Saggi di critica della politica economica – Anno 2014

1) Su fonte Banca d’Italia, si registra che il tasso di variazione dei crediti concessi dalle banche italiane è passato dal 2.7% nel 2010 al – 2.5 di fine 2012. Si osservi che il biennio considerato è quello nel quale è stata data la massima accelerazione alle politiche di austerità. Come ampiamente documentato (http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-ebook-gratuito-per-capire-la-crisi/), la riduzione della spesa pubblica e soprattutto l’aumento della pressione fiscale hanno generato, oltre all’aumento del rapporto debito pubblico/PIL, un massiccio incremento del tasso di disoccupazione, la riduzione del tasso di crescita e un significativo calo dei consumi. La conseguente restrizione della domanda interna ha ridotto i margini di profitto delle molte imprese italiane che operano su mercati locali (ovvero della gran parte delle imprese italiane), fino a determinare ondate di fallimenti. E, a seguire, la riduzione dei profitti ha eroso il capitale proprio e, dunque, le garanzie che le imprese possono offrire alle banche e, al tempo stesso, ha peggiorato le aspettative in ordine alla solvibilità delle imprese. In tal senso, la restrizione del credito è da leggersi come risposta ‘razionale’ delle banche a fronte dell’aumento della probabilità di fallimento dei potenziali debitori, ed è dunque sostanzialmente indipendente dalla quantità di moneta nei portafogli delle banche.

2) Al tempo stesso, le banche hanno trovato più conveniente ottenere profitti attraverso attività speculative nei mercati finanziari e attraverso l’acquisito di titoli del debito pubblico. Si è così generato un meccanismo perverso che si snoda attraverso questi passaggi. Aumenta la tassazione su imprese e famiglie. Ciò consente di liberare risorse anche per la detassazione delle banche, che utilizzano le risorse aggiuntive ricevute per l’acquisto di titoli del debito pubblico, mentre l’aumento della tassazione (su imprese e famiglie) riduce i profitti netti delle imprese (sia per la maggiore tassazione degli utili d’impresa, sia per la riduzione dei redditi disponibili e, dunque, dei consumi) e disincentiva l’offerta di credito, con effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti, dell’occupazione e dei salari. Posta la questione in estrema sintesi, si può affermare che il Governo (e la BCE) finanzia le banche e le banche finanziano lo Stato. Si tratta di un meccanismo perverso dal momento che, diversamente dalla vulgata governativa, i reiterati provvedimenti di “ricapitalizzazione” delle banche non hanno generato aumenti dell’offerta di credito e dunque aumenti degli investimenti e dell’occupazione, ma si sono tradotti, con intensità crescente, in una partita di giro che è servita, al momento, esclusivamente a mettere lo Stato italiano nella condizione di riuscire a vendere titoli del debito pubblico, e alle banche di realizzare profitti con la minima assunzione di rischi (essendo più rischioso il finanziamento degli investimenti rispetto all’acquisto di titoli di Stato).

La recente riduzione dello spread è stata imputata, da molti commentatori, a un presunto recupero di fiducia degli investitori rispetto alla tenuta dell’Unione Monetaria Europea. E’ una tesi molto opinabile e comunque non dimostrabile. Per contro, sembra più ragionevole rilevare che la riduzione del differenziale fra rendimento dei titoli italiani e dei titoli tedeschi è semmai prevalentemente imputabile all’aumento dei rendimenti di questi ultimi (e, in tal senso, è un fatto aritmetico, che non attiene al buon operato di questo Governo) – e all’aumento della domanda da parte delle banche di titoli di Stato italiani; del tutto indipendentemente – occorre sottolineare – dall’andamento dei “fondamentali” della nostra economia (tasso di disoccupazione, tasso di crescita). Si tratta anche di un meccanismo potenzialmente rischioso dal momento che fa sì che i bilanci bancari dipendano sempre più dall’andamento delle quotazioni dei titoli di Stato, la cui volatilità costituisce un rilevante fattore di rischio per le banche stesse.

In questo scenario, sono operanti due effetti. Il settore bancario acquisisce sempre più potere, sia nei confronti delle imprese, sia anche nei confronti del Governo e, come corollario, la politica fiscale finisce per risolversi in una massiccia operazione di redistribuzione del reddito a danno del lavoro e a vantaggio della rendita finanziaria.

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Job Acts: tanto rumore per nulla?

[“in “MicroMega” online del 15 gennaio 2014]

Rapidamente balzata ai primi posti dell’agenda della politica economica italiana, la recente proposta formulata da Matteo Renzi di un’ulteriore riforma del mercato del lavoro, denominata Job Acts, è una proposta sostanzialmente vuota, e comunque niente affatto innovativa (per quanto è dato conoscere al momento). Il PD di Renzi non fa altro che recepire un suggerimento – datato al 2006 – degli economisti Boeri e Garibaldi (http://archivio.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina2153.html), che fa riferimento all’istituzione di un contratto unico di inserimento a tutele crescenti. In altri termini, avendo realizzato che alle imprese non serve poter disporre di una molteplicità di tipologie contrattuali (come previsto nella c.d. legge Biagi), si propone un intervento di semplificazione, finalizzato a istituire un contratto unico con un iniziale periodo di prova e con successiva assunzione a tempo indeterminato. La proposta è ancora sostanzialmente vuota. Ciò a ragione del fatto che non è chiaro se la nuova fattispecie normativa sostituirà tutte le tipologie di contratti precari esistenti (circa quaranta), se ne sostituirà alcune e, se sì, quali e perché. La proposta non è neppure nuova, dal momento che, fino alla controriforma Fornero del 2012, la legislazione in materia prevedeva la possibilità di somministrare contratti molto simili a quelli oggi proposti (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/10/lavoro-il-jobs-act-punto-per-punto-costi-e-omissioni-del-piano-di-renzi/837927/).

Per inquadrare i termini della questione, sono necessarie due premesse.

1) E’ falsa la convinzione, fatta propria da alcuni esponenti della Destra, che non si creano posti di lavoro con un tratto di penna, a costo zero. Le politiche di accentuata deregolamentazione del mercato del lavoro messe in atto negli ultimi anni hanno inequivocabilmente dimostrato che è ben possibile distruggere posti di lavoro a colpi di legge. L’OCSE ha ripetutamente certificato che, fra i Paesi industrializzati, l’Italia è quello che offre meno tutele ai lavoratori, sia occupati sia disoccupati, e che quanto più si riducono le tutele dei lavoratori, tanto più si riducono i salari e tanto più si riduce il numero di occupati. L’effetto è ovviamente amplificato in fasi recessive, nelle quali, a seguito della caduta della domanda, le imprese sono incentivate a licenziare e, data la normativa vigente, non incontrano alcun limite normativo nel farlo. Il fatto che questo effetto era teoricamente prevedibile è stato dimostrato a più riprese (http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/la-precarieta-come-freno-alla-crescita/http://temi.repubblica.it/micromega-online/perche-la-precarieta-accentua-la-crisi/).

2) Ciò detto, va comunque ribadito che l’aumento dell’occupazione, soprattutto in fasi recessive, non può che avvenire attraverso politiche di sostegno alla domanda aggregata e che, dunque, la crescita della disoccupazione va innanzitutto imputata alle misure di austerità.

Si consideri una versione “estrema” del Job Acts, nella quale tutte le nuove assunzioni saranno disciplinate con il contratto unico di inserimento a tutele crescenti. Quali effetti sull’occupazione è ragionevole attendersi?

E’ verosimile che, nella fase iniziale, i neo-assunti saranno incentivati a erogare la massima intensità lavorativa per minimizzare la probabilità di non ottenere la stabilizzazione. Ma, se anche questo effetto è ragionevolmente prevedibile, non si capisce per quale ragione lo sia con la nuova tipologia contrattuale e non lo sia con un contratto precario: in entrambi i casi, infatti, i lavoratori hanno il medesimo incentivo a lavorare molto e bene. L’incentivo si attenua quanto maggiori sono le tutele, in ordine alla probabilità di licenziamento, di cui il lavoratore beneficia. Si può, quindi, dedurre che – ammesso che il rendimento dipenda dalla probabilità di licenziamento – il contratto unico ha effetti negativi sulla produttività del lavoro. E poiché, nella fase di assunzione, le imprese verosimilmente scontano questo effetto, è ragionevole prevedere che il contratto unico disincentiva le assunzioni (o è meno conveniente di un contratto a tempo determinato)La proposta del PD di Renzi si basa, per contro, sulla convinzione che il contratto unico sia reciprocamente conveniente per datori di lavoro e lavoratori, dal momento che la stabilizzazione si accompagnerebbe a maggiore specializzazione, dunque all’aumento del capitale umano specifico e della produttività. Ma se la questione viene posta in questi termini, non si capisce per quale ragione le imprese non dovrebbero immediatamente assumere con contratti a tempo indeterminato e soprattutto non è chiaro per quale ragione – seguendo la medesima logica dei promotori – una volta stabilizzato, il lavoratore, con le massime tutele in ordine al licenziamento, dovrebbe continuare a erogare il massimo impegno. In tal senso, occorrerebbe riconoscere che gli effetti sulla produttività della somministrazione di contratti con tutele crescenti sono quantomeno ambigui.

Vi è di più. Come messo in evidenza a più riprese da Luigi Cavallaro (http://www.economiaepolitica.it/index.php/lavoro-e-sindacato/un-contratto-precario-per-tutti-2/), il contratto unico potrebbe generare il solo effetto di estendere la platea del precariato.  E, peraltro, come ha chiarito il Presidente di Confindustria http://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/economia/dettaglio/nRC_13012014_1124_185893021.html), le imprese italiane non hanno bisogno di nuovi interventi di deregolamentazione del mercato del lavoro, ma in primis di più ampi mercati di sbocco e di un più facile accesso al credito.

La crescente precarizzazione del lavoro, in effetti, è fra le cause della caduta dei consumi e della restrizione del credito: problemi sui quali il PD di Renzi resta, al momento, silente. Il circolo vizioso che ne deriva è così sintetizzabile.

a) La singola impresa ha interesse ad assumere con contratti precari, dal momento che, così facendo, comprime i costi e si attende un incremento dei profitti. La compressione dei costi deriva dal fatto che l’assunzione di lavoratori con contratti a tempo determinato si associa al pagamento di salari più bassi rispetto al caso di assunzioni a tempo indeterminato. Ciò per l’evidente ragione che, sussistendo una credibile minaccia di non rinnovo del contratto, il potere contrattuale del lavoratore che lo accetta è estremamente basso, e basse sono le retribuzioni[1]. Il ricorso a contratti ‘flessibili’ da parte di un numero significativo di imprese genera effetti macroeconomici di segno negativo per le imprese stesse, almeno per quelle che vendono esclusivamente su mercati interni. I bassi salari pagati a lavoratori con contratti a tempo determinato si associano a una bassa domanda di beni di consumo e, a seguire, a bassi ricavi[2]. In più, dal momento che le imprese produttrici di beni di consumo vedono ristretti i loro mercati di sbocco, esprimono una bassa domanda di beni di investimento, con conseguente calo della domanda aggregata interna e, per la crescente obsolescenza del capitale, con conseguente riduzione della produttività del lavoro[3].

b) In quanto la precarizzazione del lavoro riduce i profitti delle imprese che operano su mercati interni, ciò si traduce, da un lato, in una riduzione delle garanzie che le imprese possono offrire alle banche per ottenere finanziamenti e, dall’altro, nel peggioramento delle aspettative imprenditoriali. Le imprese domandano meno credito e le banche – assegnando maggiore rischiosità ai progetti di investimento – riducono l’offerta di credito. Su fonte Banca d’Italia, si registra che il tasso di variazione dei crediti concessi dalle banche italiane è passato dal 2.7% nel 2010 al – 2.5 di fine 2012 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_63/QEF_63.pdf).

In questo contesto, appare evidente che un’ulteriore riforma del mercato del lavoro che non faccia altro che riproporre, sotto forme diverse, politiche di precarizzazione è, nella migliore delle ipotesi, del tutto inutile. Nell’attesa di conoscere l’articolato della proposta del PD di Renzi, non resta da concludere che, sulla base di ciò che oggi si sa, job acts rischia di fare tanto rumore per nulla.

NOTE

[1] Su fonte CGIL, si stima che i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato, in Italia, percepiscono un salario medio di circa 800 euro al mese. L’OCSE certifica, con riferimento al nostro Paese, che il fenomeno interessa prevalentemente giovani di età inferiore ai 25 anni e che, soprattutto, il numero di precari in rapporto alla popolazione attiva è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, si registra che, nel corso dell’ultimo anno è significativamente aumentata (nell’ordine del 4%) la percentuale di assunzioni con contratto a tempo determinato sul totale delle assunzioni rispetto all’anno precedente.

[2] Il combinato delle politiche di austerità e della crescente precarizzazione del lavoro, determinando un drastico calo della domanda, ha prodotto ondate di fallimenti d’impresa senza precedenti nella storia recente dell’economia italiana. Su fonte Unioncamere, si registra che nel 2011 sono stati censiti più di 12 mila fallimenti, con un aumento del 7,4% rispetto alle oltre 11 mila procedure del 2010 (che, a sua volta, aveva fatto segnare un +19,8% rispetto all’anno precedente). Ovviamente, i termini del problema si pongono in modo diverso per le imprese esportatrici, dal momento che, per queste, a fronte di minori salari pagati ai propri dipendenti, vi è possibilità di ottenere profitti crescenti a condizione che la domanda estera sia in aumento.

[3] Su fonte ISTAT, si registra che, in Italia, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione del 3.3%, il tasso di disoccupazione è aumentato, dal 2012 al 2013, di circa un punto percentuale e le (più ottimistiche) previsioni indicano un tasso di crescita nell’ordine del -1.4%. In tal senso, è corretto affermare che le c.d. riforme strutturali (delle quali il Job Act è parte integrante) agiscono negativamente non solo dal lato della domanda ma anche dal lato dell’offerta (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/L-austerity-uccide-il-malato-europeo-21524).

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Sul salario minimo

[Intervista rilasciata a Emilio Carnevali e parzialmente pubblicata in “pagina99” del 30 gennaio 2014]

Opinione sul salario minimo

Occorre partire dalla constatazione che la teoria dominante del funzionamento del mercato del lavoro si regge su una presunta relazione inversa fra salario e occupazione, per la quale ogni incremento del salario – imputabile all’intervento pubblico di regolamentazione o all’azione sindacale – genera un calo dell’occupazione. Questa relazione è appunto solo presunta, e dà luogo a implicazioni di politica del lavoro che non generano altri esiti se non ridurre la quota dei salari sul PIL. L’evidenza empirica è inoppugnabile. Essa mostra – su fonte OCSE – che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. In tal senso, le proposte di introduzione di un salario minimo in Italia – se questo significa maggiore regolamentazione del mercato del lavoro – sono assolutamente condivisibili.

Gli effetti macroeconomici dell’istituzione di un salario minimo

Innanzitutto, bisogna rilevare che la fissazione di un salario monetario minimo senza allineamento della dinamica delle retribuzioni monetarie al tasso di inflazione può rivalersi del tutto inefficace, dal momento che le imprese possono reagire aumentando i prezzi e mantenendo, quindi, invariato il salario reale. Se, al contrario, si propone un meccanismo di indicizzazione, gli effetti dell’imposizione di minimi salariali in termini reali più alti di quelli vigenti sono di segno positivo e riconducibili ai seguenti:1) Un aumento del monte salari reale accresce i consumi e la domanda interna e, attivando un meccanismo moltiplicativo, accresce l’occupazione. 2) Una politica di alti salari ha effetti positivi anche “dal lato dell’offerta”. Come scriveva Keynes: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”. In altri termini, sia per effetti di motivazione, sia soprattutto perché un aumento dei aumento dei salari incentiva le innovazioni, elevate retribuzioni sono associate a elevata produttività.

Chi (e come) lo stabilisce?

Evidentemente, questa domanda rinvia innanzitutto all’individuazione dei criteri sulla base dei quali quantificarlo. Qui occorre sgombrare il campo dall’idea secondo la quale esso debba essere commisurato alla produttività del lavoro. E’, infatti, logicamente ed empiricamente impossibile misurare la produttività del singolo lavoratore. La produttività del lavoro è data, per definizione, dal rapporto fra la quantità di beni e servizi prodotta e il numero di lavoratori occupati. L’impossibilità di misurazione discende da due dati di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma, essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori all’interno del processo produttivo. In secondo luogo, le economie contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile, se non quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini monetari. Da ciò discende che, per entrambi i casi, non è possibile isolare il contributo del singolo lavoratore e, di conseguenza, non è possibile fornire una misurazione fisica della sua produttività. L’idea che sia il Governo a determinarlo lascia il sospetto che questa misura sia pensata per depotenziare ulteriormente le organizzazioni sindacali e moderare (se non azzerare) le spinte conflittuali, spingendo ulteriormente verso un assetto “cooperativo” delle relazioni industriali. Il che può generare il rischio di fissare i minimi salariali a livelli ancora più bassi rispetto a quelli ora vigenti, vanificando gli effetti positivi di politiche di alti salari descritti prima. Ciò soprattutto in un contesto nel quale il Governo continua a muoversi nei limiti delle “compatibilità” fissate dall’Unione Monetaria Europea, avendo come obiettivo l’aumento dell’avanzo primario, la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, il pareggio di bilancio.

Su questi aspetti, c’è molto da apprendere da ciò che sta facendo l’Amministrazione Obama, con particolare riferimento all’istituzione di un salario minimo per i dipendenti federali, con allineamento della dinamica delle retribuzioni monetarie al tasso di inflazione e all’attuazione di politiche fiscali espansive.

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L’economia del lusso e del sommerso

[in MicroMega online del 31 gennaio 2014]

Si potrebbe salutare con successo il fatto che le imprese italiane, pur a fronte della recessione in corso, vedano crescere le loro esportazioni di beni di lusso e che sia in crescita anche la domanda interna di beni di lusso. La Fondazione Altagamma calcola che, nel trascorso triennio, la domanda di beni di lusso (in particolare Made in Italy)su scala globale è costantemente aumentata e che, per quanto riguarda l’Italia, sono costantemente aumentate le esportazioni in questo settore (http://www.newsmercati.com/Previsioni_mercato_mondiale_del_lusso). I più elevati tassi di crescita si registrano nei Paesi dell’estremo oriente (Cina, in primo luogo), con incrementi di domanda superiori al 30% su base annua (http://www.escp-eap.net/conferences/marketing/pdf/brioschi.pdf). Queste stime fanno riferimento a una tipologia di beni – tipicamente: abbigliamento, accessori di moda, gioielleria, accessori preziosi – il cui prezzo supera di almeno il 200% il prezzo medio di categoria. Si tratta di dati che pongono due interrogativi, che attengono alle cause e agli effetti del fenomeno, e che sollecitano alcune considerazioni sul modello di specializzazione produttiva dell’economia italiana.

