2. La lingua di Dante
Qualche anno prima ero andato a trovarlo nella sua casa romana, sita in via Folco Portinari, padre di Beatrice, al numero civico 36 , ovvero 3+6 = 9, che più dantesca di così non si può. Alle mie timide obiezioni sulla difficoltà di leggere Dante oggi, per tutti, ma in specie per una persona comune, alle prese con quel linguaggio tosco-fiorentino del trecento, m’aveva risposto: “Caro amico, le stesse difficoltà l’hanno avute i suoi commentatori più antichi e anche i suoi contemporanei che per orientarsi avevano bisogno di delucidazioni e di un nutrito glossario. La lingua di Dante, come disse Contini, è il suo punto più avanzato, e corrisponde esattamente al senso profondo che il poema racchiude e tramanda: il
livello più basso dell’esistente- il caduco, l’effimero, come era appunto il volgare rispetto al latino – contiene in sé la stessa eterna realtà che abita i luoghi più alti e perfetti dell’universo. Dante ha inventato un linguaggio suo , nessuno ha mai parlato usando sistematicamente il vocabolario o la sintassi che usa Dante nella Commedia… Intendiamoci, questo vale per qualunque poeta, che usa un suo proprio linguaggio sempre diverso dal parlato comune, ma nel caso di Dante ci troviamo alle prese con uno che usa un repertorio lessicale incredibile, che ibrida termini vernacoli con latinismi elaborati sul lessico dei teologi della Sorbona, o un latino dei classici, mescola sciami di gallicismi con moduli scritturali, vocaboli della ultima tecnologia e spericolatissimi neologismi, con una spropositata varietà di verbi che trasmettono alla narrazione e alla sintassi un dinamismo irrefrenabile, per non parlare di altre peculiarità metriche e prosodiche o modulazioni che ci fanno pensare alle geometrie musicali delle sfere celesti e ai congegni di un orologio meccanico, alle architetture della luce e al sorriso furtivo di una dama, alla libertà morale, alle malattie della pelle, ai nomi dell’acqua, al disegno volubile di un volo di uccello contro il crepuscolo, e alla solitudine di Dio … La sua è la lingua della conoscenza e del canto, lingua erudita e popolare insieme, una lingua che dopo settecento anni continua a tentarsi e torcersi, e sperimentarsi sotto i nostri occhi. Non ne siamo venuti ancora a capo . Siamo rimasti più vecchi di lei… Se la lingua di Petrarca continua a costituire un modello irraggiungibile per tutti i poeti, quella di Dante è ancora oggi una sorgente inesauribile di novità…
Vedi, in fondo, ogni poeta scrive in una lingua “straniera”, ogni lettura è una specie di traduzione. E nella Commedia lo è ancora di più. Ma Leopardi diceva che è quello lo stile più forte bello e dilettevole che si possa concepire. Perché ogni parola è un’immagine.
Tu leggi Dante come un tuo contemporaneo, anzi un avanguardista, e non ti preoccupare se incespicherai in parole incomprensibili, sarà occasione per te di esplorare l’immenso bacino linguistico, storico, retorico, metrico, filosofico, teologico, da cui sono estratte queste parole, e i modi del loro incastro. Del resto, come disse Steiner, non si può leggere la Commedia senza lasciarsi leggere da lei. Ma l’io che legge Dante non è l’io mortificato dal consumo quotidiano di luoghi comuni, dall’assillante catechesi del mercato, è l’io interno e segreto che la tua voce conosce meglio di te. Insomma, lo spartito è questo. Praticamente divino. Prova a solfeggiare la musica del senso, e a suonarla, magari con un dito… Questo libro- mondo si candida a essere, per te, e ognuno di noi, un libro-vita.
3. Dante uomo del suo tempo.
Ma scusi, professore, non si è sempre detto che Dante era uomo del suo tempo e che in fondo la sua opera è anche, sotto certi aspetti, una cronaca storica di uomini e fatti spesso misconosciuti (quasi nessuno dei mitici personaggi della Commedia sarebbero entrati nella storia se non fosse stato per Dante) di quell’epoca medievale in cui visse?
