Seri studi internazionali rivelano che otto cittadini su dieci (non parlo dell’Italia, parlo del mondo) non sanno distinguere una notizia falsa da una vera. Si spiega così il successo straordinario di notizie false. A volte favorite, in verità, da ricercatori che barano (anche se poi spesso vengono scoperti). In rete girano notizie su ricette miracolose per guarire dal virus (abbiamo visto persino Trump o Bolsonaro irresponsabilmente propagandare supposti medicamenti che in realtà sono inefficaci o addirittura nocivi), altre parlano di occulti centri cospiratori che hanno scatenato l’epidemia per impadronirsi del potere mondiale, altre ancora giurano su politici depositari di segreti innominabili che non vogliono divulgare, ecc. Eravamo abituati a falsità come quelle sui coccodrilli che circolano indisturbati nelle fogne di Roma, su alcune piante di ficus che regalano all’uomo terribili malattie, sulla collaboratrice dell’Accademia della Crusca che, pagata e corrotta, stabilisce quali nuove parole possono entrare nei dizionari, ecc. Ma quelle di questi mesi sono falsità ancor più pericolose, possono generare effetti devastanti nella comunità.
Accanto alla diffusione di notizie infondate, cresce un modo di comunicare che definirei il metodo dell’intolleranza sistematica e dell’intimidazione. L’aggressività verbale ha lo scopo di intimidire chi la pensa diversamente, non con argomenti razionali ma con strumenti linguistici mediante i quali chi parla colpisce, batte e sconfigge il destinatario, trattato alla stregua di un nemico a cui si vuol fare del male. Qualcuno potrebbe obiettare che, in fin dei conti, l’attacco verbale è meno virulento di quello fisico, meglio scagliare una parola che sparare un colpo di pistola. In proposito, Freud ha osservato che, nella notte dei tempi, colui che per primo lanciò contro l’avversario una parola o una frase invece che una freccia fu il fondatore della civiltà, preferì il linguaggio (sia pure aggressivo) alla violenza fisica. Può darsi. Ma il risultato è, in entrambi i casi, il medesimo: il contendente ne risulta annichilito.
Se l’intimidazione ha successo, si innesca un meccanismo sottile e devastante. La persona intimidita si sente schiacciata di fronte a un’opinione diversa, presentata come indiscutibilmente vincente; di conseguenza rinunzia a esprimere il proprio parere. Perde la libertà di parola. Se in un qualsiasi contesto, ambiente o luogo di lavoro un individuo non si sente libero di esprimere le proprie idee l’intollerante ha raggiunto il proprio obiettivo. L’intimidito tace o parla d’altro: perché rischiare ostracismo e censura, perché mettere a rischio la propria reputazione e, di conseguenza, la propria serenità? Meglio tacere, come una delle tre scimmiette, quelle che (secondo un’interpretazione banale non corrispondente, pare, a quella originaria) per cautela estrema non vedono, non sentono e non parlano, disinteressate a tutto.
Dalle falsità all’odio il passo è breve. I media tradizionali (giornali, radio e televisioni), usati in modo distorto (non penso ai professionisti seri, che sono la maggioranza), possono veicolare contenuti negativi. Ma è attraverso la rete che, in misura massiccia e straordinariamente efficace, l’odio si diffonde e viene condiviso. Internet e i siti di relazione sociale traboccano di espressioni di odio: l’odio in rete si rivolge contro singoli, specialmente se personaggi noti, o contro intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone che hanno un colore di pelle diverso dal nostro, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, anziani, ecc.). Messaggi di odio incentivati dall’anonimato, dai commenti di rinforzo, dalle difficoltà di rimozione e di censura. «Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole» (ha scritto Tullio De Mauro). L’uso spregiudicato delle parole per colpire aprioristicamente singoli o specifiche categorie di persone (riconducendo gli uni e le altre entro i recinti di un’appartenenza giudicata negativa) prende sempre più piede nella società digitale.
Anni fa Maurizio Crozza ha inventato il personaggio Napalm 51, odiatore seriale che attacca indistintamente individui e gruppi, senza motivazioni e senza argomentazioni. Abbiamo sorriso (e anche riflettuto, me lo auguro) alle esibizioni di Crozza. Ci fa riflettere moltissimo «The Hater»‘L’odiatore’, recente film polacco che racconta di uno studente espulso dall’università di Varsavia che, trovato lavoro in una società di pubbliche relazioni, conquista la fiducia della direttrice scatenando campagne d’odio e di diffamazione contro i concorrenti dei suoi clienti e diffondendo voci e notizie false sui social.
Intolleranti e odiatori non vogliono discutere, vogliono avere ragione. Come difendersi da questi modi che inquinano la nostra società? Esiste una sola via, non cedere alla tendenza dominante, che impone di aderire all’opinione urlata o di tacere. Non rinunciamo a esporre con calma e con tenacia le nostre idee (anche controcorrente), usiamo la lingua in modo convincente, fidando nella razionalità e non nell’urlo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 13 Settembre 2020]