1) In primo luogo, è del tutto evidente che l’espansione del settore è imputabile alla crescente disuguaglianza distributiva su scala globale. L’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello nel quale le diseguaglianze della distribuzione del reddito si sono maggiormente accentuate nell’ultimo decennio, giungendo – allo stato attuale – a una polarizzazione superiore alla media dei principali Paesi industrializzati (http://www.sinistrainrete.info/politica-economica/1443-stefano-perri-locse-e-la-diseguaglianza-a-che-punto-e-la-notte.html). La polarizzazione dei redditi – risultato dell’impoverimento assoluto e relativo dei lavoratori e della ‘classe media’ nei Paesi industrializzati nel corso (almeno) dell’ultimo ventennio – contribuisce, infatti, a generare una condizione nella quale pochi individui hanno accesso a beni che sono del tutto inaccessibili alla maggioranza della popolazione. Si tratta di gruppi sociali il cui reddito e il cui patrimonio non è stato pressoché per nulla intaccato né dalla crisi né dalle politiche di austerità messe in atto per farvi fronte. Ciò che ha reso (e rende) possibile questo stato di fatto è l’elevato potere contrattuale del quale la nuova “classe agiata” dispone, e che le consente di essere di fatto esentata da significativi incrementi della tassazione del suo reddito e del suo patrimonio. Un elevato potere contrattuale che, a sua volta, dipende dal fatto che la “classe agiata” in via diretta o indiretta, nella gran parte dei Paesi industrializzati, è anche élite politica e, dunque, orienta le principali scelte di politica economica.

2) L’aumento dei consumi di beni di lusso non può che essere il risultato di un declino degli investimenti. Il che dà luogo a una spirale perversa così sintetizzabile. Aumentando le diseguaglianze distributive, si riduce la domanda di beni di consumo da parte delle famiglie con più basso reddito e si riducono le aspettative di profitto per le imprese che producono questa tipologia di beni. Producendo meno, esse domandano meno beni di investimento, con effetti di segno negativo su domanda aggregata, occupazione, salari e crescita. Al tempo stesso, i profitti accumulati e non investiti vengono destinati ad attività speculative e (in misura crescente) all’acquisto di beni di lusso.

Se anche i consumi di lusso tengono elevata la domanda aggregata, ciò non ha effetti significativi sull’occupazione e sul tasso di crescita, per due ragioni. In primo luogo, la gran parte dei beni di lusso è difficilmente riproducibile, così che – con offerta data – un aumento della domanda si traduce quasi esclusivamente in un aumento dei prezzi. In secondo luogo, la produzione di beni di lusso (si pensi ai prodotti artigianali considerati di elevata qualità) non necessita, di norma, di rilevanti innovazioni tecnologiche, così che la produzione di beni di lusso non si associa a incrementi di produttività.

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La specializzazione produttiva italiana si è venuta storicamente delineando a partire dalla tipologia di beni domandati su scala internazionale e, fra questi, prevalentemente beni non strettamente di sussistenza. Ciò a ragione del fatto che, essendo l’Italia del secondo dopoguerra un’economia in via di sviluppo, la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro era fondamentalmente determinata dalla domanda estera. Lo sviluppo dell’economia italiana, negli anni del c.d. miracolo economico, è, dunque, avvenuto essenzialmente attraverso la crescita delle esportazioni di beni di lusso, destinati ai consumi opulenti delle classi agiate dei Paesi importatori del Made in Italy, con effetti anche sulla tipologia di consumi interni. In quanto le imprese esportatrici pagavano salari più alti rispetto alle imprese che vendono su mercati interni (a consumatori con redditi più bassi), ne derivava che i lavoratori del primo settore, a differenza di quelli occupati nei settori “stagnanti”, potevano accedere a consumi non strettamente di sussistenza: ciò che è stato definito il fenomeno della “distorsione dei consumi”. Peraltro, le imprese che producevano beni di lusso erano (e sono) prevalentemente localizzate nelle regioni settentrionali d’Italia. Le imprese meridionali producevano essenzialmente per i mercati locali e, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, la crescita dell’economia del Sud fu essenzialmente trainata da una consistente crescita degli investimenti industriali, a sua volta generata fondamentalmente per la decisione politica di imporre alle imprese a partecipazione statale l’obbligo di destinare una quota minima, pari al 60%, dei nuovi investimenti al Sud.

Da quegli anni, la specializzazione produttiva italiana è rimasta sostanzialmente inalterata, a fronte dei radicali mutamenti dello scenario internazionale, che si sono ripercossi – per lo più con segno negativo – sulla struttura produttiva italiana e, ancor più, meridionale. Fra i più radicali mutamenti intervenuti dagli anni del “miracolo economico”, vanno segnalati la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e, soprattutto, l’intensificazione dei movimenti internazionali di capitale (la c.d. globalizzazione). Nel primo caso, si è accentuata la dipendenza dell’economia meridionale da quella delle aree più sviluppate del Paese. Nel secondo caso, si è configurata una condizione nella quale la competizione non è solo più fra imprese, ma fra Stati. In questo nuovo scenario, le imprese meridionali, nella migliore delle ipotesi, possono contribuire alla crescita delle esportazioni di beni di lusso avvalendosi di subforniture delle imprese esportatrici. Ma, per fare questo, essendo in competizione con imprese localizzate in Paesi nei quali i salari sono notevolmente inferiori, sono necessariamente indotte a praticare politiche di compressione dei costi (e dei salari, in primis) fino a collocarsi in condizioni di irregolarità. L’aumento delle dimensioni dell’economia sommersa nel Mezzogiorno (http://www.cgilpuglia.it/news/dettaglio.php?id=629) può essere agevolmente letto come l’esito di questa strategia.

In un Paese nel quale non si sono viste da oltre un ventennio (né sono all’orizzonte) politiche industriali in grado di spingere le imprese italiane a competere innovando, contrastando il loro nanismo, e nel quale sono state attuate, con la massima accelerazione, politiche di riduzione della spesa pubblica, di aumento della tassazione e di crescente precarizzazione del lavoro, non può sorprendere il fatto che si sia perso circa il 24% di produzione industriale negli ultimi quattro anni http://www.confindustria.it/ancong.nsf/e76648fb2e2026dd412565ee0041af32/c1494c89a7747aabc1257c5f004d4a71/$FILE/Comunicato%20CSC%20Produzione%20Industriale_13%20Gennaio%202014.pdf). Così che la crescita delle esportazioni viene sempre più a dipendere dalla crescita delle diseguaglianze distributive su scala globale, dalla continua compressione dei salari e, per il Mezzogiorno, dall’espansione dell’economia sommersa.

 Per una ricostruzione più dettagliata di queste dinamiche, si rinvia a A. Graziani, Lo sviluppo in economia aperta, Napoli ESI,1968

 E, in moltissimi casi, sono state acquisite, negli anni più recenti, da imprese estere. Si veda l’ultimo Rapporto Eurispes: http://www.eurispes.eu/content/sintesi-outlet-italia-cronaca-di-un-paese-svendita-eurispes-uil-pa

 V. A.Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana: dalla ricostruzione alla moneta unica, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

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Le ombre del decreto Bankitalia

[“Micromega” online del 12 febbraio 2014]

Il Ministro Saccomanni ci assicura che il decreto che consente l’aumento di capitale della Banca d’Italia non è un “regalo alle banche” (come nell’opinione delle opposizioni), ma un provvedimento necessario per conferire maggiore stabilità patrimoniale alle banche italiane e per reperire risorse – tramite tassazione delle stesse – per cassare definitivamente la seconda rata IMU.

Per provare a fare chiarezza sulla questione, occorre una puntualizzazione preliminare. E’ opinione diffusa che gli Istituti di credito non facciano altro che raccogliere risparmi ed erogare prestiti a imprese e famiglie. Si tratta di una tesi errata sul piano logico e fattuale: il sistema bancario nel suo complesso può creare moneta senza incontrare vincoli di scarsità, ovvero senza aver bisogno di una preventiva raccolta di depositi (http://keynesblog.com/2013/03/25/inflazione-e-moneta-4-la-teoria-della-moneta-endogena/). Ciò a ragione del fatto che, essendo la moneta una pura convenzione sociale (ovvero, si accetta un’unità monetaria solo in quanto si sa che verrà accettata da altri), il suo costo di produzione è prossimo allo zero; e ogni risorsa la cui produzione non comporta costi è producibile ad infinitum. La convinzione che le banche agiscano come pure intermediarie attiene semmai al piano normativo, ovvero a ciò che si ritiene dovrebbero fare. In tal senso, appare corretta l’interpretazione secondo la quale la rivalutazione del capitale di Banca d’Italia – che è e resta un Istituto di diritto pubblico – altro non è se non un trasferimento di risorse pubbliche alle banche private che partecipano (senza diritto di gestione) al suo capitale, ovvero una “privatizzazione del signoraggio della moneta legale”; privatizzazione dalla quale – da questo provvedimento – traggono il massimo beneficio Banca Intesa, Unicredit e Assicurazioni Generali (http://sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Una-risposta-al-comunicato-di-Bankitalia-22279).

Il dibattito politico sulle misure di finanziamento pubblico del sistema bancario (del quale il provvedimento su Bankitalia è l’ultimo in ordine di tempo) ruota, in ultima analisi, intorno a questa domanda: esistono criteri oggettivi (o quantomeno affidabili) per quantificare il grado di “sottocapitalizzazione” di una banca? Se la risposta fosse affermativa e se la banca fosse effettivamente sottocapitalizzata, potrebbe essere ragionevole utilizzare risorse pubbliche per accrescerne il capitale, sia per tutelare i risparmiatori, sia per fornire credito per finanziare investimenti e consumi. Ma due considerazioni inducono a dubitare della ragionevolezza di questi interventi.

1) Nonostante i numerosi provvedimenti di “ricapitalizzazione” di banche effettuati negli ultimi anni in molti Paesi OCSE, e nonostante queste operino in un contesto di politiche monetarie fortemente espansive, l’offerta di credito a imprese e famiglie si è costantemente ridotta dal 2008 a oggi. La principale causa di questo fenomeno la si può rintracciare nella caduta della domanda aggregata, indotta soprattutto dalle politiche di austerità. La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento dell’imposizione fiscale), riducendo i mercati di sbocco, ha ridotto i profitti delle imprese, fino a determinarne il fallimento. E’ aumentata, a seguire, la rischiosità dei progetti di investimento, con conseguente contrazione dei finanziamenti alle imprese. In più, le banche hanno trovato più conveniente far profitti mediante la speculazione sui mercati finanziari e l’acquisto di titoli del debito pubblico (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/). Da ciò si può dedurre che la ricapitalizzazione del settore bancario non è una strategia efficace per contrastare la restrizione del credito. Più in generale, si può rilevare che una politica monetaria espansiva non associata a una politica fiscale espansiva è del tutto inadatta a creare le condizioni per un aumento dell’offerta di credito e per la crescita dell’occupazione, e che in un assenza di crescita economica non vi è da aspettarsi che – solo perché dispongono di maggiori capitali – le banche inondino di liquidità il sistema. D’altra parte, in una fase recessiva caratterizzata dal peggioramento delle aspettative di profitto, sono le stesse imprese a domandare meno credito.

2) Neppure si può sostenere, con assoluta certezza, che una banca necessita di essere ricapitalizzata, dal momento che i criteri di misurazione del rischio – applicati al settore bancario – sono significativamente diversi fra loro, e possono dar luogo a risultati diversi (http://www.economy2050.it/banche-tedesche-deutsche-bank-derivati/). Questa conclusione, pur di carattere generale, deve ovviamente tener conto dell’eventualità che diversi criteri di misurazione della sottocapitalizzazione bancaria possano dar luogo a risultati uguali. Per ciò che è dato sapere, vi è convergenza sul fatto che, in Europa, il sistema bancario italiano non è sottocapitalizzato e lo è, invece, quello tedesco.

In questo scenario, si è ritenuto opportuno accelerare la costituzione dell’unione bancaria europea. Nelle intenzioni dei promotori, essa costituirebbe uno strumento necessario ed efficace per intervenire laddove si prefiguri il fallimento di banche dei Paesi aderenti, attingendo a un fondo che le banche stesse contribuiscono ad alimentare, evitando in tal modo che l’onere del salvataggio ricada sui contribuenti. E tuttavia, alla luce della dubbia affidabilità dei criteri di misurazione della capitalizzazione bancaria, l’operazione suscita una duplice perplessità.

a) Se è vero che sono le banche tedesche quelle maggiormente sottocapitalizzate, il meccanismo ipotizzato potrebbe tradursi nel trasferimento di denaro dai Paesi periferici dell’eurozona (Italia in primis), nei quali è minore la probabilità di default di Istituti di credito, ai Paesi centrali, accentuando i disequilibri all’interno dell’Unione Monetaria.

b) Non è chiaro – se non adducendo motivazioni esclusivamente ideologiche – per quale ragione una banca prossima al fallimento debba essere “salvata” da altre banche e non direttamente dallo Stato, assumendone proprietà e controllo. Nel primo caso, si tratterebbe di una partita di giro, che probabilmente eviterebbe crisi bancarie, ma che non aggiungerebbe liquidità al sistema. Nel secondo caso, la probabilità di crisi bancarie sarebbe sostanzialmente nulla e, anche ammettendo – il che è tutto da dimostrare – che la gestione pubblica è meno efficiente di quella privata, la quantità di credito erogato non potrebbe che essere maggiore. In generale, come evidenziato fin dal 2008 da Paul Krugman (http://krugman.blogs.nytimes.com/2009/03/08/anti-nationalizationarguments/?_php=true&_type=blogs&_r=0), la nazionalizzazione ha effetti positivi sulla stabilità del sistema.

D’altra parte, casi di nazionalizzazione di banche ci sono stati e, in loro assenza, quando si è reso necessario, nessun Governo si è sottratto dalla responsabilità di immettere fondi pubblici nei bilanci di banche in difficoltà, a carico dei contribuenti.

 Sulla questione si rinvia, fra gli altri, a Cardim de Carvalho, F.J. (2012). Aggregate savings, finance and investment, “Intervention”, vol.9, n.2, pp.197-213.

 E’ questa la definizione datane da Claudio Gnesutta nell’articolo su “Sbilanciamoci” qui richiamato. Sulla definizione di signoraggio, si rinvia a quanto scritto dalla stessa Banca d’Italia: “Per signoraggio viene comunemente inteso l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta. Per le banche centrali, il reddito da signoraggio può essere definito come il flusso di interessi generato dalle attività detenute in contropartita delle banconote (o, più generalmente, della base monetaria) in circolazione”. Nel bilancio delle banche centrali, questo reddito è incluso nella definizione di “reddito monetario”. V. http://www.bancaditalia.it/bancomonete/signoraggio.

 Per gli aspetti tecnici della questione, si rinvia a http://www.lavoce.info/unione-bancaria-europea-crisi-bancaria-bail-in-titoli-di-stato/

 E se non adducendo esplicitamente motivazioni (estranee alla razionalità economica) che rinviano alla tutela degli interessi degli azionisti.

 Fra i casi di nazionalizzazione di banche, si può ricordare quanto fatto dal Governo Britannico per la Northern Rock, acquisita dal Tesoro nel 2008 (e venduta a Virgin Money nel 2012). E’ emblematico il caso Monte dei Paschi di Siena per gli interventi pubblici di salvataggio. Il caso Lehman Brothers ha sue peculiarità, per le quali si rinvia a http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/contagio-strategico/

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Le (presunte) virtù salvifiche della riduzione del cuneo fiscale

[in MicroMega online del 26 febbraio 2014, poi in Keynes blog del 28 febbraio 2014]

E’ da almeno un decennio che i Governi che si sono succeduti in Italia hanno ritenuto di poter creare le condizioni per la crescita economica riducendo il c.d. cuneo fiscale, ovvero la differenza fra salario lordo e salario netto. E, nell’ultimo Rapporto OCSE (Going for growth), questa misura è fortemente raccomandata per accrescere la competitività delle imprese italiane. Pare, insomma, che la riduzione del cuneo fiscale abbia virtù salvifiche.

Occorre innanzitutto chiarire che il cuneo fiscale, in Italia, non è esageratamente alto, o comunque non è a livelli talmente “fuori norma” da legittimare l’assoluta priorità della sua riduzione. Su fonte OCSE, si registra che la differenza fra retribuzioni lorde e nette è pari, nel nostro Paese, al 47.6%, inferiore a quella registrata in Belgio, Francia, Germania, Ungheria e Austria, ma superiore alla media dei Paesi industrializzati (pari al 35.6%). In merito alla sua riduzione – sulla quale sembra esserci un consenso pressoché unanime – occorre rilevare alcune criticità.

1) Per ciò che è dato sapere al momento, la riduzione del cuneo fiscale sarà di importo consistente e dovrà essere finanziato – secondo il responsabile per l’economia del PD, Filippo Taddei – con tagli di spese nell’ordine degli 8-10 miliardi. Qui sorgono tre problemi.

Primo (il più ovvio): perché dovrebbe riuscire nell’impresa il Governo Renzi, laddove – a parità di condizioni politiche e del quadro macroeconomico – il precedente Governo non è riuscito a trovare la necessaria copertura finanziaria?

Secondo: la riduzione del cuneo fiscale viene finanziata con la riduzione della spesa pubblica (detto in modo più raffinato, trattasi di razionalizzazione). Ma, in quanto la spesa pubblica accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni – prevalentemente imprese meridionali, il provvedimento ha effetti redistributivi fra imprese fra territori nelle quali operano. Ciò a ragione del fatto che le imprese esportatrici trovano, di norma, non conveniente per loro un aumento della spesa pubblica, dal momento che questa, accrescendo l’occupazione, si assocerebbe a un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e a incrementi salariali. Per contro, le imprese che producono per mercati locali hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco[1].

Terzo: non c’è da aspettarsi che la riduzione del cuneo fiscale possa controbilanciare gli effetti recessivi derivanti da ulteriori tagli della spesa pubblica. L’affetto espansivo sui consumi si avrebbe solo se si riducessero significativamente le imposte pagate dai lavoratori, non quelle pagate dalle imprese. Se, stando alle dichiarazioni di Taddei (http://qn.quotidiano.net/primo_piano/2014/02/26/1031267-cuneo_fiscale_ecco_piano_renzi.shtml), l’importo mensile netto aggiuntivo nelle tasche di un lavoratore che percepisce 1.600 euro sarà di 50 euro, non solo non c’è da attendersi una significativa ripresa dei consumi, ma soprattutto – per l’ulteriore dimagrimento del residuo di welfare rimasto in Italia  –  vi è semmai ragionevolmente da aspettarsi che i salari reali degli occupati non aumentino. In più, una ripresa significativa dei consumi si avrebbe semmai se la riduzione del cuneo fiscale fosse attuata in una condizione di elevata occupazione (a ragione dell’ampia platea di beneficiari): il che, con ogni evidenza, non è la condizione attuale. E neppure c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti derivante da una riduzione dell’IRAP, sia perché gli investimenti dipendono essenzialmente dalle aspettative di profitto sia perché, come ampiamente sperimentato negli ultimi anni, nessun provvedimento di detassazione degli utili è in grado di stimolarli.