“E’ vero. Infatti, noi oggi ci stupiamo all’idea del cilicio, o dei flagellanti, ci indigniamo, rimaniamo inorriditi all’idea delle esecuzioni capitali, con o senza contorno di torture, organizzate o sponsorizzate addirittura dalle stesse Autorità civili e religiose come spettacoli pubblici; ci stupiamo all’idea di un mondo basato su cerimonie liturgiche, un mondo dove i libri si copiavano a mano e dove tante cose si imparavano a memoria; un mondo pieno di gente che viveva in obbedienza, in castità, in clausura… Ma allora, al tempo di Dante, queste cose erano normali, le vedeva tutti i giorni e molte di queste cose le riporta nella Commedia, altre gli vengono raccontate, come la morte dell’eretico Gherardo Segarelli, bruciato vivo sul rogo, a Parma, il 18 luglio 1300 , “uno scurrile turpe stupido contadino, selvaggio come tutti i contadini”, disse il Salimbene. Ecco, quelle stesse parole le avrebbe potute dire il “cittadino” Dante che detestava profondamente i contadini. Allora si viveva di classi sociali, di profonde divisioni, disprezzi e rancori. E Dante non ne era affatto esente, anzi, proprio per questo (essendo un guelfo di parte bianca, sconfitto dai neri) vivrà esule per oltre vent’anni, fino alla morte, in dolorosa povertà, quasi da mendicante, lamentandosene rabbiosamente nel Convivio. Era figlio del suo tempo e aveva un carattere per nulla conciliante, o cordiale. Anzi, aveva spesso travasi di bile per futili motivi che gli facevano perdere il lume della ragione (ad esempio se la prese con quelli che disprezzavano il volgare, lingua in cui lui aveva deciso di scrivere, tacciandoli di essere bestie vili e dannosissime). Ecco, Dante è anche questo, spigoloso, collerico , violento, eccessivo. Ma sa essere anche dolce e pietoso. E la Commedia è una specie di summa tonale delle sue esperienze umane e letterarie, dalla eleganza elusiva delle rime di Stilnovo, alla sofisticata spigolosità delle “Petrose”, al virtuosismo osceno del “Fiore”, alle contese comiche e violente con Cecco Angiolieri e Forese Donati . Dante è quello che fa dire, non ai diavoli dell’inferno, ma a San Pietro, nel Paradiso, parole come “cloaca del sangue e de la puzza”. Tutto ciò non va dimenticato, come non va dimenticato che nei primi anni di esilio la sua mente è ossessivamente dominata da pensieri religiosi, filosofici e politici, i cieli e la nobiltà, l’immortalità dell’anima e la giustificazione dell’autorità, la celebrazione dell’Impero e il biasimo delle ricchezze… E’ ossessionato dall’idea di fare qualcosa di grandioso, di duraturo, di eterno. Vuole scrivere di tutto lo scibile umano, parlare delle radici della nostra cultura – della filosofia, dell’etica, della politica, della teologia, del papato e dell’ impero, della lingua , – valori su cui si reggeva ( e tuttora si regge, anche se sotto altri nomi) l’umana convivenza… Dante vuole dimostrare la sua grandezza, il suo genio, vuole lasciare profonda traccia di sé.
Ma sono così tante le cose da spiegare al lettore che ci vorrebbe un enciclopedia. Progetta così il Convivio in quindici volumi, ma al termine del IV° capitolo (che gli viene il doppio del terzo per lunghezza) capisce che non ce la farà mai. Allora decide di scrivere un altro libro, per dire quelle cose, e altre cose ancora, in modo diverso, con un linguaggio diverso, unico, capace di parlare, più di ogni altra lingua, al cuore dell’uomo. Ed ecco che nasce l’idea del “poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra”. Un poema epico che non ha per soggetto il mito o la leggenda, né per protagonisti gli eroi, ma narra di eventi di tutti i giorni, con personaggi in genere ignoti o oscuri, personaggi per di più, in buona parte conoscenti, o amici , o perfino parenti dell’autore. Ma ognuno di loro, anche nella sua oscurità, ha in sé una dignità assoluta, quella dignità che è propria dell’individuo, della persona umana, in quanto fatta a immagine e somiglianza di Dio. Siamo in Valpadana, ed è la fine del 1304, Dante è avviato verso il 40° anno. Forse solo due o tre anni dopo porrà mano alla scrittura del poema, ma intanto lo elabora nella propria mente prodigiosa.
