l’Italia. Io e i miei studenti apprendiamo la notizia da un social mentre siamo in classe. Subito un moto di contentezza e direi di esultanza si leva tra i banchi. Il migrante ce l’ha fatta e tutti noi siamo felici che ce l’abbia fatta!
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“Ipocrisia” pascoliana. “Che cos’è l’ipocrisia, se non la concorrenza di due verità, di cui solo una viene espressa?”. Lo scrive Cesare Garboli nella sua edizione di Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte I, Mondadori, Milano 2002, p. 150. A p. 517, leggo le ragioni di questa ipocrisia: “Il Pascoli si proibì la virilità, la cancellò, la rimosse per concedersi la gioia e la smemoratezza di un sentimento felice e incestuoso che la sua coscienza di valentuomo dell’Ottocento non avrebbe mai potuto envisager senza desiderare di annientare non solo la propria maschilità ma se stesso. Senza che nessuno lo volesse, nel villino di via della Zecca scattò un meccanismo affascinante, e i tre orfani furono visitati da un sortilegio. In tre, gli orfani Pascoli potevano essere felici, giocare al ‘nido’, affrontare la vita sulle fragili strutture tenute in piedi dalla lunare fantasia di un poeta che disegnava castelli incantati: la presenza di due sorelle poteva coprire, confondendolo, anche il sentimento ‘inconfondibile’ per una sola delle due.”
Questo è il nido pascoliano che si studia a scuola, l’innocente nido degli orfanelli, vittime di tante sventure? Certamente no. L’”ipocrisia” pascoliana si è trasmessa per contagio alla scuola italiana. E’ forse un caso che molti edifici scolastici d’Italia sono intitolati a Giovanni Pascoli?
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Cannibalismo. Mi chiedo se la diseguaglianza tra gli uomini, risultato dell’istinto innato di sopraffazione, non sia riconducibile ad un atavico ed ancestrale cannibalismo praticato dall’uomo primitivo; e se essa, dunque, non consista in una forma di sublimazione di quella pratica primordiale. Secondo questa ipotesi, l’evoluzione culturale avrebbe insegnato all’uomo a non mangiare il suo simile – che tuttavia può ancora uccidere impunemente in caso di guerra – ma a sottometterlo al fine di sfruttarne le risorse. Sarebbe avvenuto uno slittamento del comportamento umano che da cannibalico si sarebbe trasformato in suprematista: l’uomo non mangia più l’altro uomo, ma mangia le risorse dell’altro uomo e il frutto del lavoro altrui. Come nella domesticazione degli animali e nella selezione e coltivazione delle piante edibili, l’uomo avrebbe imparato ad allevare sé stesso attraverso tecniche di riproduzione sempre più efficaci (in genere tutte le pratiche di disciplina e cura dell’umanità atte a realizzare il fine del crescete e moltiplicatevi), tali da perpetuare la diseguaglianza, ciò la pratica cannibalica consentita dalla civilizzazione.
L’argomento può anche essere considerato anche in questi termini: l’uomo è materia vivente e come ogni altra materia vivente ha bisogno di alimentarsi e nutrirsi. Se il fine dell’uomo in quanto materia vivente è quello di perpetuare la vita, allora la materia vivente utilizzerà ogni altra materia vivente per alimentarsi, senza risparmiare nulla e nessuno. L’uomo non solo non sfugge a questa legge naturale, ma in aggiunta egli è in grado, laddove la materia vivente utile all’alimentazione sia carente, di riprodurre artificiosamente la materia destinata al suo nutrimento. L’uomo usa l’altro uomo a questo fine, sempre in un regime di assoggettamento, che infine lo salva dal destino nichilistico del cannibale: quello di mangiare qualcuno della propria specie.
Si comprende bene ora il motivo dell’orrore che suscita il cannibalismo. Il cannibalismo, praticato in età antica e moderna in situazioni estreme, suscita orrore nell’uomo civilizzato per il fatto che esso si verifica quando non si hanno altre chance di sopravvivenza, se non quella di mangiare il proprio simile; il che vuol dire, che, al di là del cannibalismo, v’è il nulla, cioè la fine dell’uomo. Che cosa mangerà il cannibale una volta mangiato l’ultimo uomo? Il cannibale dunque ci spaventa perché ci mette davanti alla possibile fine dell’uomo, che muore di inedia dopo l’ultimo pasto cannibalico.