Inoltre, come è stato messo in evidenza, il cuneo fiscale non rappresenta un fattore rilevante per le decisioni di delocalizzazione delle imprese (http://www.economiaepolitica.it/index.php/tag/cuneo-fiscale/), così che non dovrebbe avere impatti significativi sull’attrazione di investimenti in Italia (né sulle delocalizzazioni di imprese italiane).

3) Una causa rilevante della recessione italiana risiede nella continua riduzione della produttività e nella sua “desertificazione produttiva”. A fronte dei molti fattori che hanno prodotto questi esiti (che datano ben prima dell’adozione della moneta unica), è da evidenziare il fatto che la rinuncia all’attuazione di politiche industriali ha posto le imprese italiane nella condizione di poter vendere solo mediante strategie dicompetitività di prezzo, ovvero in assenza di innovazioni. La competitività di prezzo, in un Paese importatore di materie prime e di macchinari, si traduce esclusivamente in compressioni salariali (e, più in generale, nel peggioramento delle condizioni di lavoro), il cui effetto è il calo della domanda interna e dell’occupazione. Su fonte International Labour Office, si registra che, fra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea, è nei Paesi periferici (Italia inclusa) che si verifica che i lavoratori occupati lavorano più ore. Fra questi, il primato spetta alla Grecia, ovvero al Paese che fa registrare i più bassi tassi di crescita nell’eurozona[2]. L’evidenza è apparentemente paradossale, dal momento che ci si aspetterebbe che la crescita economica – a parità di altre condizioni – sia maggiore laddove è elevata l’intensità del lavoro. E ci si aspetterebbe anche che l’occupazione è maggiore dove è minore il cuneo fiscale. Tuttavia, si può rilevare che misurando la produttività come unità di prodotto per ora lavorata, in Francia e Germania un’ora di lavoro genera un incremento di produzione circa pari al 20% in più rispetto a un’ora lavorata in Italia e il tasso di occupazione è maggiore, nonostante questi Paesi abbiano un cuneo fiscale e contributivo più elevato. Si può quindi dedurre che una riduzione del costo del lavoro non è condizione sufficiente né per accrescere l’occupazione né per migliorare la competitività delle imprese.

Ma soprattutto, in una condizione sembra socialmente e politicamente inammissibile contrarre ulteriormente i salari, la riduzione del cuneo fiscale è l’unica strategia percorribile per consentire alle nostre imprese di poter sperare di far profitti comprimendo i costi. Il che, in ultima analisi, significa che ridurre il cuneo fiscale costituisce un potente incentivo a indurle a perpetuare una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, ovvero un potente disincentivo a innovare.

NOTE

[1] Si osservi che la deflazione salariale combinata con il calo dei consumi ha generato, negli ultimi anni, compressione delle importazioni, con un lieve incremento del saldo della bilancia commerciale (http://www.economy2050.it/miglioramento-bilancia-dei-pagamenti-apparente-successo-decrescita-italiana/), anche imputabile all’aumento delle esportazioni di beni di lusso, a sua volta derivante dall’aumento delle diseguaglianze distributive su scala globale. V. http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99economia-del-lusso-e-del-sommerso/

[2] V. J.C.Messenger, Working time trends and developments in Europe, “Cambridge Journal of Economics”, 2011, pp. 295-361.

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Renzi e la finanza

[“MicroMega” online del 13 marzo 2014]

Il Governo Renzi annuncia un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (con eccezione dei titoli del debito pubblico), per provare a recuperare risorse per finanziare i provvedimenti che, nello stesso programma, dovrebbero creare le condizioni di fuoriuscita dell’Italia dalla recessione. Le obiezioni sollevate sono molteplici e riconducibili alle seguenti. In primo luogo, non è assolutamente certo che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari dal 20 al 26 per cento saranno in grado di generare entrate di entità tali da garantire la totale copertura del taglio dell’Irap. L’aumento dell’aliquota potrebbe determinare un calo della domanda di titoli, di entità tale da generare semmai una riduzione del gettito. In secondo luogo, l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie attuata da un singolo Stato (sebbene questo provvedimento ponga la tassazione italiana sulle rendite più in linea con quella europea http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-02-24/ecco-quanto-pesa-tassazione-risparmio-altri-paesi-europei-picco-e-francia-345percento-101001.shtml?grafici) – in mercati finanziari globali pressoché totalmente deregolamentati – rischia di generare fughe di capitali e, anche per questa via, di vanificare l’obiettivo di recuperare risorse. Vi è di più. Mentre le imprese sono favorite, da un lato, dalla riduzione dell’IRAP, l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, dall’altro, può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese; e, per le imprese che si finanziano sui mercati finanziari, questo stesso provvedimento dovrebbe indurle a collocare i propri titoli con rendimenti più elevati. In entrambi i casi, non vi è da attendersi un aumento degli investimenti.

Ma, al di là degli aspetti tecnici della questione, occorre rilevare che questo provvedimento – se anche, nella migliore delle ipotesi, genererà maggiori entrate – resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza. Rapporti che si sono sviluppati storicamente su due snodi essenziali.

A seguito dello scoppio della crisi del 1929, venne introdotta negli Stati Uniti una normativa notevolmente stringente sull’attività bancaria (il c.d. Glass-Steagal Act), che stabilì la separazione fra banche commerciali, che potevano esclusivamente svolgere la funzione di raccogliere risparmi ed erogare finanziamenti a imprese e famiglie, e banche d’investimento, che potevano effettuare operazioni speculative nei mercati finanziari e si fissò un limite all’aumento dei tassi di interesse. La “repressione finanziaria” – come fu definita – contribuì a generare il più lungo periodo di stabilità del capitalismo. Erano gli anni nei quali Roosevelt scriveva che “il pericolo rappresentato dalla finanza organizzata è pari a quello del crimine organizzato”.

Il maggiore impulso alla totale deregolamentazione dei mercati finanziari (e l’abolizione del Glass-Steagal Act) avviene negli anni novanta per opera dell’Amministrazione Clinton. Sono anni nei quali l’idea dominante nelle Università statunitensi è che la “speculazione è stabilizzante”. Per quanto oggi questa tesi possa apparire del tutto infondata, va ricordato che essa ha di fatto legittimato la transizione a un modello di riproduzione capitalistica basato sul peso crescente della sfera finanziaria rispetto all’economia “reale”. La sua ratio risiede nell’assunto secondo il quale, essendo gli agenti economici perfettamente razionali e perfettamente informati, acquistano titoli di imprese efficienti e vendono di titoli di imprese inefficienti, così che l’attività speculativa svolge la funzione di “premiare” gli operatori maggiormente produttivi e, operando di fatto una selezione darwiniana, “punire” gli operatori meno produttivi.

Ebbene, è proprio a partire dagli anni novanta che – legittimata dall’ipotesi dei mercati finanziari efficienti – la politica economica (innanzitutto negli USA) dà spazio a un modello di riproduzione capitalistica caratterizzato da crescente “finanziarizzazione”. Su fonte Banca d’Italia, si rileva che il rapporto fra valore degli strumenti finanziari e PIL è stato pari, nel 2006, a 8 e a oltre 10 negli Stati Uniti, a fronte di un rapporto circa pari a 3 all’inizio degli anni ottanta: ciò a dire che, nel momento in cui viene effettuato uno scambio nell’economia “reale”, si effettuano 10 transazioni nella sfera finanziaria. Più in generale, l’evidenza mostra che, in tutti i Paesi OCSE (con maggiore accentuazione negli Stati Uniti), il rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un Paese e il corrispondente valore del PIL degli stessi anni è costantemente aumentato.

La finanziarizzazione deriva dal combinato di misure di deregolamentazione della sfera finanziaria e di riduzione della quota dei salari sul PIL in tutti i Paesi OCSE. L’OCSE riferisce, a riguardo, che, negli Stati Uniti, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio. E’ palese che, in questo contesto, le imprese tendono a disinvestire, dal momento che la produzione e la vendita di beni diventa sempre meno conveniente a ragione della caduta della domanda di beni di consumo, e, per contro, trovano sempre più conveniente destinare quote crescenti dei profitti accumulati all’acquisto e alla vendita di titoli. In tal senso, la finanziarizzazione delle imprese è causata dal peggioramento della distribuzione del reddito, ovvero dalla riduzione dei consumi conseguente alla riduzione dei salari. D’altra parte, il fatto che la speculazione diventa sempre più conveniente rispetto alla produzione di beni e servizi è anche il risultato del fatto che, finanziarizzandosi, le imprese ottengono profitti in tempi più rapidi, dal momento che la produzione richiede tempo e che è invece possibile accedere ai mercati finanziari su scala globale in ogni momento[1]. La riduzione della domanda, infatti, riducendo i mercati di sbocco delle imprese, ne riduce i profitti, generando aspettative negative sull’andamento dei profitti futuri. Ciò induce le banche a ritenere sempre più probabile il rischio di insolvenza delle imprese e, dunque, a ridurre i finanziamenti erogati (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/).

Contrariamente alle previsioni, la speculazione si è rivelata niente affatto stabilizzante, essendo, per contro, uno dei principali fattori all’origine della crisi in corso. Ciò per le seguenti ragioni.

1) Chi opera nei mercati finanziari non si comporta in modo “razionale”. I mercati finanziari sono dominati da ondate di ottimismo e di pessimismo del tutto imprevedibili, da fenomeni di “esuberanza irrazionale”, da incertezza radicale, da effetti imitativi, così che i piccoli risparmiatori formano uno “sciame” che segue le decisioni delle più grandi Istituzioni finanziarie, assegnando a queste decisioni una patente di razionalità che, nella gran parte dei casi, non sussiste. Peraltro, quelli che vengono chiamati mercati finanziari sono niente altro che aggregazioni collusive composte da poche grandi Istituzioni finanziarie (Goldman Sachs, Lloyds, innanzitutto).

2) In un regime nel quale imprese e banche destinano quote crescenti dei profitti accumulati per attività speculative, gli investimenti si riducono, generando un circolo vizioso di caduta della domanda aggregata, riduzione dell’occupazione e dei profitti, ulteriore incentivo alla finanziarizzazione e riduzione del tasso di crescita.

Se gli anni della c.d. repressione finanziaria – ovvero di una incisiva regolamentazione dei mercati finanziari – sono stati gli anni di maggiore stabilità, agire con la leva fiscale per provare a contenere gli effetti perversi della finanziarizzazione appare inutile e per certi versi controproducente. Ciò al netto del vantaggio politico di presentare questo Governo come il Governo che, in discontinuità con i precedenti, non è il “Governo delle banche”.

NOTE

[1] A ciò si aggiunge la c.d. finanziarizzazione bancaria, ovvero la crescente propensione delle banche a restringere l’erogazione di credito a imprese e famiglie, e a destinare quote crescenti dei loro profitti sui mercati finanziari. Come nel caso della finanziarizzazione delle imprese, anche la “finanziarizzazione bancaria” deriva dalla caduta della domanda conseguente alla riduzione dei salari e, dunque, dei consumi.

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Il dualismo Nord-Sud in regime di austerità

[in “MicroMega” online del 2 aprile 2014, poi nel “Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 aprile 2014]

“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto” (Antonio Gramsci, 1926)

E’ piuttosto enigmatica la posizione di Matteo Renzi sulle politiche per il Mezzogiorno. Alle critiche a lui rivolte per non aver neppure pronunciato la parola Sud nel discorso per la fiducia, il primo ministro ha seccamente replicato: “Basta parole in libertà”. Sarebbe come dire che del Mezzogiorno non si può parlare o che forse è proprio inutile parlarne.

E’ opinione diffusa che il Mezzogiorno sia l’area del Paese nella quale con la massima intensità si manifestano casi di spreco, di corruzione, di gestione inefficiente delle risorse pubbliche, e che le regioni meridionali siano state (e siano) oggetto di interventi meramente assistenziali, essendo fondamentalmente incapaci di porre le condizioni per una crescita non ‘eterodiretta’. In tal senso, e per luogo comune, si fa passare il messaggio per il quale il Sud (assistito) vive alle spalle di un Nord che produce. Si prova a legittimare questa conclusione con l’ipotesi secondo la quale nelle regioni meridionali è bassa la dotazione di “capitale sociale”, intendendo per capitale sociale la propensione al rispetto delle norme formali e informali.

Si tratta di una diagnosi estremamente opinabile, a ragione di queste considerazioni.

1) La categoria del capitale sociale non è chiaramente definita e, ancor più, è di difficilissima (se non impossibile) quantificazione. Neppure è chiaro quale sia il nesso di causalità fra capitale sociale e crescita economica, ovvero se quest’ultima sia (anche) trainata dal rispetto delle norme o se il rispetto delle norme diventa più diffuso in un’economia in crescita. Peraltro, assumendo come variabile rilevante per la misurazione del capitale sociale l’evasione fiscale, risulta che questa – sia in termini assoluti, sia in termini pro-capite – è maggiore al Nord. In particolare, su fonte Banca d’Italia, si stima che l’incidenza dell’evasione fiscale è pari a circa il 15% al Nord a fronte dell’8% circa al Sud.

2) Appare molto più ragionevole ritenere che le difficoltà nelle quali si trova oggi il Mezzogiorno non dipendono dalla moralità dei cittadini che risiedono in queste regioni, ma da meccanismi macroeconomici che originano dalle politiche di austerità messe in atto nel corso degli ultimi anni. Politiche che hanno significativamente contribuito ad accentuare gli squilibri regionali, sia fra Paesi aderenti all’Unione Monetaria Europea, sia fra regioni, soprattutto – in quest’ultimo caso – per economie che erano già dualistiche.

Possono essere sufficienti pochi dati per fotografare l’attuale condizione del Mezzogiorno. Su fonte SVIMEZ, si registra che è dal 2007 che l’economia meridionale cresce meno di quella del Centro-Nord. Nel 2012, il tasso di crescita è stato di segno negativo, pari a circa -3.2% (a fronte del -2.1% del resto del Paese), facendo registrare un tasso di variazione del PIL circa pari a -2.5% nel 2013 (a fronte di un calo di 1.8% del Nord). Il valore aggiunto del settore manifatturiero si è ridotto dall’11.2% del 2007 al 9.2% del 2012, in una condizione che appare molto simile alla ormai quasi completa desertificazione industriale, alla quale si associa una significativa riduzione del numero di sedi bancarie – la c.d. debancarizzazione (http://lnx.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2013/rapporto_2013_sintesi_stampa.pdf). Nel solo primo trimestre del 2013 il Sud ha perso circa 170 mila posti di lavoro rispetto all’anno precedente, con un andamento costantemente crescente del tasso di disoccupazione e delle emigrazioni, prevalentemente queste ultime di individui giovani e con elevato livello di istruzione.

Si può ragionevolmente ritenere che questo “bollettino di guerra” dipenda dal deterioramento del capitale sociale nel Mezzogiorno? Ragionevolmente no, soprattutto in considerazione del fatto che non si capirebbe per quale ragione la propensione al rispetto delle norme si è così repentinamente modificata negli ultimi anni, e perché poi modificandosi abbia così significativamente agito sul contesto macroeconomico.

Come documentato dalla Corte dei conti, la tassazione nel Mezzogiorno è più alta di quella del Centro-Nord (http://www.huffingtonpost.it/2014/03/06/corte-conti-tasse-enti-locali_n_4910250.html#). La spesa pubblica pro-capite è, anch’essa, più bassa nel Mezzogiorno rispetto alle altre aree del Paese. Si osservi, incidentalmente, che – contrariamente a uno dei tanti luoghi comuni sul Sud – il numero di occupati nel settore pubblico è maggiore nelle regioni settentrionali rispetto a quelle meridionali (in particolare, su fonte Ragioneria Generale dello Stato, si registra che la Regione con il massimo numero di dipendenti pubblici è la Lombardia). Ciò è imputabile alle politiche di austerità imposte dalla commissione europea e pienamente recepite dai Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni. L’imposizione del vincolo del 3% del rapporto deficit/PIL ha prodotto e continua a produrre, a cascata, questi esiti. Viene ridotta la spesa pubblica e viene aumentata l’imposizione fiscale, al fine di generare avanzi primari di entità tale da rispettarlo. Gli Enti locali, disponendo di minori risorse pubbliche, non possono far altro se non aumentare la tassazione, agendo, in particolare, sulle addizionali IRPEF. Il combinato di minore spesa pubblica e maggiore tassazione riduce la domanda aggregata interna e, a seguire, riduce il tasso di occupazione, i salari, il tasso di crescita e, come ampiamente dimostrato, accresce il rapporto debito pubblico/PIL.

Il punto qui rilevante è che queste misure non sono attuate in modo uniforme sul territorio nazionale. Perché ciò avviene (ormai sistematicamente) può essere oggetto di sola congettura, dal momento che non sono disponibili motivazioni ufficiali che spieghino la ratio di una diseguale distribuzione della spesa pubblica e dell’onere fiscale su scala territoriale.

Si può partire da una constatazione. Il Mezzogiorno non è un mercato di sbocco rilevante per le imprese del Nord; il Mezzogiorno è, piuttosto, un’area dalla quale queste ultime traggono forza-lavoro qualificata e beni intermedi, prevalentemente prodotti dall’economia sommersa. Su fonte ISTAT, si stima che le dimensioni dell’economia sommersa nel Mezzogiorno si aggirano intorno al 44% del PIL, a fronte di una media europea del 22.1%, di una media nazionale del 27% e del solo 16.5% in Lombardia. Localizzando parti del processo produttivo che richiedono l’uso di forza-lavoro poco qualificata in aree nelle quali i salari sono bassi, le imprese collocate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico riescono a ottenere un aumento dei profitti attraverso un duplice canale: mediante la compressione dei costi, e, al tempo stesso, attraverso l’attrazione di forza-lavoro altamente qualificata. In tal senso, si può considerare il sottosviluppo meridionale pienamente funzionale alla crescita delle aree più sviluppate del Paese.

E’ bene chiarire che queste politiche non rispondono né a intenti “punitivi” né, come viene detto, alla ratio per la quale è solo rendendo scarse le risorse che si incentivano gli amministratori degli enti locali meridionali a farne un uso efficiente. Queste misure non fanno altro che assecondare i meccanismi di “causazione cumulativa”[1] che un’economia di mercato genera spontaneamente. Si tratta di meccanismi per i quali, una volta determinatasi un’agglomerazione di imprese in una data area, quell’area fa registrare tassi di crescita sistematicamente più alti delle “periferie” a ragione del fatto che le imprese lì operanti possono sfruttare economie di network ed economie di scala. E, poiché la loro crescita è anche crescita del loro potere economico e politico, è del tutto evidente che esse possono condizionare le scelte di politica economica molto più di quanto possano farlo le imprese localizzare in aree periferiche. In più, è proprio in condizioni di scarsità delle risorse (derivante dalle politiche di austerità messe in atto) che i conflitti sulla distribuzione delle stesse si accentuano, e con essi si accentuano pressoché inevitabilmente i divari regionali.