4. Dante all’Anmi di Gallipoli.
Con il professore, diversi anni prima (1988) avevamo fatto una cosa strana, oserei dire unica, in quell’ambito, ovvero portato Dante all’Anmi di Gallipoli, grazie alla mediazione del suo grande amico, Avv. Felice Leopizzi. Era stata una serata estiva davvero memorabile, coi vecchi marinai a bocca aperta ad ascoltare la “lectio Dantis” del grande Aldo Vallone, che aveva attualizzato il nostro più grande poeta, ne aveva
proclamato la modernità di pensiero e di vedute, nonostante fosse un uomo del suo tempo, perché Dante – disse – aveva una mente semplicemente divina, e non perché la sua fosse una originalità di pensiero, ma piuttosto per la sua eccezionale capacità di capire l’uomo in tutte le sue amarezze, e in tutte le sue esaltazioni, capire l’uomo nello squallore della sua solitudine terrena che può essere illuminata solo dall’Alto. “Egli individua e chiarisce, armonizza i battiti eterni del cuore dell’uomo, il passionale, lo speculativo, il morale, fa nascere la coscienza estetica , ovvero il senso profondo dell’arte, con tutte le sue sottili difficoltà e i suoi tormenti, toccando tutti i tasti e i registri possibili del canto umano, attraverso i delicati tremori della nostalgia e della speranza, dalle rarefatte altezze del Paradiso, alle drammatiche profondità dell’Inferno. Egli è anche il poeta del nostro tempo, che racconta
all’uomo insicuro il suo destino eterno, è da uomo immerso nella storia che della storia si fa carico, e della storia conosce tutti i dolori, e dell’uomo conosce – e ne è partecipe – la miseria e la grandezza. In questo poema ogni gesto dell’uomo è prezioso, ogni sua parola è contata. Tutta la realtà è guardata da Dante con appassionata cura e amore in ogni sua sfumatura”. E’ vero, conferma Jorge Luis Borges: Non v’è cosa sulla terra che non sia compresa nella sua opera. Ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, la storia del passato e quella del futuro, le cose che ho avuto e quelle che avrò, tutto ciò che ci aspetta in qualche punto di quel labirinto sereno… un’opera magica, una miniatura che sia un microcosmo. Il poema di Dante è quella miniatura d’ambito universale… Ma se potessimo leggerlo in assoluta innocenza , l’universalità non sarebbe la prima cosa che noteremmo, e neppure la sublimità e la grandiosità… la prima cosa che noteremmo credo che sia la varia e felice invenzione di particolari precisi; se l’uomo e un serpente si abbracciano non basta dire che l’uomo si trasforma in serpente e il serpente in uomo; ma questa mutua metamorfosi è il fuoco che divora la carta, preceduta da un alone bruno in cui muore il bianco che ancora non è nero; nel settimo cerchio i dannati socchiudono gli occhi per guardarlo, e sono come uomini che si guardano sotto una luna incerta, o un vecchio sarto che infila l’ago; per Gongora e Petrarca ogni capello femminile è d’oro e ogni acqua è cristallo, per Dante no, ogni parola ha una sua giustificazione. Sembra quasi paradossale che Dante, narratore dell’oltremondo, sia in realtà uno dei più acuti descrittori di questo mondo
5. Il vero genio
Dante appartiene – diceva il mio collega Mattalia – al multanime patrimonio della letteratura universale, alla weltliteratur dei tedeschi, cioè alla massima, alla classica, alla assoluta letteratura dei geni, che s’imprimono in noi come sigilli di potenza creativa, originalità, fecondità, lucido e avvampante dominio del tumulto ispirativi, di potere rasserenante, o capace di sommuovere tempestose sollecitazioni, una forza creatrice di tipo cosmogonico capace di generare dalla propria sostanza qualcosa che nell’ordine della grandezza e della originalità non ha altra misura che se stessa. Il vero genio non opera mai in un suo vuoto solipsistico, ma a raggio più o meno ampio, nel processo stesso del suo creare, recepisce gli elementi del reale, passato o contemporaneo, utilizzandoli secondo la ragione o la necessità e il fine della creazione. Il genio è rappresentativo, il genio è sempre universale, il genio opera con la misteriosa potenza e fecondità di una forza cosmica, si dica Michelangelo, Galileo, Mozart, Beethoven, Verdi, Rossini, Wagner, Goethe, Tolstoj, Shakespeare, ecc. E Dante fu un grande genio, un Omero del medio evo, secondo Vico, il padre per antonomasia della lingua e della letteratura italiana. E il primo autorevole sacerdote del culto dantesco fu un altro genio della letteratura, parliamo di Giovanni Boccaccio, e da allora in poi gli studi danteschi sono diventati per numero e mole un qualcosa di oceanico.