Che la materia vivente si cibi di sé stessa è un non-senso che trova riscontro solo nel personaggio dello Zanni di Dario Fo. Ma in generale non è possibile che la materia vivente mangi sé stessa, perché questo equivarrebbe a un suicidio. Per noi il cannibale rimane una figura inaccettabile, da tenere chiuso in gabbia con una museruola come Hannibal Lecter del film Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme; mentre noi accettiamo il potente sfruttatore che mangia il frutto del lavoro altrui, lasciando allo sfruttato solo quel tanto che gli basta per la sua riproduzione e per l’ulteriore produzione della materia vivente di cui il potente si nutre.
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Lo Zanni, il vampiro, lo zombie. La figura tragicomica dello Zanni di Dario Fo incarna l’ultimo degli ultimi, lo sfruttato per antonomasia, colui che, non avendo nulla da mangiare, mangia sé stesso. Il culmine dello sfruttamento dello Zanni, dunque, coincide con una pratica autofagica, d’un cannibalismo rivolto sulla propria persona. A ben guardare, nello Zanni v’è mescolanza (ovvero concentrazione, sovrapposizione e unificazione) delle due figure della dialettica classica: lo schiavo e il padrone, la vittima e il carnefice, lo sfruttato e lo sfruttatore, l’affamato e l’oggetto della fame atto a saziarla. Lo Zanni è dunque la perfetta metafora della materia vivente che, per rimanere vivente ha bisogno di nutrirsi di altra materia vivente, non importa che cosa, nella finzione scenica iperbolica e paradossale, va bene anche sé stessa.
Di figura in figura, eccoci davanti al vampiro, che non mangia la carne dell’uomo, ma ne beve il sangue per conservare ed accrescere le sue forze vitali. Il vampiro è un non-morto, dunque non è vivo e neppure è morto; e siccome in natura tertium non datur, il vampiro è un mostro e fa paura. Se vogliamo, è una versione più raffinata del cannibale, succhia le sue vittime fino a privarle d’ogni forza. Al contrario, lo zombie è un morto vivente che si ciba di carne umana, un autentico cannibale. La paura del cannibalismo ha prodotto questo essere fantastico: materia vivente che per rimanere tale deve cibarsi di altra materia vivente. In realtà è proprio la paura dell’uomo di essere cannibalizzato che produce lo zombie.
Da questo punto di vista, lo Zanni, il vampiro e lo zombie sono figure rappresentative della condizione umana considerata generaliter, metafore della diseguaglianza: l’uomo che cannibalizza l’altro uomo.
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Il metodo inglese. Già in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, ne La commedia umana III, Mondadori, Milano, 2013, pp. 896-897, del 1831, appare chiaro il metodo moderno della circolazione monetaria, il metodo inglese. Afferma Raphael: “Avessi dato retta a Rastignac, avrei potuto arricchirmi adottando senza esitazione il metodo inglese. Voleva assolutamente farmi un’apertura di credito e farmi poi prendere denaro a prestito, asserendo che i prestiti avrebbero garantito il credito. Non c’era, a suo dire, capitale più grosso e più solido al mondo dell’avvenire.”
Il gioco è questo: contraggo un debito che estinguerò prendendo a prestito del denaro. E’ un gioco che può continuare all’infinito, se c’è sempre qualcuno che dà il denaro in prestito (s’intende che costui debba prevedere la restituzione del denaro prestato, con interesse). Non è quanto accade ancor oggi nel mercato finanziario?
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Campagna. Durante un viaggio estivo verso Nord, per sfuggire ad una lunga cosa autostradale, seguendo le indicazioni del Tom Tom, siamo usciti a Faenza e, improvvisamente, ci siamo ritrovati nella campagna romagnola: campi vastissimi piantati a pescheti, meleti, pereti, ecc. piantagioni ordinatissime, con filari lunghissimi come fughe vegetali verso un lontanissimo orizzonte. Abbiamo seguito strade strette, lungo canali privi d’acqua, ma tutti ben puliti, sopra argini alti asfaltati che portavano da una cascina ad un’altra, tra paesino dai nomi sconosciuti e privi d’ogni presenza umana. Baypassata la lunga colonna, siamo rientrati in autostrada, lasciandoci alle spalle la visione di una campagna geometrica e priva di sogni.