NOTE

[1] V. Gunnar Myrdal (1957). Economic Theory and Underdeveloped Regions. London: London: General Duckworth & Co.

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Disoccupazione giovanile: le antiche terapie del governo Renzi

[in “MicroMega” online del 17 aprile 2014]

«Mentre fa la guardia alla porta (della miniera), il ragazzo non potrebbe leggere se avesse un lume?». «In primo luogo, dovrebbe comprarsi le candele. Ma inoltre non gli sarebbe permesso. Sta là per fare attenzione al suo lavoro, ha un dovere da compiere. Non ho mai visto un ragazzo leggere nel pozzo»”; “«Perché non mandare i bambini a scuole serali?». «Nella maggior parte dei distretti carboniferi non ne esistono. Ma la cosa principale è che i bambini sono così esausti per il lungo sovraccarico di lavoro, che gli occhi si chiudono dalla stanchezza». «Dunque, voi siete contro l’educazione?». «Niente affatto»”. Report from the Selected Committee on Mines, 23 luglio 1866.

Circa il 23% della forza-lavoro rientra nella categoria dei NEET: non studia né lavora né segue percorsi formativi. Il tasso di disoccupazione giovanile, concentrato soprattutto nel Mezzogiorno, si è attestato, in quell’area, al 31% per i diplomati e 49% per i laureati, percentuali di gran lunga superiori a quelle registrate nel Centro-Nord. La terapia proposta dal Governo Renzi, sulla quale sembra vi sia un accordo pressoché generalizzato, consiste nell’incentivare i contratti di apprendistato. I contratti di apprendistato sono rivolti ai giovani tra i 15 e i 29 anni e contengono obblighi formativi. Il datore di lavoro, oltre a versare un corrispettivo per l’attività svolta, è tenuto a formare l’apprendista attraverso l’insegnamento di competenze tecnico-professionali. Si osservi che questa terapia non fa altro che riproporre le “raccomandazioni” della Commissione Europea e non fa altro che riproporre le diagnosi e le ricette dei precedenti Governi. Dunque, nulla di nuovo se non la riproposizone delle c.d. politiche attive del lavoro la cui realizzazione non ha fin qui portato nessun beneficio. Non essendoci alcuna novità nelle politiche per l’occupazione giovanile, non si capisce perché ci si aspetti che questa sia destinata ad aumentare, non essendo aumentata (anzi essendosi ulteriormente ridotta) nel corso degli ultimi anni, in una condizione macroeconomica sostanzialmente immutata e in un contesto politico anch’esso sostanzialmente immutato. Peraltro, le assunzioni con contratti di apprendistato si sono significativamente ridotte. A metterlo in evidenza è il XIV Rapporto di monitoraggio dell’ISFOL. Si registra che, al  2012, il numero medio annuo dei rapporti di lavoro in apprendistato si è ridotto del 4,6% rispetto all’anno precedente, e che ciò si è verificato prevalentemente nel Centro-Nord. La quota di apprendisti sul totale dei giovani occupati (nella fascia d’età 15-29) si attesta, nel 2012, al 13,9%, a fronte del 14,1% del 2011. Le trasformazioni in contratti a tempo indeterminato riguardano poco più di 161 mila lavoratori, con una riduzione del 10,8% rispetto all’anno precedente. Dunque, l’incentivazione dei contratti di apprendistato non accresce l’occupazione giovanile.

Le politiche attive del lavoro –  di cui l’alternanza scuola-lavoro è parte integrante – sono basate sulla convinzione che sia sufficiente rendere più facilmente “occupabili” i lavoratori per generare maggiore occupazione. Il che presuppone che la disoccupazione esiste perché esiste un mismatch fra la tipologia della domanda di lavoro espressa dalle imprese e la qualità dell’offerta di lavoro espressa dai lavoratori.  Ed è solo su quest’ultima variabile che occorre intervenire. Coerentemente con questa impostazione, poiché, in Italia, la gran parte delle imprese esprime una domanda di lavoro rivolta a individui poco scolarizzati, occorre depotenziare il sistema formativo. Ma, così facendo, si ottengono almeno due risultati contraddittori rispetto all’obiettivo che ufficialmente si intende perseguire.

1) In una condizione, come quella attuale, nella quale le diseguaglianze distributive sono in continua crescita, le politiche attive del lavoro accentuano il dualismo del mercato del lavoro italiano. Si osservi che, contro la visione dominante, il vero dualismo nel mercato del lavoro vede contrapposti non gli iperprotetti e i precari, ma gli individui provenienti da famiglie con alto e basso reddito. L’accentuazione del dualismo deriva da questo meccanismo. I risparmi delle famiglie italiane con alti redditi restano relativamente elevati e poiché il bacino degli inattivi è formato in larga misura da giovani con elevato titolo di studio, ne deriva che offerte di posti di lavoro non coerenti con il titolo di studio conseguito vengano rifiutate. Ed è un comportamento pienamente razionale, al quale non ha senso dare un giudizio morale di segno negativo (i giovani choosy), e che soprattutto dà luogo a una spirale viziosa così riassumibile: quanto più si dequalifica la domanda di lavoro, tanto più aumentano gli inattivi. Inoltre,poiché gli inattivi traggono reddito dai risparmi delle famiglie d’origine (il che implica riduzione dei consumi rispetto a una condizione nella quale questi individui lavorino), tanto più si dequalifica il lavoro tanto più si riducono i consumi e – a parità di investimenti – domanda aggregata e occupazione. In altri termini, le politiche attive del lavoro non solo non accrescono l’occupazione giovanile, ma disincentivano l’accumulazione di capitale umano e contribuiscono ad accentuare la segmentazione del mercato del lavoro: da un lato, i figli di famiglie con alto reddito e con titoli di studio elevati, che in assenza di domanda di lavoro coerente con le competenze acquisite, restano inattivi (o emigrano) e, dall’altro, i figli di famiglie con basso reddito e basso titolo di studio, che vedono ulteriormente ridotta la loro retribuzione, in una condizione di bad jobs (http://keynesblog.com/2013/09/12/disoccupazione-giovanile-diseguaglianze-distributive-e-meritocrazia/).

2) A ciò si aggiunge il fatto che i programmi di apprendistato riducono il potere contrattuale dei lavoratori. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che, in quanto disincentivano la scolarizzazione, garantiscono alle imprese la disponibilità di manodopera facilmente ‘disciplinabile’. Individui in possesso di un elevato titolo di studio, per contro, domandano, di norma, salari più elevati, a ragione del fatto che hanno sostenuto costi maggiori (in termini di moneta e di tempo) rispetto a individui con più basso titolo di studio, e anche a ragione del fatto che elevati livelli di istruzione si associano a maggiore consapevolezza dei propri diritti. Ciò a dire che un’istruzione diffusa accresce il potere contrattuale dei lavoratori e che, dunque, potrebbe attivare un circolo virtuoso di aumento dei salari – aumento dei consumi e della domanda aggregata – aumento della produttività[1].

La strada che si è intrapresa è l’esatto opposto. Depotenziare il sistema formativo (spingendosi, di fatto, a violare l’obbligo scolastico fino ai 16 anni) e, contestualmente, incentivare la crescita della domanda e dell’offerta di lavoro poco qualificato. Anche in questo caso, il Governo Renzi non propone niente di nuovo: semmai ripropone misure di deflazione salariale che, come ampiamente dimostrato dalla storia recente dell’economia italiana, generano esclusivamente recessione.

NOTE

[1] Si tratta di un meccanismo noto come “legge di Kaldor-Verdoon” (di norma riferito al nesso fra crescita dell’ouput e crescita della produttività, una cui variante fa riferimento al nesso fra crescita della domanda aggregata e crescita della produttività, a ragione dell’operare di rendimenti crescenti). V. Kaldor, N. (1966). Causes of the Slow Growth in the United Kingdom. Cambridge: Cambridge University Press; Verdoorn, J. P. (1949), “On the Factors Determining the Growth of Labor Productivity,” in L. Pasinetti (ed.), Italian Economic Papers, Vol. II, Oxford: Oxford University Press, 1993. Per un’applicazione al caso italiano si rinvia a S.Perri, Bassa domanda e declino italiano, “EconomiaePolitica”, 4 aprile 2013.

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Dalla restrizione del credito al pareggio di bilancio

[“MicroMega” online dell’8 maggio 2014]

E’ opinione diffusa che la restrizione del credito in atto dipenda dalla sottocapitalizzazione del sistema bancario e che, conseguentemente, il rimedio consista nel ricapitalizzarle, incentivandole ad adottare modalità di gestione più efficienti.

Una banca si considera sottocapitalizzata sulla base di parametri costruiti dal comitato di Basilea (http://www.bis.org/publ/bcbs189_it.pdf). Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria è un’organizzazione internazionale nata nel 1974, formata dai governatori delle banche centrali del G10, operante sotto la supervisione della Banca dei regolamenti internazionali. Si tratta di parametri stringenti, che di fatto impongono alle banche di accrescere le riserve e ridurre le esposizioni a più alto rischio.

La ratio che è alla base di queste norme è nella convinzione che, solo così facendo, è possibile evitare fallimenti. Con riferimento al caso italiano, su fonte Banca d’Italia (2013 e 2014), si rileva che, a fine dicembre 2013, le sofferenze bancarie si aggirano attorno a circa 155,5 miliardi (il 15.5% dei crediti complessivi) a fronte dei 77 miliardi circa della seconda metà del 2010. Se si ritiene che ciò dipenda da eccessiva propensione al rischio delle banche o, più in generale, da una gestione inefficiente, allora la regolamentazione si rende effettivamente necessaria[1]. E tuttavia, si può rilevare che si tratta di una tesi smentita dall’evidenza empirica, che attesta l’andamento procicliclo dell’offerta di credito[2]. In altri termini, l’offerta di credito bancario cresce in fasi espansive e si riduce in fasi recessive, in modo del tutto indipendente dalle modalità di gestione degli Istituti di credito. In tal senso, il fenomeno rinvia evidentemente a fattori macroeconomici. In particolare, si può rilevare che il deterioramento dei bilanci bancari dipende dalla caduta dei profitti delle imprese, a sua volta imputabile alla caduta della domanda aggregata. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi la domanda, si riducono i mercati di sbocco interni e, conseguentemente, si riducono i ricavi di vendita e i profitti. Le politiche di austerità costituiscono parte integrante del problema, dal momento che l’aumento della pressione fiscale e la compressione della spesa pubblica riducono ulteriormente la domanda interna, attestando che – contrariamente all’opinione dominante – sussiste una relazione diretta fra spesa pubblica e profitti.

Il nesso esistente fra riduzione della domanda e riduzione del credito è maggiormente accentuato in Italia in considerazione di due caratteristiche della nostra economia.

1) Le nostre imprese producono prevalentemente per mercati locali e, dunque, una caduta della domanda interna ha immediati effetti negativi sui loro profitti e, conseguentemente, sulla loro solvibilità (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/).

2) Le imprese italiane sono, nella gran parte dei casi, imprese di piccole dimensioni, che non hanno accesso ai mercati finanziari e che, dunque, possono finanziare i loro investimenti o tramite il canale bancario o attraverso i loro fondi interni. E’ evidente che una prolungata fase recessiva comporta caduta dei profitti e, per conseguenza, minori possibilità di autofinanziamento, rendendo le imprese sempre più dipendenti dal sistema bancario.

In tal senso, la restrizione del credito opera una ridistribuzione delle risorse finanziarie fra imprese indipendentemente dalla loro efficienza. Ciò per due ragioni.

In primo luogo, una fase di intensa e prolungata recessione si associa a maggiore incertezza, e maggiore incertezza si associa, a sua volta, a maggiore diffusione di comportamenti consuetudinari[3]. Per quanto attiene ai rapporti banche-imprese, ciò spinge ad adottare modelli di relationship banking, ovvero a privilegiare – nelle scelte di allocazione del credito – imprese con le quali le banche hanno già strutturato reti relazionali. Ne deriva un mercato del credito duale, nel quale coesistono imprese con rapporti consolidati con il sistema bancario che ottengono credito e potenziali nuove imprese che, proprio in quanto nuove, risultano discriminate. Il relationship banking è un fattore di freno alla crescita, sia perché non necessariamente le imprese finanziate sono più efficienti di quelle discriminate, sia perché riduce la numerosità di imprese.

In secondo luogo, le imprese maggiormente penalizzate sono, con ogni evidenza, le imprese di piccole dimensioni che non hanno accesso ai mercati finanziari. Le imprese di più grandi dimensioni possono agevolmente reperire risorse senza passare per il canale bancario. Perché ciò sia per loro possibile, ovvero perché riescano a vendere titoli, deve ridursi l’offerta di titoli di Stato, perché ciò rende minimo l’impatto di effetti di “spiazzamento”. E, dunque, deve accadere che vengano ridotti i debiti sovrani. Nella migliore delle ipotesi (per queste imprese), deve accadere che i bilanci pubblici siano in pareggio. Letta la questione in questi termini, risulta che il pareggio di bilancio è funzionale all’acquisizione di risorse sui mercati finanziari, quantomeno da parte delle imprese di più grandi dimensioni.

Imporre requisiti più stringenti all’attività bancaria può facilmente tradursi nell’accentuazione della restrizione del credito, se non altro perché le banche avranno minori possibilità di finanziare imprese e famiglie[4]. D’altra parte, se l’obiettivo è evitare fallimenti bancari, questo obiettivo può essere più agevolmente raggiunto attraverso interventi di nazionalizzazione (http://www.nytimes.com/2009/02/23/opinion/23krugman.html?_r=0). Interventi che, peraltro, troverebbero la loro ratio come possibile implicazione della visione dominante: se si ritiene che la gestione privata delle banche è inefficiente, dovrebbe discenderne che può essere più efficiente la loro gestione pubblica.

NOTE

[1] V. G.Pilluso (2014), Riscrivere le regole in Europa, rivedere il modello delle banche in Italia, “Economia Italiana”, 1, pp.21-28.

[2] V. Becker, B. and Ivashina, V. (2011). Cyclicality of credit supply, Harvard Busines School, working paper 10-17, August.

[3] V., fra gli altri, G.M.Hodgson (1988). Economics and Institutions. Oxford: Polity Press.

[4] V. B.Vallageas (2013). Basel III and the strenghening of capital requirement: The obstinancy in mistake or whi ‘it’ will happen again, in L-P-Rochon and M.Seccareccia (eds.). Monetary economies of production. Cheletenham: Elgar; E.Screpanti (2011). Globalization and the great crisis, in E.Brancaccio and G.Fontana (eds.). The global economic crisis, London: Routeldge.

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Che cosa accadrebbe se abbandonassimo l’euro

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 maggio 2014]

Uno dei principali argomenti utilizzati dai sostenitori della fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea è che, così facendo, si recupererebbe sovranità monetaria e si riprenderebbe un percorso di crescita guidato dalle esportazioni mediante la svalutazione del tasso di cambio. Si aggiunge che l’abbandono dell’euro si assocerebbe all’attuazione di politiche fiscali espansive, ovvero all’abbandono delle misure di austerità, consentendo misure di ridistribuzione del reddito. Nel primo caso, è stato fatto osservare che la svalutazione del tasso di cambio ha effetti inflazionistici, derivanti dall’aumento dei prezzi dei beni importati, con conseguente riduzione dei salari reali, così che l’abbandono dell’euro potrebbe avere effetti di segno negativo sulla distribuzione del reddito, a meno di non (re)introdurre meccanismi di indicizzazione dei salari nominali ai prezzi.

In merito al secondo argomento, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un duplice equivoco. Il primo: la recessione italiana dipende dai vincoli imposti dall’Unione Monetaria Europea e dalle politiche di austerità imposte dalla Germania. Secondo: nel caso di uscita unilaterale dell’Italia dall’UME, vi sarebbe spazio per l’attuazione di politiche fiscali espansive.

Il primo equivoco nasce dal fatto che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra economia. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. E, d’altra parte, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno accettato i vincoli europei senza minima opposizione, talvolta con favore: l’esperienza del Governo Monti, in tal senso, è emblematica. Il secondo equivoco nasce da un’interpretazione – fuorviante – del funzionamento della politica economica basata su (presunti) automatismi, per la quale l’”exit” porterebbe pressoché automaticamente a una radicale revisione delle politiche economiche in Italia. E’ ovvio, per contro, che nulla assicura che ciò accada, peraltro in uno scenario del tutto imprevedibile, e cioè che nulla assicura che l’abbandono della moneta unica si associ a scelte di politica economica che vadano in direzione contraria a quelle ora dominanti.

Si può anche considerare che l’abbandono dell’euro da parte italiana non avrebbe effetti sull’economia “reale”, lasciando inalterata una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale. E, d’altra parte, il capitale tedesco non ha molto da perdere dal ritorno al marco, anche nella peggiore delle ipotesi, ovvero anche se gli altri Paesi europei dovessero mettere in atto misure protezionistiche. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: la quota delle esportazioni tedesche intra-UE si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, e considerando gli elevati margini di incertezza che aleggiano sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea, si può ragionevolmente ritenere che la tenuta dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Se si accetta questa analisi, occorre semmai riformare radicalmente l’assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea e gli orientamenti di politica economica dominanti negli ultimi anni.

Con ogni evidenza, gli scenari economici e politici che si produrrebbero in caso di un ritorno alla Lira sono del tutto imprevedibili, e lo studio di ciò che è accaduto in casi passati di break-up di unioni monetarie può aiutare, ma ovviamente non è dirimente, se non altro perché – soprattutto perché i casi di unioni monetarie sono stati molto rari e con proprie specificità – è pressoché impossibile rinvenire regolarità storiche. Neppure aiuta calcolare i costi associati alla permanenza dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea, giacché si rischia di identificare l’adozione della moneta comune con l’attuazione di linee di politica economica che non discendono in quanto tali dall’unificazione monetaria.

E, tuttavia, è possibile proporre alcune congetture sugli eventuali effetti redistributivi derivanti da questa scelta. Partiamo da un dato. I tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, a fronte dei circa 150 punti base della prima metà del 2014. Anche i sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro riconoscono che il ritorno alla Lira genererebbe un’impennata dei tassi di interesse. Il che – a parità di altre condizioni – accrescerebbe il debito pubblico, avendo come conseguenza, nell’impossibilità di monetizzarlo (a meno di non immaginare un nuovo “matrimonio” fra Tesoro e Banca d’Italia), un ulteriore aumento della pressione fiscale. E poiché (anche in questo caso) non vi è alcun automatismo che stabilisca che l’uscita dall’euro segni un plebiscito per forze politiche con un indirizzo di policy fortemente redistributivo, non vi è alcun automatismo che ci consente di dedurre che l’accresciuto carico fiscale vada a gravare sulle fasce di reddito più alte. Potrebbe, per contro, accadere che l’abbandono dell’euro peggiori ulteriormente la distribuzione del reddito.