Il solo prof. Vallone aveva nella sua biblioteca di Galatina, sua città natia, qualcosa come trentamila volumi su Dante scritti in tutte le lingue possibili. Quella volta che lo andai a trovare mi mostrò il libro con orgoglio: …”Ecco, questa è una traduzione della Commedia in lingua coreana, ma c’è né in tutte le lingue parlate nel mondo. Chiunque si occupi di poesia e di letteratura non può prescindere da Dante. Solo Shakespeare gli può star alla pari, con il vantaggio di una lingua, come l’inglese, che è parlata da mezzomondo. Ma Dante, il terzo dei profeti, dopo Enea, fondatore dell’Impero e Paolo, fondatore della Chiesa, è il profeta della divina Poesia”. E Vallone, in poche battute, ne rifà la storia, dal giovane poeta della “Vita Nova” che intesse in dolcezza estatica di palpiti e poi con religiosa accettazione di un dolore sublimato in culto (la morte di Beatrice) , una sua maliosa favola di amore e morte; al poeta-teologo, nel significato medievale del termine, ovvero di un uomo che ha raggiunto i gradi supremi del sapere del tempo, che allontanatosi progressivamente dal mondo persegue nel fantastico itinerario a Dio un suo ideale di sublimante elevazione etica e intellettuale; e poi l’eretico occulto, il profeta e precursore della riforma nel suo ardito proposito di attivare in Italia una rivoluzione religiosa; il titano esagitato che si divincola con furore nei lacci di una passione amorosa senile; il politico ferocemente passionale cresciuto (dice Foscolo) tra il papale furore e il ghibellino, e da guelfo bianco tramutatosi a ghibellino e indomito assertore dell’autonomia del potere temporale contro le prevaricazioni temporalistiche di una chiesa divenuta fomite di disordine politico e morale. Il politico passionale e sconfitto, orgoglioso, che per un ipotizzato mandato divino, si autoassume, nel poema, il ruolo di vendicativo-giudice-giustiziere; l’eroe-poeta-profeta spiritualmente operante nella prospettiva di una missione eroica e sublime; il poeta-vate depositario dei destini della sua nazione, il nume tutelare, il grande santo della religiosità laica e patriottico-nazionale dell’ottocento. L’uomo ammirato per la sua vastità enciclopedica del cosmo culturale, per la sua potente carica psicologica–temperamentale che lo fa fine, selettivo, eccezionale psicologo di una umanità minore, ma con una sua immanente carica dialettica. L’uomo- Dante, l’esule, il dramma del giusto, latore di un grande messaggio, il perseguitato, ma anche per questo impegnato, per sé e per gli altri, a resistere caparbiamente, in attesa dell’ora di poter dire e fare , e anche di ricambiare quanto ricevuto.
6. L’esilio
E allora conta l’esilio, Professore? Certo che conta. E’ la radice etico-psicologica, l’impennata di un orgoglio profondamente ferito che lo impegna in un ‘opera di recupero del proprio prestigio personale, condotta in uno spirito di rivincita e insieme di rinfaccio nei confronti della patria matrigna e degli “scelleratissimi” concittadini; le vicende dell’esilio permeano sempre più il codice morale di Dante di quel radicalismo moralistico che lo spinge nel poema a congedarsi dal mondo con un gesto di pesante, apocalittica condanna globale. Poche volte ci sono vocaboli di requie, dolcezza, distensione, lieto appagamento, conciliazione, serenità e simili. Predomina la tematica della tensione dell’urto o scontro, della rampogna e della sferzante requisitoria, della rivincita, della reattività aspra, giustiziera, vendicativa, non senza punte malediche in cui rasentiamo vibrazioni di una certa oscurità temperamentale; dell’orgoglio immedicabile e incoercibile e prontissimo allo scatto e della relativa e conseguente scarsa vocazione per il perdono o il generoso oblio.
Dante è anche tutto questo, uno spartito musicale vasto e tempestoso, o sai leggere la musica, o è inutile che tu perda tempo a scrutarlo, tanto vale ricorrere a qualcuno in grado di suonare il pianoforte e ascoltare il suono che fa quella crittografia. Ma se credi ancora nel valore dell’individuo, nella sua storicità, nella sua libertà, nella sua redenzione, tutti valori che il cristianesimo portò con forza di sconvolgimento nell’universo culturale greco-romano, allora leggi (o ri-leggi ) la Divina Commedia senza timore, con lo spirito dei tuoi nonni, che la conoscevano a memoria e la declamavano a voce alta, pur essendo analfabeti; rileggila con quella nudità e semplicità, innocenza del cuore, e la troverai diversa, così nuova e così fortemente insolita, così attuale e reale, così poetica, la più alta voce poetica mai esistita – forse la sola – che esprima in tutta la sua profondità l’idea cristiana dell’uomo.