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L’euro e l’illusione del ritorno alle piccole patrie monetarie

[“MicroMega” online del 22 maggio 2014]

Una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione verrà realizzata la parola nazionalismo avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale municipalismo (Antonio Gramsci, 1931)

I principali argomenti utilizzati dai sostenitori della fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea sono schematicamente riconducibili a questi: il recupero della sovranità monetaria consentirebbe un percorso di crescita guidato dalle esportazioni, attuato mediante il tradizionale strumento della la svalutazione del tasso di cambio; l’abbandono dell’euro si assocerebbe all’attuazione di politiche fiscali espansive consentendo misure di ridistribuzione del reddito, attualmente impossibili per i vincoli imposti dall’austerità. Si tratta di argomenti che reggono implicitamente su due ipotesi. In primo luogo, occorre assumere che la sequenza di eventi che si immagina sia, per così dire, automatica, ovvero che l’abbandono della moneta unica implichi l’attuazione di politiche fiscali espansive. In secondo luogo, occorre ipotizzare che l’unione monetaria in quanto tale implichi, per necessità logica, l’attuazione di politiche di austerità[1].

In linea generale, si può osservare che il ritorno all’Europa delle piccole patrie monetarie è una opzione del tutto irrealistica. In Europa la piena sovranità monetaria nazionale è un concetto vago fin dagli anni Cinquanta, quando con lo sviluppo del mercato dell’eurodollaro si era creato un mercato monetario parallelo a quello ufficiale svincolato da qualsiasi controllo politico. E per forza di cose lo sarebbe ancora di più adesso[2]. Riguardo alla svalutazione del tasso di cambio è lecito dubitare di fronte all’esperienza storica, soprattutto del nostro paese, che possa essere uno strumento efficace, in un regime di cambi flessibili generalizzato come quello che seguirebbe la disintegrazione dell’euro. Innanzitutto perché i vantaggi sarebbero subito annullati da eguali reazioni di concorrenti che imiterebbero la manovra di svalutazione,  in secondo luogo perché la sola competitività di prezzo potrebbe avere effetti assai modesti sulla nostra bilancia commerciale (http://gennaro.zezza.it/?lang=it), e infine per gli effetti inflazionistici, derivanti dall’aumento dei prezzi dei beni importati, con conseguente riduzione dei salari reali, così che l’abbandono dell’euro potrebbe avere effetti di segno negativo sulla distribuzione del reddito, a meno di non (re)introdurre meccanismi di indicizzazione dei salari nominali ai prezzi. In più, la svalutazione non ha (come non ha avuto, negli anni nei quali è stata realizzata) effetti uniformi su scala nazionale, dal momento che reca vantaggi alle aree nelle quali sono localizzate le imprese esportatrici, potendo accentuare i divari regionali. E ancora, e soprattutto, la politica delle svalutazioni competitive consente (e ha consentito) alle imprese italiane di competere riducendo i costi, disincentivando, per questa via, le innovazioni[3].

In merito alla possibilità di attuare politiche fiscali espansive in regime di piena sovranità monetaria, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un duplice equivoco. Il primo: la recessione italiana dipende dai vincoli imposti dall’Unione Monetaria Europea e dalle politiche di austerità imposte dalla Germania. Secondo: nel caso di uscita unilaterale dell’Italia dall’UME, vi sarebbero le condizioni politiche  per l’attuazione di queste politiche fiscali espansive.

Il primo equivoco nasce dal fatto che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra economia[4]. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. E, d’altra parte, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno accettato i vincoli europei senza minima opposizione, talvolta con favore: l’esperienza del Governo Monti, in tal senso, è emblematica. Il secondo equivoco nasce da un’interpretazione – fuorviante – del funzionamento della politica economica basata su (presunti) automatismi, per la quale l’”exit” porterebbe pressoché automaticamente a una radicale revisione delle politiche economiche in Italia. E’ ovvio, per contro, che nulla assicura che ciò accada, peraltro in uno scenario del tutto imprevedibile, e cioè che nulla assicura che l’abbandono della moneta unica si associ a scelte di politica economica che vadano in direzione contraria a quelle ora dominanti. O che – come auspicato da molti “no-euro” – che vadano nella direzione di politiche “di sinistra”. E’ sufficiente verificare la collocazione politica dei movimenti anti-euro, come il nuovo partito tedesco di Alternative für Deutschland, sostenitore di politiche neoliberiste, o l’anti-europeismo estremo delle forze di destra più eversive come il Front National, la Lega Nord e  Alba Dorata.

D’altra parte, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro[5].

Con ogni evidenza, gli scenari economici e politici che si produrrebbero in caso di un ritorno alla Lira sono del tutto imprevedibili, e lo studio di ciò che è accaduto in casi passati di break-up di unioni monetarie può aiutare, ma ovviamente non è dirimente, se non altro perché i casi di unioni monetarie sono stati molto rari e con proprie specificità, ed è dunque pressoché impossibile rinvenire regolarità storiche[6]. Neppure aiuta calcolare i costi associati alla permanenza dell’Italia nell’Unione Monetaria Europea, giacché questa operazione risulta legittima solo se di identifica l’adozione della moneta comune con l’attuazione di politiche di austerità: il che, tuttavia, va dimostrato[7].

E, tuttavia, è possibile proporre alcune congetture sugli eventuali effetti redistributivi derivanti da questa scelta. Partiamo da un dato. I tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, a fronte dei circa 150 punti base della prima metà del 2014. Anche i sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro (http://www.correttainformazione.it/economia/italia-uscire-euro/) riconoscono che il ritorno alla Lira genererebbe un forte aumento dei tassi di interesse. Il che – a parità di altre condizioni – accrescerebbe il debito pubblico, avendo come conseguenza, nell’impossibilità di monetizzarlo (a meno di non immaginare un nuovo “matrimonio” fra Tesoro e Banca d’Italia), un ulteriore aumento della pressione fiscale. E poiché (anche in questo caso) non vi è alcun automatismo che stabilisca che l’uscita dall’euro segni un plebiscito per forze politiche con un indirizzo di policy fortemente redistributivo, non vi è alcun automatismo che ci consente di dedurre che l’accresciuto carico fiscale vada a gravare sulle fasce di reddito più alte. Potrebbe, per contro, accadere il contrario, ovvero che l’abbandono dell’euro peggiori ulteriormente la distribuzione del reddito.

NOTE

[1] Si tratta anche di argomenti che fanno riferimento alla “crisi dell’UME” ignorando del tutto il fatto che questa “crisi” si inscrive nell’ambito di una più generale trasformazione capitalistica, sinteticamente riferibile ai processi di ‘globalizzazione’ e di ‘finanziarizzazione’. Sul tema, si rinvia a R. Bellofiore, ‘Two or three things I know about her’: Europe in the global crisis and heterodox economics, “Cambridge Journal of Economics”, 2013, vol. 37, n. 3, pp. 497-512.

[2] Per gli amanti delle analogie storiche, si può notare che, nella prospettiva dell’abbandono dell’euro, il destino dell’Unione Europea potrebbe essere  molto simile a quello che caratterizzò la vicenda del Sacro Romano Impero: una entità universalistica retta da una ristretta élite dinastica a cui si contrapponeva una miriade di potentati locali chiusi a difesa dei propri interessi. Universalismo e particolarismo convivevano quindi nello stesso corpo istituzionale. In tal senso, la posta in gioco è sostanzialmente questa: evitare che l’Europa diventi il nuovo Sacro Romano Impero e, nello stesso tempo, evitare che l’Europa di disintegri nella ripresa dei nazionalismi.

[3] V. A.Graziani, L’economia italiana dal ’45 a oggi, Il Mulino, Bologna, 2000.

[4] Come scriveva Augusto Graziani: “Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale”. A.Graziani, La moneta al governo, “La Rivista del Manifesto”, luglio-agosto 2002.

[5] Va richiamata, a riguardo, la ben nota tesi di George Soros, per la quale l’Europa starebbe meglio se la Germania abbandonasse l’euro, e la Germania stessa ne trarrebbe notevoli benefici.

[6] Peraltro, come è stato rilevato: “Gli esempi storici ci permettono di concludere che l’integrazione monetaria, che comporta totale perdita di sovranità monetaria, una volta stabilita difficilmente viene messa in discussione da singoli stati aderenti, in quanto il mutamento è percepito come un salto nel buio, i cui costi sono considerati estremamente superiori ai benefici. La psicologia collettiva nei confronti delle questioni monetarie è dominata dall’inerzia”. R. Patalano, Una ‘escape clause’ per la zona euro, Micromega on-line, 8.12.2013.

[7] Sui nessi esistenti fra i vincoli derivanti dall’adozione della moneta unica (in primis, l’obiettivo della stabilità dei prezzi e la conseguente “scarsità di moneta” esogenamente determinata) e gli orientamenti delle politiche fiscali si rinvia a A.Parguez, The expected failure of the European economic and monetary union, “Eastern Economic Journal”, vol.25, n.1., Winter 1999, pp.63-76.

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Alcune peculiarità della crisi dell’economia italiana

[in “MicroMega” online del 10 giugno 2014 col titolo Così muore l’economia italiana]

Che il declino economico italiano sia essenzialmente imputabile alla caduta della produttività è cosa nota da tempo, e sorprende che il Ministro Padoan se ne accorga solo ora o che lo renda noto solo ora, al Festival dell’Economia di Trento il 31 maggio scorso. La riduzione della produttività è imputabile a numerosi fattori, fra i quali, non da ultimo, la caduta della domanda aggregata che si è registrata, in Italia, almeno a partire dagli ultimi venti anni, aggravata dalle politiche di austerità (http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/bassa-domanda-e-declino-italiano/#.U5BD73J_vvE), dalla rilevante riduzione della quota dei salari sul Pil e dalla altrettanto rilevante contrazione della produzione industriale. La Fig.1 evidenzia che il tasso di crescita della produttività, dal 2001 al 2010, è stato, per l’Italia, sistematicamente inferiore a quello registrato in tutti gli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Data l’ampiezza del periodo considerato, il fenomeno può considerarsi strutturale, derivante da una dinamica di lungo periodo che ha generato la progressiva desertificazione industriale dell’economia italiana; dinamica che si è prodotta ben prima della crisi, e che ovviamente la crisi (e le politiche economiche messe in atto) ha contribuito ad amplificare. Confindustria rileva, a riguardo, che dal 2008 al 2013 la produzione industriale in Italia si è ridotta di circa il 25% (http://www.confindustria.it/indcong.nsf/0/8ad3391967a62bbfc1257b810031f02a/$FILE/Scenari%20industriali%20n.%204%20-%202013.pdf).

Il nesso che lega la dinamica della domanda a quella della produttività passa attraverso questi meccanismi.

1) Se aumenta la domanda, le imprese sono incentivate a produrre di più, dunque ad accrescere le loro dimensioni. L’aumento delle dimensioni d’impresa genera aumenti di produttività, per l’operare di economie di scala, ed è di norma associato a più alti salari (http://keynesblog.com/2014/06/03/piccole-imprese-una-scomoda-verita/). Vi è di più, dal momento che la dinamica della domanda aggregata ha anche effetti sulla produttività tramite variazioni della struttura demografica. Ciò a ragione del fatto che riduzioni di domanda di beni di consumo e di investimento si associano a riduzioni della domanda di lavoro (soprattutto a danno di individui giovani) e, per conseguenza, accentuano i flussi migratori (prevalentemente di giovani con elevati livelli di scolarizzazione), determinando una condizione di progressivo invecchiamento della popolazione. Una popolazione con età media elevata genera, con ogni evidenza, una forza-lavoro meno produttiva rispetto a una condizione nella quale è più bassa l’età media degli occupati[1].

2) La caduta della domanda incide anche sulla specializzazione produttiva. Nel caso italiano, essa si è associata all’intensificazione del processo di specializzazione produttiva dell’economia italiana in settori a bassa intensità tecnologica (oltre ad aver generato ondate di fallimenti d’impresa), tipicamente il made in Italy, l’agricoltura, il turismo. Si tratta di settori nei quali operano imprese con bassa propensione all’innovazione, che non occupano lavoratori con elevata dotazione di capitale umano. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni si sono, per così dire, limitati ad assecondare questo processo (ovvero a dequalificare la forza-lavoro), con una decurtazione di fondi alla ricerca scientifica di entità tale da mettere seriamente a rischio la tenuta del sistema formativo italiano. E poiché è innegabile che la ricerca scientifica è la necessaria pre-condizione per l’attivarsi di flussi di innovazione, non vi è da sorprendersi se – anche per questa via – le politiche economiche hanno significativamente contribuito alla progressiva desertificazione produttiva del Paese alla quale stiamo assistendo.

3) La caduta della domanda è anche all’origine della restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi i mercati di sbocco, si riducono i profitti e, per conseguenza, si riduce la solvibilità delle imprese, rendendo sempre meno conveniente per le banche finanziarle. Date le piccole dimensioni aziendali delle nostre imprese (soprattutto nel Mezzogiorno), risulta per loro sostanzialmente impossibile attingere risorse nei mercati finanziari. Il che comporta una contrazione dei fondi destinabili per investimenti e, a seguire, la riduzione degli investimenti – in quanto accresce l’obsolescenza degli impianti  – ha effetti negativi sulla dinamica della produttività.

4) La caduta della domanda aggregata agisce negativamente sulla dinamica della produttività anche a ragione del fatto che, accrescendo il tasso di disoccupazione, e riducendo conseguentemente il potere contrattuale dei lavoratori, incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (salari in primis), ovvero disincentiva le innovazioni[2].

Le opzioni di politica economica che derivano da queste considerazioni sono essenzialmente riconducibili a misure di stimolo della domanda, soprattutto per gli effetti che questi producono dal lato dell’offerta. Per contro, la Commissione Europea ha recentemente (ri)proposto una linea di politica fiscale di segno esattamente opposto, ovvero: per accrescere l’occupazione occorre “lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle imposte ricorrenti sui beni immobili, sui consumi e sull’ambiente, in modo da rafforzare il rispetto dell’obbligo tributario e combattere l’evasione fiscale”. Si tratta, a ben vedere, non solo della reiterazione di proposte che si sono rivelate palesemente inefficaci (se non del tutto controproducenti), assumendo, contro ogni evidenza, che sia sufficiente la detassazione del lavoro per spingere gli imprenditori ad assumere; ma si tratta anche di provvedimenti che accrescono le diseguaglianze distributive, dal momento che l’aumento dell’imposizione indiretta grava con uguale incidenza su percettori di redditi alti e bassi[3].. Ed è anche poco difendibile l’idea che solo rendendo sempre più regressiva la tassazione che si rende possibile un aumento delle entrate fiscali, dal momento che questa misura, accrescendo le diseguaglianze distributive, deprime ulteriormente i salari reali, potendo incidere negativamente sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla stessa base imponibile.

Ma soprattutto, la detassazione del lavoro pone semmai le imprese nella favorevole condizione di competere tramite riduzione dei costi e, se il problema italiano è il problema della caduta della produttività, questa linea di politica economica non può che accentuarlo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-presunte-virtu-salvifiche-della-riduzione-del-cuneo-fiscale/?printpage=undefined)[4].

NOTE

[1] A ciò si aggiunge che la riforma pensionistica voluta dal Governo Monti ha significativamente contribuito ad accrescere l’età media dei lavoratori, con effetti di segno negativo sull’occupazione giovanile (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Non-e-un-paese-per-giovani-24791).

[2] Come osserva Alain Parguez, “a full employment policy automatically pushes for increased investment and therefore for the embodiment of more and more technology-innovations in the stock of equipment. It is tantamount to the proposition that a full employment policy sustains the growth of productivity in the long run” (A.Parguez, Money creation, employment and economic stability: The monetary theory of unemployment and inflation, “Panoecnomicus, 1, 2008, p.50). E’ rilevante, su questo aspetto, sgombrare il campo da un equivoco. L’indicazione prevalente, in materia di politiche del lavoro, suggerisce di commisurare i salari all’andamento della produttività del lavoro, data la duplice tacita assunzione secondo la quale i) la produttività del singolo lavoratore è quantificabile, ovvero è isolabile il suo specifico contributo alla produzione ii) le variazioni della produttività del lavoro sono interamente imputabili all’intensità lavorativa. Il punto qui in discussione è che, anche accettando l’ipotesi che la produttività del singolo lavoratore sia misurabile, il suo salario reale non può dipendere dal suo impegno individuale, giacché dipende, in ultima analisi, dalle decisioni autonome delle imprese in merito alla scala e alla composizione merceologica della produzione (ovvero al cosa e al quanto produrre). E’ del tutto evidente che una riduzione della produzione di beni di consumo riduce i salari reali, indipendentemente dal contributo del singolo lavoratore alla produzione. Cfr. A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.

[3] Si tratta anche di un un’impostazione tecnicamente discutibile. E’ infatti difficilmente difendibile l’idea che si possano raggiungere due obiettivi (accrescere l’occupazione e ridurre l’evasione fiscale) con un solo strumento (l’aumento dell’imposizione indiretta).

[4] Per una trattazione approfondita di questi aspetti si rinvia a P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.

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Una nota sulla restrizione del credito

[in dialetticaefilosofia.it del 21 giugno 2014]

1 – La Banca Centrale Europea ha portato i tassi di interesse a valori negativi, con l’obiettivo esplicito di contrastare la restrizione del credito in atto. Nelle intenzioni di Draghi, portare sotto zero i tassi sui depositi dovrebbe incentivare le banche a ridurre i loro depositi presso la BCE e a destinare maggiori risorse per il finanziamento della produzione e degli investimenti. Va chiarito che non è affatto certo che le banche reagiscano nel modo previsto da Draghi, dal momento che, come è stato rilevato (http://keynesblog.com/2013/12/04/i-tassi-sotto-zero-congelano-la-deflazione/), tassi di interesse negativi sui depositi che le banche detengono presso la BCE equivalgono di fatto a una tassazione degli utili bancari, a fronte della quale ci si può attendere che le banche reagiscano aumentando i tassi di interesse sui prestiti a imprese e famiglie: l’esatto contrario di quanto prospettato dalla Banca Centrale. Contestualmente, Mario Draghi annuncia il varo del nuovo TLTRO (Targeted Long Term Refinancing Operation) che prevede prestiti alle banche per un ammontare iniziale di 400 miliardi di euro.

2 – Nel suo complesso, e nelle intenzioni dichiarate del Governatore della BCE, si tratta di una consistente immissione di liquidità nel settore bancario, con effetti di segno ambiguo sull’espansione del credito. Vista in quest’ottica, questa manovra, nelle condizioni date e con i poteri dati alla BCE, appare la sola possibile per creare le condizioni per l’espansione del credito.

E’ opinione diffusa che gli Istituti di credito non facciano altro che raccogliere risparmi ed erogare prestiti a imprese e famiglie. Si tratta di una tesi errata sul piano logico e fattuale: il sistema bancario nel suo complesso può creare moneta senza incontrare vincoli di scarsità, ovvero senza aver bisogno di una preventiva raccolta di depositi (http://keynesblog.com/2013/03/25/inflazione-e-moneta-4-la-teoria-della-moneta-endogena/). Ciò a ragione del fatto che, essendo la moneta una pura convenzione sociale (ovvero, si accetta un’unità monetaria solo in quanto si sa che verrà accettata da altri), il suo costo di produzione è prossimo allo zero; e ogni risorsa la cui produzione non comporta costi – ovvero non comporta l’impiego di lavoro – è producibile ad infinitum. La convinzione che le banche agiscano come pure intermediarie attiene semmai al piano normativo, ovvero a ciò che si ritiene dovrebbero fare[1]Ed è anche opinione diffusa che la restrizione del credito in atto dipenda dalla sottocapitalizzazione del sistema bancario e che, conseguentemente, il rimedio consista nel ricapitalizzarle, incentivandole ad adottare modalità di gestione più efficienti.

Una banca si considera sottocapitalizzata sulla base di parametri costruiti dal comitato di Basilea (http://www.bis.org/publ/bcbs189_it.pdf). Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria è un’organizzazione internazionale nata nel 1974, formata dai governatori delle banche centrali del G10, operante sotto la supervisione della Banca dei regolamenti internazionali. Si tratta di parametri stringenti, che di fatto impongono alle banche di accrescere le riserve e ridurre le esposizioni a più alto rischio. La ratio che è alla base di queste norme è nella convinzione che, solo così facendo, è possibile evitare fallimenti. Con riferimento al caso italiano, su fonte Banca d’Italia (2013 e 2014), si rileva che, a fine dicembre 2013, le sofferenze bancarie si aggirano attorno a circa 155,5 miliardi (il 15.5% dei crediti complessivi) a fronte dei 77 miliardi circa della seconda metà del 2010. E’ importante sottolineare che, come certificato dall’OCSE nel 2013, le banche italiane sono meno sottocapitalizzate della media OCSE.

Se si ritiene che ciò dipenda da eccessiva propensione al rischio delle banche o, più in generale, da una gestione inefficiente, allora la regolamentazione si rende effettivamente necessaria[2]. E tuttavia, si può rilevare che si tratta di una tesi smentita dall’evidenza empirica, che attesta l’andamento procicliclo dell’offerta di credito[3]. In altri termini, l’offerta di credito bancario cresce in fasi espansive e si riduce in fasi recessive, in modo del tutto indipendente dalle modalità di gestione degli Istituti di credito[4].

Una posizione alternativa – in larga misura riconducibile alla c.d. Modern Money Theory – lega la restrizione del credito, in Italia, alla perdita di sovranità monetaria conseguente all’adozione della moneta unica, secondo una sequenza logica che procede con questi passaggi. Un sistema di cambi fissi, in quanto rende impossibili le svalutazioni, impone di accrescere l’avanzo della bilancia commerciale esclusivamente tramite compressioni dei salari. Al tempo stesso, gli accordi europei rendono impossibile l’attuazione di politiche fiscali espansive, rendendo impossibile la monetizzazione del debito. Ne deriva una condizione per la quale inevitabilmente si genera recessione e, data la natura prociclica dell’offerta di credito, inevitabilmente si genera riduzione dell’offerta di credito bancario.

3 – Vi sono, tuttavia, buone ragioni per ritenere che la politica monetaria è sostanzialmente inefficace per far fronte alla caduta della domanda e al conseguente aumento del tasso di disoccupazione, e che né la tesi della sottocapitalizzazione bancaria né la tesi della rigidità del tasso di cambio e il divieto di monetizzazione del debito spiegano interamente il fenomeno[5]. Per quanto riguarda quest’ultima, occorre rilevare che: i) il divieto di monetizzazione del debito è vigente in Italia dal 1981 e non è dunque un’imposizione derivante esclusivamente dall’architettura istituzionale europea; ii) la c.d. crisi dell’eurozona (e la prolungata recessione italiana) dovrebbe essere inquadrata all’interno di una più generale ristrutturazione capitalistica, che ha – o ha avuto, in tempi recenti – il suo epicentro negli Stati Uniti[6]. Per quanto riguarda l’efficacia della politica monetaria, può essere sufficiente rilevare che una Banca Centrale non può agire sulle decisioni di finanziamento delle imprese.

Le decisioni delle banche di erogare credito dipendono essenzialmente dalla solvibilità dei debitori, siano essi imprese o famiglie. La solvibilità delle imprese dipende dai profitti realizzati (e da quelli attesi), così come la solvibilità delle famiglie dipende dal loro reddito corrente e atteso. In un contesto di elevata e crescente disoccupazione, la solvibilità di imprese e famiglie non può che ridursi. Ciò si verifica perché, per quanto riguarda le imprese nel loro complesso, un elevato tasso di disoccupazione, in quanto si associa a bassi salari e dunque a bassi consumi, implica bassi profitti monetari, che possono, a loro volta, implicare bassi profitti attesi. Il che non solo riduce la possibilità di rimborso dei debiti, ma ha anche l’effetto di disincentivare la domanda di finanziamenti. Per quanto riguarda le famiglie, è di palese evidenza che in condizioni di elevata (e crescente) disoccupazione e bassi salari (con prospettive di ulteriori riduzioni), è bassa sia l’erogazione credito al consumo da parte delle banche, sia la  domanda di finanziamenti da parte dei consumatori. In altri termini, la direzione di causalità ipotizzata da Draghi (maggiori finanziamenti alle banche – maggiore erogazione di credito – maggiori investimenti – minore disoccupazione) viene a essere ribaltata: è l’elevata disoccupazione a causare la restrizione del credito, in un circolo vizioso per il quale è poi la restrizione del credito a causare ulteriore crescita della disoccupazione.

Il problema è accentuato dall’interazione fra caduta della domanda aggregata e dinamica della produttività. In un contesto di crescente disoccupazione e, dunque, di calo dei consumi, riducendosi la produzione si riducono gli investimenti (e/o aumentano i fallimenti di imprese) e, per conseguenza, si riduce la dotazione di capitale. Il che implica i) riduzione della produttività, a seguito della crescente obsolescenza del capitale; ii) riduzione delle dimensioni aziendali. In quanto le banche tendono a erogare credito anche sulla base della congettura del “too big to fail”, si contrae, anche per questa via, l’offerta di credito. A ciò si può aggiungere il fatto che una fase di intensa e prolungata recessione si associa a maggiore incertezza, e maggiore incertezza si associa, a sua volta, a maggiore diffusione di comportamenti consuetudinari[7]. Per quanto attiene ai rapporti banche-imprese, ciò spinge ad adottare modelli di relationship banking, ovvero a privilegiare – nelle scelte di allocazione del credito – imprese con le quali le banche hanno già strutturato reti relazionali. Ne deriva un mercato del credito duale, nel quale coesistono imprese con rapporti consolidati con il sistema bancario che ottengono credito e potenziali nuove imprese che, proprio in quanto nuove, risultano discriminate. Il relationship banking è un fattore di freno alla crescita, sia perché non necessariamente le imprese finanziate sono più efficienti di quelle discriminate, sia perché riduce la numerosità di imprese. In secondo luogo, le imprese maggiormente penalizzate sono, con ogni evidenza, le imprese di piccole dimensioni, che non hanno accesso ai mercati finanziari.

La fig.1 descrive l’andamento dei prestiti alle imprese e alle famiglie nel triennio 2010-2013. Il modesto incremento registrato dal 2010 al 2011 è sostanzialmente imputabile alla moderata crescita di quegli anni (1.7% nel 2010 e 0.4% nel 2011), con tassi di crescita negativi nel periodo successivo (-2.4 nel 2012 e -1.9 nel 2013), attestando il carattere procicliclo dell’offerta di credito bancario.

4 – E’ dunque solo un aumento della domanda a poter spingere le banche ad accrescere i finanziamenti alle imprese, per le seguenti considerazioni:

1) Se aumenta la domanda aggregata aumentano i profitti delle imprese che vendono su mercati interni. Aumentando i profitti, aumentano i fondi interni ai quali le imprese possono attingere per effettuare investimenti e si riduce la necessità di indebitarsi. In tal senso, la dinamica della domanda aggregata (e l’orientamento delle politiche fiscali) definisce il grado di dipendenza delle imprese dal sistema bancario. L’aumento dei profitti, a sua volta, accresce la solvibilità delle imprese, rendendo maggiormente conveniente per le banche accordare loro finanziamenti. Le imprese esportatrici, soprattutto se di grandi dimensioni, per contro, possono subire una contrazione dei profitti a seguito dell’attuazione di politiche fiscali espansive fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, in quanto l’aumento della spesa pubblica accresce l’occupazione, ciò determina un aumento dei salari che peggiora la loro competitività sui mercati internazionali. In secondo luogo, l’attuazione di politiche fiscali espansive presuppone l’aumento dell’offerta di titoli di Stato sui mercati finanziari. Poiché il grado di rischiosità dei titoli di Stato è ovviamente minore di quella di titoli privati, ciò pone le imprese che si finanziano su quei mercati nella condizione di dover aumentare gli interessi sui titoli che emettono: il che accresce le loro passività finanziarie.

2) L’aumento della domanda aggregata, in quanto accresce la produzione, ha effetti sulle dimensioni medie d’impresa, accrescendole. Data la minore probabilità di fallimento (ovvero la maggiore solvibilità) di imprese di più grandi dimensioni, ciò consente alle imprese un più facile accesso al credito.

3) L’aumento della domanda aggregata ha anche effetti sui salari, dal momento che, accrescendo l’occupazione, accresce il potere contrattuale dei lavoratori consentendo loro di ottenere maggiori retribuzioni.  Si può osservare che i più alti salari derivano anche dall’aumento delle dimensioni medie d’impresa (http://keynesblog.com/2014/06/03/piccole-imprese-una-scomoda-verita/). Il che rende maggiormente solvibili i lavoratori nel caso di accesso a mutui bancari[9].

Si giunge, così, a concludere che quanto più le imprese, le famiglie e lo Stato spendono tanto più aumenta l’offerta di credito, stabilendo che il grado di accomodamento bancario (ovvero la propensione delle banche a concedere prestiti) è endogeno, ovvero dipende dalla dinamica della domanda aggregata. La struttura produttiva italiana è, in larga misura, composta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello che ha accumulato maggiori avanzi primari. Le famiglie italiane esprimono una propensione al risparmio maggiore della media europea. In questo scenario, non vi è da stupirsi se la domanda aggregata italiana sia bassa e in costante declino e, per la sequenza delineata supra, non vi è da stupirsi se le banche italiane restringano l’offerta di credito più di quanto facciano le banche di altri Paesi europei.

Gli appelli confindustriali rivolti alle banche affinché concedano crediti o l’indignazione diffusa sul loro comportamento servono a ben poco, e si reggono su un fondamentale equivoco: le banche non svolgono una funzione sociale; sono imprese che perseguono l’obiettivo del profitto e, nel perseguirlo e nelle condizioni date, trovano conveniente restringere l’offerta di credito.Nonostante Draghi.

NOTE

[1] Sulla questione si rinvia, fra gli altri, a F.J. Cardim de Carvalho,, Aggregate savings, finance and investment, “Intervention”, vol.9, n.2, pp.197-213, 2012.

[2] V. G.Pilluso, Riscrivere le regole in Europa, rivedere il modello delle banche in Italia, “Economia Italiana”, 1, 2014, pp.21-28.

[3] V. B. Becker, B. and V. Ivashina, V., Cyclicality of credit supply, Harvard Busines School, working paper 10-17, 2011, August.

[4] Si consideri che la sottocapitalizzazione non è uniformemente distribuita. I principali istituti di credito su scala globale fanno registrare incrementi di utili eccezionali: si stima che, su base annua, JP Morgan, Citibank, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs abbiano, in media, più che raddoppiato i loro profitti.

[5] V. J.Toporowski, Le conseguenze economiche di Mario Draghi, Keynesblog, 17.6.2014.

[6] V. R. Bellofiore, ‘Two or three things I know about her’: Europe in the global crisis and heterodox economics, “Cambridge Journal of Economics”, 2013, vol. 37, n. 3, pp. 497-512.

[7] V., fra gli altri, G.M. Hodgson, Economics and Institutions, Oxford, Polity Press, 1988.

[8] Per “famiglie produttrici” si intendono le imprese a gestione familiare e le imprese che operano nel settore dell’artigianato:https://www.bancaditalia.it/statistiche/racc_datser/intermediari/segnalaz/norm_rif/sec_ban/Circ_140_91_3_agg_to.pdf

[9] Letta in questa ottica, la politica di ridimensionamento del settore pubblico, messa in atto con particolare intensità in Italia, ha un evidente effetto controproducente, dal momento il calo dell’occupazione nel settore pubblico accentua la caduta della domanda e, per questa via, restringe i mercati di sbocco interni. Tuttavia, come di norma accade nelle fasi recessive, è lo Stato a farsi carico di accrescere l’efficienza delle imprese private mediante misure che accrescono l’”efficienza” nel settore pubblico, attraverso, ad esempio, minori oneri burocratici a carico delle imprese e/o ridistribuzione del carico fiscale a vantaggio delle imprese  (cfr. J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Torino, Einaudi, 1979 [1973]).

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I vincoli del Fiscal Compact

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 luglio 2014]

Si dibatte, in Europa, della possibilità di rendere meno rigidi i vincoli imposti dal Fiscal Compact ed è opinione pressoché unanime che un’austerità più “flessibile” possa essere utile per contrastare la lunga recessione italiana. Una tesi ampiamente dibattuta e ormai quasi dominante in Italia è che sia possibile coniugare il rispetto dei vincoli di finanza pubblica con misure che stimolino la ripresa della crescita in Italia, attraverso lo scomputo della spesa per investimenti pubblici (particolarmente in infrastrutture) dal calcolo del deficit pubblico. E sono ormai in molti a ritenere che il Fiscal Compact – con il connesso obbligo del pareggio di bilancio –  sia del tutto insostenibile e debba essere radicalmente ripensato. A fronte di questo, il Governo è riuscito solo a rinviare le scadenze per il raggiungimento del pareggio di bilancio, non riuscendo invece a raggiungere l’obiettivo dichiarato di rivedere i parametri di finanza pubblica derivanti dal Trattato di Maastricht.

E’ bene chiarire che, anche nel caso in cui si riuscisse a ottenere questo risultato, se è ragionevole pensare che in questo modo le politiche di austerità non facciano ulteriori danni, non è altrettanto ragionevole attendersi che da queste misure discendano condizioni necessarie e sufficienti per la ripresa della crescita economica italiana. Va infatti innanzitutto rilevato che il declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’Unione Monetaria Europea, ed è fondamentalmente imputabile a scelte di politica economica che hanno assecondato, da un lato, il consolidarsi di una struttura produttiva fatta di imprese di piccole dimensioni e, dall’altro, il consolidarsi di una specializzazione produttiva in settori poco innovativi. La duplice retorica del “piccolo è bello” e della crescita trainata dalle “vocazioni naturali” del territorio (agricoltura e turismo, in primis) ne è stata la legittimazione teorica. Più di recente, la rilevante decurtazione di fondi alla ricerca scientifica ha contribuito a rendere ancora più problematica la possibilità della fuoriuscita dalla recessione mediante flussi di innovazione, almeno in una prospettiva di lungo periodo. Non vi è da stupirsi se in questo scenario, il tasso di crescita della produttività sia stato (ed è) in Italia sistematicamente inferiore a quello registrato nei principali Paesi OCSE.

E’ evidente che un sistema produttivo fatto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e specializzate in produzioni a basso contenuto tecnologico è estremamente vulnerabile, soprattutto a ragione del fatto che imprese di piccole dimensioni, in quanto tecnicamente impossibilitate a sfruttare economie di scala, registrano, di norma, margini di profitto inferiori a imprese di più grandi dimensioni e, per conseguenza, scontano maggiori probabilità di fallimento quando la domanda interna si riduce. In più, si tratta di imprese che, non avendo accesso ai mercati finanziari, sono fortemente dipendenti dal credito bancario, così che sono maggiormente esposte alla restrizione del credito, che di norma si manifesta nella fasi recessive.

Anche le previsioni più ottimistiche sul prossimo anno, indicano un percorso di bassa crescita senza creazione di nuovi posti di lavoro (la c.d. jobless growth). Si consideri, a riguardo, che l’ultimo Rapporto ISTAT certifica che nel primo trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione in Italia si è attestato a circa il 14%, con un incremento di quasi un punto percentuale rispetto allo stesso periodo del 2013, e che il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 46%. In uno scenario che continua a delineare un’economia sempre più dualistica: il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno è quasi pari al 22%, con una disoccupazione giovanile che supera il 60%.

La ripresa della crescita in Italia non può che passare attraverso politiche industriali che promuovano cambiamenti strutturali, che portino le nostre imprese ad aumentare la scala della produzione e a innovare.  L’aumento della spesa pubblica (e/o la riduzione della pressione fiscale), nelle condizioni date, ha sì effetti espansivi, tuttavia limitati dal fatto che – riducendosi la produzione interna – vi è da attendersi che l’aumento della domanda di beni di consumo si traduca in larga misura in un aumento delle importazioni. Le innovazioni sono (e sono quasi sempre state) il risultato di ingenti investimenti pubblici nella ricerca di base. Ciò fondamentalmente per due ragioni:

1) Innovare è un’attività che comporta costi certi a fronte di risultati molto incerti e di lungo periodo. Le imprese private possono farlo solo a condizione che sia già disponibile uno stock di invenzioni la cui produzione non può che essere finanziata dall’operatore pubblico. Il che accade a maggior ragione in un contesto (quello attuale) nel quale è di massima rilevanza la tempistica della produzione e delle vendite. In altri termini, quando la concorrenza si esercita sempre più (anche) sulla rapidità dei processi produttivi, l’orizzonte temporale delle imprese inevitabilmente diventa più breve e, conseguentemente, diventa sempre meno conveniente intraprendere investimenti in innovazioni. In altri termini, in assenza di un intervento pubblico che ponga le pre-condizioni per investimenti innovativi, le imprese, di norma, non trovano conveniente innovare.

2) Le innovazioni sono normalmente finanziate tramite credito bancario. A seguito dell’esplosione della crisi del 2007-2008, l’attività bancaria è stata significativamente regolamentata, impedendo, di fatto, agli Istituti di credito di assumere rischi “eccessivi”. Ciò, di per sé, agisce come un freno alla possibilità di innovare, ancor più in un contesto – come quello italiano e, a maggior ragione, meridionale – di restrizione del credito.

In tal senso, l’austerità “flessibile” non solo non aiuta, ma rischia di essere controproducente. La maggiore flessibilità del rispetto dei vincoli di finanza pubblica è, infatti, condizionata alla più rapida attuazione delle c.d. riforme strutturali: ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro in primis. E’ ormai ampiamente dimostrato – sul piano teorico ed empirico – che la flessibilità del lavoro non solo non accresce l’occupazione, non solo riduce i salari, ma ha anche l’effetto di spingere le imprese a competere riducendo i costi di produzione, agendo quindi come disincentivo alle innovazioni.

L’economia italiana vive una “crisi nella crisi”, e questa crisi è fondamentalmente derivante da un lungo percorso di scelte sbagliate che ha portato alla desertificazione produttiva dell’economia italiana.

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La precarizzazione del lavoro e la disoccupazione giovanile

[“MicroMega” online del 12 luglio 2014]

L’ultimo Rapporto Eurostat segnala che l’Italia, con Cipro e Olanda, è il Paese nel quale – nel corso dell’ultimo anno – è maggiormente aumentato il tasso di disoccupazione, di quasi un punto percentuale. Il Rapporto certifica anche che, a fronte del fatto che nell’Eurozona il tasso di disoccupazione giovanile è del 23.7%, in Italia è pari a circa il 43%, ed è in costante aumento.

L’opinione dominante non fa altro che riproporre la tesi secondo la quale il fenomeno è imputabile all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro e, in particolare, alle eccessive protezioni di cui godono gli occupati (qui il riferimento è, in particolare, all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori). La principale proposta in campo riguarda l’istituzione di un contratto di lavoro unico a tutele crescenti, ovvero un contratto che lasci libere le imprese di licenziare senza costi nei primi anni, per poi imporre loro, nel caso licenzino, il pagamento di un’indennità crescente al crescere dell’anzianità di servizio. Si osservi che la ratio di questa proposta risiede nel fatto che, se attuata, si renderebbe ancora più flessibile il contratto di lavoro e soprattutto si impedirebbe, di fatto, il ricorso giudiziario in caso di licenziamento. Il contratto unico a tutele crescenti, infatti, non solo non sostituisce le tipologie contrattuali esistenti – e dunque non contrasta il precariato – ma riformula il contratto a tempo indeterminato in senso meno “rigido”, lasciando alle imprese maggiore libertà di licenziamento. Nella sua versione più estrema, esso prevede la sostituzione definitiva del reintegro del lavoratore con l’indennizzo monetario e i servizi di riallocamento (http://www.pietroichino.it/?p=1079).

Si tratta di una proposta che regge su una diagnosi profondamente errata del funzionamento del mercato del lavoro e, ancor più, delle caratteristiche della disoccupazione giovanile italiana. Occorre, a riguardo, innanzitutto chiarire che l’aumento del tasso di disoccupazione è principalmente imputabile al calo delle assunzioni e in minor misura ai licenziamenti, e che, per conseguenza, interessa essenzialmente le giovani generazioni, come rilevato dall’ufficio studi di Banca d’Italia fin dal 2010. Occorre anche chiarire che la disoccupazione giovanile è aumentata notevolmente negli ultimi anni, riguardando essenzialmente individui con elevata scolarizzazione. Come certificato da Almalaurea, circa il 27% di individui in possesso di laurea triennale non lavora a tre anni dal conseguimento del titolo e circa il 23% di individui in possesso di laurea magistrale (o a ciclo unico) risulta inoccupato negli ultimi tre anni. Se il dato viene rapportato al 2008, primo anno in cui il numero dei laureati disoccupati ha subìto un incremento, si registra un aumento esponenziale della disoccupazione intellettuale nell’ultimo quinquennio[1].

Le proposte di ulteriore precarizzazione del lavoro scontano fondamentalmente le seguenti criticità:

1) Come rilevato dall’OCSE, l’Italia è, fra i Paesi industrializzati, quello che ha dato il maggior impulso alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e che, al tempo stesso, ha registrato la maggiore crescita del tasso di disoccupazione. L’OCSE quantifica il grado di flessibilità contrattuale sulla base di un indicatore, denominato EPL (Employment Protection Legislation), che considera in primo luogo i vincoli normativi sui licenziamenti. L’Italia ha un indice di protezione dei lavoratori – in particolare per i licenziamenti individuali – inferiore alla media OCSE. In più, come ormai molta letteratura sul tema mostra, al crescere del grado di deregolamentazione del mercato del lavoro, il tasso di occupazione non aumenta, in non pochi casi si riduce. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che la precarizzazione del lavoro, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, si associa a bassi salari, dunque a bassi consumi e a bassa domanda aggregata.

L’OCSE certifica anche che il numero di precari in rapporto alla popolazione attiva è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, si registra che, nel corso dell’ultimo anno è significativamente aumentata (nell’ordine del 4%) la percentuale di assunzioni con contratto a tempo determinato sul totale delle assunzioni rispetto all’anno precedente

2) E’ anche ampiamente dimostrato che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro incentivano le imprese a competere riducendo i salari, disincentivando le innovazioni e riducendo, di conseguenza, il tasso di crescita della produttività del lavoro[2].

La proposta di istituzione di un contratto di lavoro con tutele crescenti, in questa prospettiva, è dunque controproducente dal momento che rende ancora più precari i rapporti di lavoro ed è fondamentalmente inutile al fine di contrastare l’aumento del tasso di disoccupazione giovanile. Ciò innanzitutto per una considerazione ovvia: rendere più costosi i licenziamenti al crescere dell’anzianità di servizio implica, di per sé, solo disincentivare i licenziamenti di lavoratori anziani (disincentivo tanto più forte quanto maggiore è l’età degli occupati). E anche perché non si capisce per quale ragione un’impresa dovrebbe farvi ricorso se ha a disposizione altre forme di contratti precari.

La crescita della disoccupazione giovanile – fenomeno presente in molti Paesi europei, fortemente accentuato in Italia – non è imputabile alla (presunta) rigidità del mercato del lavoro italiano, ma fondamentalmente ai seguenti fattori: l’esistenza di una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni e poco innovative che non esprimono domanda di lavoro qualificato; una spesa pubblica per ricerca e sviluppo inferiore allo 0.5% del Pil[3]; il blocco del turn-over nel pubblico impiego e, per quanto attiene alla forza-lavoro altamente qualificata, alla rilevante decurtazione di fondi alle Università. Una recente indagine dell’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) rileva che solo il 7% dei dottori di ricerca potrà intraprendere la carriera accademica e che, per il combinato del sottofinanziamento delle Università e dell’introduzione di contratti precari per lo svolgimento di attività di ricerca, negli ultimi cinque anni 2.000 posti da ricercatore strutturato si sono trasformati in meno di 1.000 posti da precario (http://www.dottorato.it/adi/images/Documenti_sociali/Documento_congressuale_III_ADI.pdf).

E’ ampiamente noto che il forte impulso dato alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro non ha avuto effetti di segno positivo sull’occupazione e sul tasso di crescita ed è palesemente irrazionale bloccare il reclutamento nei centri di ricerca con oltre il 40% di disoccupazione giovanile prevalentemente con elevato titolo di studio. Eppure non si cambia strada: la teoria del “con la cultura non si mangia” e il mito delle “vocazioni naturali del territorio” sono duri a morire. E allora non ci si può stupire se l’economia italiana è in caduta libera.

NOTE

[1] Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato.

[2] Cfr. P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.

[3] Sui nessi esistenti fra spesa pubblica per ricerca scientifica e crescita economica, si rinvia a M.Mazzucato, Lo Stato innovatore, Bari, Laterza 2014.

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La disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 3 agosto 2014]

Nel Mezzogiorno la disoccupazione giovanile si assesta al 50%, a fronte di una media nazionale del 40%. Si tratta di percentuali elevatissime, mai registrate nella storia recente dell’economia italiana. I pochi giovani con un impiego lavorano con contratti precari, spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale, svolgendo cioè mansioni di livello inferiore rispetto al titolo di studio acquisito.

L’esplosione del fenomeno dipende essenzialmente dal fatto che le nostre imprese – al netto dei fallimenti – hanno reagito alla caduta della domanda interna riducendo drasticamente le assunzioni e, in misura molto minore, licenziando. L’aumento esponenziale della disoccupazione giovanile dipende anche dal fatto che, soprattutto nel Mezzogiorno, il principale datore di lavoro è stato tradizionalmente il settore pubblico. Il progressivo smantellamento del welfare ha fatto sentire i suoi effetti deleteri principalmente nelle aree più deboli del Paese, sia a ragione della minore domanda di lavoro nel settore pubblico (associata a una contrazione della domanda di lavoro nel settore privato), sia a ragione della contrazione di servizi pubblici essenziali (istruzione e sanità, in primis), che ha ulteriormente impoverito le famiglie meridionali. A titolo esemplificativo, si può pensare alla rilevante riduzione dei finanziamenti al settore della formazione, che ha penalizzato, peraltro, maggiormente le scuole e le università meridionali, e che ha indotto tutte le sedi universitarie ad aumentare la tassazione, con ovvi effetti di riduzione dei redditi delle famiglie.

L’economia meridionale è così precipitata in una spirale perversa, così schematizzabile. La riduzione della spesa pubblica per servizi di welfare ha innanzitutto ridotto la domanda di lavoro, in una condizione, peraltro, nella quale è anche il settore privato a esprimere una domanda di lavoro in drastico calo. Ciò si è tradotto in un aumento della disoccupazione giovanile (e in un aumento dei flussi migratori) e, al tempo stesso, in una riduzione dei redditi reali delle famiglie meridionali. A fronte di minori consumi, si è ulteriormente ridotta la produzione e gli investimenti e, in quanto i servizi di welfare incidono sulla produttività del lavoro (per l’ovvia ragione che più la forza-lavoro è sana e istruita, più è potenzialmente efficiente), la riduzione dell’intervento pubblico nell’economia meridionale si è tradotta anche in un calo della produttività del lavoro.

Si consideri, inoltre, che i giovani meridionali inoccupati sono prevalentemente individui con elevato titolo di studio. In questa condizione, è del tutto irrazionale bloccare il turn-over nelle università e, di fatto, nelle scuole, per due ragioni:

1) Il blocco delle assunzioni nel settore della formazione riduce ulteriormente la domanda di lavoro, essenzialmente a danno di individui con elevato titolo di studio. In tal modo, non solo cresce la disoccupazione giovanile ma si determina un ulteriore problema di obsolescenza delle conoscenze che la rende disoccupazione di lungo periodo, e, dunque, difficilmente riducibile anche in una fase di crescita economica.

2) Il blocco delle assunzioni, in particolare nei centri di ricerca, accresce l’età media dei ricercatori e, di conseguenza, riduce la produttività della ricerca scientifica. Poiché è indiscutibile il fatto che sono i flussi di innovazione a trainare la crescita, e poiché è indiscutibile il fatto che i flussi di innovazione richiedono un preventivo investimento pubblico nella ricerca di base, l’ovvia conseguenza è che la riduzione delle possibilità di reclutamento nel settore della ricerca riduce il tasso di crescita potenziale.

Occorre osservare che i Governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi anni hanno ridotto la spesa pubblica (e aumentato la tassazione) soprattutto nel settore della formazione e soprattutto nel settore della formazione nel Mezzogiorno. Ciò si è verificato in virtù dell’applicazione di una norma molto discutibile, che stabilisce che le Università possono reclutare sulla base della contribuzione studentesca. Il risultato è che le sedi universitarie localizzate in aree con Pil pro-capite più basso possono reclutare meno di quanto possano fare sedi universitarie localizzate nelle aree più ricche del Paese.

Si è motivata questa scelta con la necessità di attuare politiche di austerità per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil e accrescere l’avanzo primario. Il debito pubblico, per contro, è aumentato e non si sono generati avanzi primari nella misura prevista. La riduzione della spesa è stata anche giustificata con il discutibile argomento secondo è solo rendendo scarse le risorse che si incentiva a farne un uso efficiente, limitando gli sprechi. Su questo punto, occorre sgombrare il campo da un equivoco:

1) Su fonte Banca d’Italia, si rileva che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del Pil nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al Pil sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su Pil, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania. Stando all’evidenza empirica, occorre dunque ammettere che la spesa pubblica, in Italia, non è eccessiva.

2) L’evidenza empirica mostra anche che è proprio nelle fasi nelle quali si riduce l’intervento pubblico in economia che diventa più rilevante il ruolo delle “reti relazionali” nella ricerca di un impiego. Ciò a ragione del fatto che, in termini generali, la riduzione della spesa pubblica accresce il tasso di disoccupazione e contribuisce a generare maggiore immobilità sociale.

Data la palese evidenza dell’irrazionalità di misure di contrazione della spesa pubblica in uno dei settori strategici per porre le condizioni per la ripresa della crescita, occorrerebbe una svolta radicale della politica economica, anche per il Mezzogiorno. Non si tratta di chiedere aiuti. Si tratta di capire che privare il Mezzogiorno di un incisivo intervento pubblico che sostenga la domanda di lavoro, con una particolare attenzione per le ricadute economiche della ricerca scientifica, significa condannare un’intera generazione a una condizione di precarietà permanente e, al tempo stesso, significa condannare il Mezzogiorno (e l’Italia) a una condizione di stagnazione permanente.

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Alcune ragioni per preoccuparsi della deflazione (e di come la si vuole fermare)

[“Micromega” online del 29 agosto 2014]


L’eurozona sta sperimentando recessione e deflazione. I due fenomeni sono strettamente connessi: la caduta dei prezzi è, al tempo stesso, sintomo e concausa della recessione, In più, essa esercita effetti redistributivi a danno dei debitori (imprese e lavoratori) e a vantaggio dei creditori (sistema bancario, in primo luogo). L’adozione di politiche monetarie espansive da parte della BCE può risultare del tutto inefficace per far fronte al problema, mentre le c.d. riforme strutturali possono addirittura amplificarlo.

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Sono stati piuttosto rari, nella storia recente delle economie industrializzate, i casi di deflazione, ovvero di riduzione del livello dei prezzi. In prima approssimazione, potrebbe trattarsi di un fenomeno positivo – in quanto si associa a un aumento delle retribuzioni in termini reali – e, come alcuni economisti ritengono, esistono casi di deflazioni “buone”, ovvero casi nei quali la caduta dei prezzi stimola la crescita della produzione[1]. Si tratta di una tesi che non trova riscontri empirici e che, sul piano teorico, è stata a più riprese smentita, a ragione del fatto che si basa su ipotesi estremamente stringenti[2]. A ben vedere, la deflazione è, per contro, il principale sintomo di una intensa recessione e, al tempo stesso, una causa rilevante che può accentuarla.

Le ultime rilevazioni Istat segnalano che, a luglio, nelle più grandi dieci città italiane i prezzi sono calati rispetto all’anno precedente. Per l’area euro, nel corso del 2013, l’incide dei prezzi al consumo è aumentato solo dello 0,85%. Nel periodo compreso fra maggio 2013 e maggio 2014, si è registrato un aumento pari a circa 0,50%, a fronte di un aumento del 2,2% del decennio pre-crisi 2000-2009[3].  La figura 1 mostra l’andamento del tasso di inflazione nell’attuale zona euro a partire dal 1990.

Sebbene la questione sia ampiamente dibattuta, sembra esserci un ampio consenso sul fatto che la causa del fenomeno è da ricercarsi nella caduta della domanda aggregata e, in particolare, nella riduzione della domanda di beni di consumo. La quale, a sua volta, dipende essenzialmente dalla consistente riduzione della quota dei salari sul Pil e dall’aumento del tasso di disoccupazione.  In tal senso, la caduta dei prezzi è innanzitutto la conseguenza della significativa riduzione del tasso di crescita che ha interessato pressoché tutti i Paesi dell’eurozona: -0.2% in Italia, una variazione nulla nel caso della Francia ed estremamente bassa anche per la Germania.

La deflazione accentua la recessione per i seguenti motivi.

1) La riduzione della domanda di beni di consumo spinge le imprese o a ridurne la produzione o a ridurne i prezzi. E, per farlo, occorre ridurre l’occupazione – nel primo caso – o ridurre i salari – nel secondo caso. Si attiva una spirale perversa di ulteriore contrazione dei consumi, della domanda aggregata e del tasso di crescita. La riduzione dei salari e dell’occupazione rende difficile l’accesso al credito bancario da parte delle famiglie (oppure, nel caso siano già indebitate, ne riduce la capacità di rimborso del debito), implicando restrizione del credito al consumo da parte del settore bancario.

2) La riduzione dei prezzi può essere sostenibile per le imprese (soprattutto per quelle che operano su mercati interni) fino a quando essa non erode del tutto i margini di profitto. Quando ciò accade, la deflazione si associa all’aumento del numero di fallimenti e/o al crescente indebitamento delle imprese nei confronti delle banche e alla loro crescente insolvenza. La contrazione dei margini di profitto, quando anche non conduce al fallimento, rende sempre più difficile la realizzazione di investimenti, anche in considerazione del fatto che riducendo la solvibilità delle imprese riduce la convenienza, da parte delle banche, a erogare finanziamenti per nuovi investimenti. Anche per questa via, la deflazione riduce la domanda aggregata e il tasso di crescita. In più, poiché la dinamica della produttività del lavoro dipende essenzialmente dal tasso di accumulazione del capitale, la contrazione degli investimenti ha anche effetti di segno negativo dal lato dell’offerta.

3) Poiché le decisioni di investimento delle imprese dipendono essenzialmente dalle loro aspettative, la riduzione corrente del tasso di inflazione tende ad associarsi all’aspettativa di ulteriore calo dei prezzi, inducendo le imprese a posticipare gli investimenti, anche se hanno fondi disponibili per effettuarli oggi.

4) Non essendo affatto scontato che la riduzione dei prezzi spinge i consumatori ad accrescere la propria domanda di beni e servizi, può verificarsi il caso in cui la riduzione dei prezzi oggi determini aspettative di ulteriori riduzioni dei prezzi, avendo come effetto la posticipazione dei consumi e, dunque, la caduta della domanda (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Con-la-depressione-arriva-anche-la-deflazione-25810)[4]. Fermi restando altri fattori, l’andamento del mercato immobiliare nell’ultimo triennio in Italia rappresenta un evidente esempio di questo fenomeno.

5) La deflazione aumenta l’onere reale del debito pubblico. In altri termini, per i titoli di Stato già emessi per i quali i tassi di interesse sono fissi, la riduzione dei prezzi ne accresce il valore in termini reali. Ciò significa che l’onere reale del debito pubblico aumenta e, dato l’obiettivo del rispetto dei vincoli di finanza pubblica, da ciò segue un aumento della tassazione. Peraltro, poiché la riduzione del livello dei prezzi riduce il Pil nominale, si riduce, per conseguenza, la base imponibile, rendendo necessarie ulteriori misure di inasprimento fiscale. La caduta dei redditi disponibili al netto delle tasse, dei consumi e della domanda costituisce un esito pressoché inevitabile. La caduta della domanda potrebbe essere attenuata dalle spese effettuate dai debitori, in considerazione del fatto che la deflazione accresce i loro redditi reali (http://noisefromamerika.org/articolo/dobbiamo-preoccuparci-deflazione-forse-che-si-forse-che-no). E tuttavia, si può argomentare che i) i creditori possono evidentemente spendere se i loro debitori sono solvibili, il che, di norma, non accade in fasi deflazionistiche (http://keynesblog.com/2014/06/26/boldrin-deflazione/); ii) appare poco ragionevole ritenere che, anche nel caso in cui i creditori vedano interamente rimborsato il loro capitale, lo destinino interamente all’acquisto di beni di consumo e/o di beni di investimento. Ciò a ragione del fatto che i creditori, in quanto percettori di rendite finanziarie, tendono ad allocare i loro profitti in attività speculative e/o nell’acquisto di beni di lusso, che non necessariamente si traducono in un aumento della domanda interna. Si può rilevare, a riguardo, che l’”unity marketing’s measure of affluent consumer confidence” – che misura le aspettative dei consumatori di beni di lusso – è aumentato di quasi 10 punti nel terzo trimestre 2014 rispetto al trimestre precedente.

Quando ciò si verifica, la deflazione può considerarsi un fenomeno che semmai accentua i processi di finanziarizzazione e di allocazione di risorse per usi “improduttivi”[5], i quali, a loro volta, contribuiscono a ridurre gli investimenti e il tasso di crescita[6]. E’ opportuno, tuttavia, osservare che il principale effetto generato dalla caduta dei prezzi consiste nel ridistribuire reddito a beneficio dei percettori di rendite finanziarie (in quanto creditori) e di imprese esportatrici, dal momento che queste possono avvantaggiarsi della deflazione per recuperare quote di mercato nel commercio internazionale.

Il fatto che la caduta dei prezzi rafforza il potere contrattuale dei creditori (con particolare riferimenti ai rapporti fra banche e imprese) ha un’implicazione rilevante sul piano della politica economica. La spirale deflazionistica potrebbe essere, infatti, fermata o attenuata dall’attuazione di politiche fiscali espansive. Le quali, ampliando i mercati di sbocco, accrescono i ricavi delle imprese rendendole meno dipendenti dal sistema bancario[7], ridistribuendo, dunque, risorse ai debitori e, simmetricamente, sottraendo potere ai creditori. Ma poiché i creditori – ci si riferisce, in particolare, al sistema bancario –  sono tali non solo nei confronti delle imprese ma anche nei confronti dello Stato (in quanto, almeno nel caso italiano, sono acquirenti di titoli del debito pubblico), il loro accresciuto potere contrattuale nella sfera politica può far sì che i governi incontrino rilevanti resistenze laddove intendano accrescere la spesa pubblica, anche nel caso in cui non sussistano vincoli normativi per la loro realizzazione. In termini più generali, ciò presuppone l’ovvio argomento secondo il quale nessun Governo può attuare misure di politica fiscale che, in via diretta o indiretta, danneggino i suoi creditori; e in una condizione nella quale il potere dei creditori aumenta in virtù dell’aumento dei loro redditi reali, queste misure diventano sempre meno praticabili[8].

Per quanto è dato sapere, le Istituzioni europee si apprestano a fronteggiare i rischi di una spirale deflazionistica attraverso nuove immissioni di moneta. Ma l’esperienza degli ultimi anni mostra la sostanziale inefficacia della politica monetaria per far fronte alla recessione. Ciò dipende fondamentalmente dal fatto che la BCE (come tutte le banche centrali) non è in grado di controllare la quantità di moneta effettivamente circolante, fondamentalmente a ragione del fatto che gli impulsi monetari si traducono in maggiore moneta circolante solo a condizione che gli Istituti di credito siano disponibili a erogare maggiori prestiti a imprese e famiglie. Peraltro, la BCE ha, per statuto, l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi a un target del 2% – statuto pensato per contrastare l’inflazione – e, in tal senso, non è tecnicamente attrezzata (se non attraverso misure definite non convenzionali) a far fronte a rischi deflazionistici (http://keynesblog.com/2014/08/27/uscire-dalleuro-o-uscire-da-questa-bce/#more-5705).

La reiterazione delle “riforme strutturali” (precarizzazione ulteriore del lavoro in primis) e dei tagli di spesa (spending review) è esattamente ciò che non andrebbe fatto per contrastare il problema, dal momento che maggiore flessibilità del lavoro e minore spesa pubblica sono la via maestra per ridurre ulteriormente i redditi e, per questa via, accentuare la spirale deflazionistica.

NOTE

[1] Si è espresso, di recente e fra gli altri, a favore di questa tesi Jaime Caruana, direttore generale della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea. Si tratta della riproposizione del c.d. effetto Pigou, secondo il quale la riduzione dei prezzi accresce le scorte liquide in termini reali dei consumatori, ne accresce conseguentemente i consumi fino a portare il sistema economico in una condizione di equilibrio di pieno impiego.

[2] In particolare, si assume che, anche in regime deflazionistico, le aspettative sono adattive o razionali, che la propensione al consumo dei creditori è uguale alla propensione al consumo dei debitori (di norma, la propensione al consumo di questi ultimi è di fatto maggiore di quella dei primi), che non esiste incertezza e detenzione di liquidità per usi precauzionali.

[3] Per il caso italiano, l’ISTAT riferisce che il calo dei prezzi è soprattutto imputabile a quelli di alimentari e bevande, a quelli relativi alle abitazioni  e alle comunicazioni.

[4] Come messo in rilievo, in particolare, da Gunnar Myrdal, questi comportamenti dipendono dal fatto che “it is possibile that people are so conditioned by the theory or earlier experience that they will expect that after a rise in prices there will follow a fall” (G. Myrdal, Rich lands and poor. New York, Harper & Brother Publisher, 1957, p.37).

[5] V., fra gli altri, G. Forges Davanzati and A.Pacella, The profits-investment puzzle: A postKeynesian-Institutional interpretation, “Structural Change and Economic Dynamics”, 2013, 26, pp.1-13.

[6] La letteratura sulla finanziarizzazione è estremamente ampia. Può essere sufficiente, in questa sede, rinviare a E.Stockhammer, Financialization and the slowdown of accumulation, “The Cambridge Journal of Economics”, 28 (5), 2004 e a G.A. Epstein, Financialization and the world economy, Elgar, 2004.

[7] Ciò a ragione del fatto che la spesa pubblica accresce i profitti monetari aggregati e le aspettative di profitto. Sul tema si rinvia a A.Parguez, A monetary theory of public finance, “International Journal of Political Economy”, 2002, vol.32, n.3, Fall, pp.80-97.

[8] Sulle relazioni fra relazioni di potere nell’arena politica e nella sfera economica, cfr., fra gli altri, W.Korpi, Power resources theory and the Welfare State, Toronto, University of Toronto Press, 1988.

SINTESI. La definitiva abolizione dell’art.18 è destinata a intensificare la recessione. L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso che va dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro. L’evidenza empirica smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione.

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L’articolo 18, la moderazione salariale e la recessione

[in “MicroMega” online del 24 settembre 2014]

“Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari” (Achille Loria, 1899).

Non è l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione. Non lo è perché la sua applicazione interessa una platea ristretta di lavoratori e perché è già stato, di fatto, superato con la c.d. riforma Fornero; non lo è perché le scelte di assunzione delle imprese non sono motivate da presunte ‘rigidità’ della normativa a tutela dei lavoratori, ma semmai dalle aspettative di profitto (e, dunque, dalla dinamica della domanda aggregata); non lo è – soprattutto – perché è ormai ampiamente provato che non è la deregolamentazione del mercato del lavoro ad accrescere l’occupazione (http://temi.repubblica.it/micromega-online/elogio-della-rigidita/). Per contro, vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non aumenta. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari.

In una fase di intensa e prolungata recessione, è davvero ardua impresa provare ad uscirne sottraendo diritti ai lavoratori. Anzi: l’eventuale definitiva abolizione dell’art.18 non avrebbe altri effetti se non ridurre ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori, con conseguente ulteriore compressione dei salari, dei consumi e della domanda interna. La sola ratio economica che può motivare questa misura risiede nella convinzione – propria della Commissione Europea – in base alla quale la fuoruscita della crisi si rende possibile solo accrescendo la competitività sui mercati internazionali (http://www.epsu.org/IMG/pdf/Assessing_the_links_between_wage_setting.pdf). Secondo una sequenza che va dalla riduzione dei salari alla riduzione dei prezzi, all’aumento delle esportazioni, all’aumento dei profitti delle imprese esportatrici, al reinvestimento dei profitti e all’aumento dell’occupazione interna[1].

Uno studio recente della Commissione Europea, dal titolo “Labour costs pass-through, profits and rebalancing in vulnerable Member States” , sembra, tuttavia, almeno parzialmente smentire l’opinione dominante (e quella della Commissione stessa), ponendo in evidenza che, in particolare nei c.d. Paesi periferici dell’eurozona (Italia inclusa), le politiche di deflazione salariale hanno generato il solo effetto di accrescere i margini di profitto, con risultati pressoché insignificanti sull’andamento delle partite correnti(http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/qr_euro_area/2013/pdf/qrea3_section_1_en.pdf). La Commissione Europea imputa questo effetto all’eccessiva tassazione degli utili d’impresa, che impedirebbe più rilevanti contrazioni dei prezzi dei beni esportati. L’Istat rileva un miglioramento del saldo delle partite correnti[2], a fronte di un aumento del tasso di disoccupazione di circa due punti percentuali nel trascorso biennio e di una flessione delle ore lavorate, attestando che non vi è alcun automatismo che garantisce che un incremento di esportazioni si traduca in un aumento dell’occupazione interna.

Il punto in discussione è se la riduzione dei salari monetari implichi la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto fra salario e produttività del lavoro), dal momento che la competitività può aumentare solo a condizione che, a fronte di una riduzione dei salari, la produttività cresca o almeno rimanga costante, a parità di tasso di cambio. Ma, quantomeno nel caso italiano, le cose non stanno così. Da almeno un decennio, l’economia italiana sperimenta, contestualmente, una rilevante contrazione della quota dei salari sul Pil e un’altrettanto rilevante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro. L’ultimo Rapporto Eurostat certifica che, nell’ultimo trimestre del 2013, il costo del lavoro in Italia è ulteriormente aumentato (1,1%), a fronte del fatto che la dinamica delle retribuzioni si è mantenuta al di sotto della media europea (+1,4% in Italia, +1,6% nell’Ue). La dinamica dei salari e quella della produttività sono strettamente connesse, sia per ragioni che attengono all’assetto tecnico con il quale le imprese operano, sia per ragioni che riguardano le reazioni dei lavoratori alla variazione dei salari.

1) La riduzione dei salari (e del costo di tutela dei diritti dei lavoratori da parte delle imprese) pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica. Primo: la riduzione della domanda interna (imputabile, in primis, alla caduta dei salari e, dunque, dei consumi), in quanto riduce i mercati di sbocco, riduce i profitti monetari, a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno[3]. Secondo: la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e, soprattutto in un contesto di restrizione del credito, le pone nelle condizioni di non poter investire e, dunque, di non poter accrescere le loro dimensioni. Terzo: poiché all’aumentare delle dimensioni d’impresa, per l’operare di rendimenti crescenti, la produttività del lavoro aumenta, da ciò segue che la riduzione della domanda ha effetti negativi non solo in via diretta sull’occupazione, ma anche in via indiretta, “dal lato dell’offerta”, sulla tasso di crescita produttività[4]. Come documentato dall’Istat (http://www.istat.it/it/files/2013/02/Rapporto-competitivit%C3%A0.pdf), il grado di internazionalizzazione delle imprese italiane è relativamente basso e, soprattutto, le imprese italiane presenti sui mercati internazionali sono quasi esclusivamente imprese di grandi dimensioni. Il che evidenzia il fatto che politiche che non favoriscono la crescita dimensionale delle imprese sono destinate a controbilanciare il possibile (e incerto) effetto di aumento delle esportazioni derivante dalla moderazione salariale.

2) La riduzione dei salari e la compressione dei diritti dei lavoratori tende ad associarsi a una bassa dinamica della produttività del lavoro. L’evidenza empirica, con riferimento all’Italia, mostra che quanto più si è reso flessibile il mercato del lavoro, tanto più si è registrato un rallentamento del tasso di crescita della produttività. Come è stato rilevato[5], infatti, il tasso di crescita della produttività del lavoro ha cominciato a ridursi in modo rilevante proprio a seguito dell’approvazione del c.d. pacchetto Treu e della c.d. Legge Biagi. E’ verosimile che ciò sia dipeso, oltre che dalla modesta dinamica degli investimenti e dalla sostanziale assenza di innovazioni, dal verificarsi di un effetto di ‘scoraggiamento’. Effetto a sua volta derivante dalla bassa gratificazione derivante dal lavorare in condizioni precarie e con sottoutilizzazione del capitale umano, e dalla bassa probabilità di trovare impiego in caso di licenziamento[6]. In tal senso, le politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro (e la connessa maggiore libertà di licenziamento), combinate con il peggioramento delle condizioni di lavoro e la scarsa valorizzazione delle competenze, hanno contribuito a ridurre l’impegno lavorativo e, per conseguenza, la produttività[7].

Si osservi che si tratta di un fenomeno soggetto a irreversibilità, dal momento che la riduzione dei salari deteriora la qualità della forza-lavoro in un orizzonte di lungo periodo[8]. Più bassi salari oggi implicano, infatti, minori possibilità di spese per istruzione, sanità, riduzione del tasso di natalità (e conseguente invecchiamento della popolazione), con effetti di segno negativo sulla produttività futura. In altri termini, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, mentre può risultare conveniente per la singola impresa e nel breve periodo, risulta controproducente per la collettività delle imprese, e risulta controproducente nel lungo periodo. Non solo per le imprese, ma anche, e soprattutto, per le prospettive di crescita dell’economia italiana.

NOTE

[1] Fra i primi studi sul tema, si segnala A.Alesina and R.Perotti, The Welfare State and competitiveness, National Bureau of Economic Rsearch, working paper n.4810, 1994, July.

[2] Miglioramento principalmente imputabile all’aumento delle esportazioni di automobili intra-UE. Si può osservare che le esportazioni di automobili da parte della Germania sono sempre più indirizzate verso gli Stati Uniti e la Cina. Il che sembrerebbe suggerire che le imprese italiane si sono avvantaggiate della riduzione delle quote di mercato delle imprese tedesche nell’eurozona.

[3] Costituendo una concausa della deflazione in corso. V. G. Forges Davanzati, Attenti alla deflazione. E a come la si vuol fermare, micromega, 29 agosto 2014.

[4] Cfr. N. Kaldor, The irrelevance of equilibrium economics, “The Economic Journal”, 1972, vol.82, pp.1237-1255..

[5] P.Pini, Produttività e regimi di protezione del lavoro, “Keynesblog”, 20.5.2013.

[6] Come scriveva Francesco Saverio Nitti, quando sono pagati poco e le ore di lavoro sono eccessive, “gli operai hanno il cuore in sciopero”. V. F.S.Niti, I problemi del lavoro, prolusione al corso di Economia Politica fatta il 4 dicembre 1893 all’Università di Napoli, in “Estratto della nuova rassegna”, 1893.

[7] La modesta crescita della produttività del lavoro in Italia è anche imputabile alle politiche di destrutturazione dei servizi di Welfare, con particolare riferimento all’accesso alla scolarizzazione e ai servizi sanitari. E’ del tutto evidente che individui istruiti e in buone condizioni di salute sono potenzialmente più produttivi di individui poco secolarizzati e in cattive condizioni di salute. I processi di privatizzazione messi in atto, in particolare, nell’ultimo ventennio hanno contribuito a ridurre la quantità e la qualità di servizi pubblici e, per questa via, a ridurre il potenziale produttivo dei lavoratori.  Ciò è accaduto in un contesto di crescente invecchiamento della popolazione, e dunque in un contesto nel quale – anche per il solo obiettivo di non generare riduzioni di produttività – sarebbe stato necessario ampliare e riqualificare i servizi di Welfare, con particolare riferimento all’assistenza sanitaria.

[8] Come scriveva Marx, “il capitale, che ha così «buoni motivi» per negare le sofferenze della generazione di lavoratori che lo circonda, nel suo effettivo movimento non viene influenzato dalla prospettiva di un futuro imputridimento dell’umanità e di uno spopolamento incontenibile […]. Ciascuno sa […] che il temporale una volta o l’altra deve scoppiare, ma ciascuno spera che il fulmine cada sulla testa del suo prossimo non prima che egli abbia raccolto e portato al sicuro la pioggia d’oro”. La violazione dei limiti morali e fisici di lunghezza della giornata lavorativa “non dipende […] dalla buona o cattiva volontà del capitalista singolo. La libera concorrenza fa valere le leggi immanenti della produzione capitalistica come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo” (Marx, Il Capitale, Editori riuniti, Roma 1980, p. 300).

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Il TFR in busta paga: un magistrale esercizio di marketing politico

[“MicroMega” online del 16 ottobre 2014]

SINTESI. La riforma del mercato del lavoro che il Governo si accinge a varare presenta numerose criticità e sembra rispondere a un obiettivo che non ha nulla a che vedere con l’aumento dell’occupazione e dei salari. La riforma rientra in una strategia di respiro non propriamente alto, per la quale, come ha dichiarato il Ministro Poletti, occorre presentarsi a Bruxelles dichiarando di “aver fatto delle cose”. Indipendentemente dalla bontà di quello che si è fatto, ma a condizione di aver fatto qualcosa che si possa definire una “riforma”. Ed è anche una intelligente operazione di marketing politico, che presenta il contratto unico a tutele crescenti come il superamento della precarietà, e l’anticipazione del TFR in busta paga come un aumento dei redditi dei lavoratori. Ma, in entrambi i casi, si tratta di provvedimenti che si muovono nella direzione opposta a quella annunciata.

Il dibattito di politica economica in Italia ha subìto una fortissima accelerazione nel corso dell’ultimo mese sui temi della “riforma” del mercato del lavoro. A fronte del fatto che pressoché tutti i commentatori concordano che non si crea lavoro con un tratto di penna, occorre chiedersi innanzitutto per quale ragione sono state investite tante energie nella diatriba sull’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori (di fatto, peraltro, già superato dalla c.d. riforma Fornero del 2012), e ci si accinge a investirne ulteriori per discutere dei possibili effetti dell’inclusione in busta paga del trattamento di fine rapporto (TFR) e del contratto di lavoro a tutele crescenti. Al netto della dialettica politica interna al PD che è alla base delle priorità che il Governo intende assegnare alla sua azione, si può rilevare che la centralità assegnata dal Governo alla riforma del mercato del lavoro rientra in una strategia di respiro non propriamente alto, per la quale, come ha dichiarato il Ministro Poletti, occorre presentarsi a Bruxelles dichiarando di “aver fatto delle cose”. Sembra di capire, indipendentemente dalla bontà di quello che si è fatto, ma a condizione di aver fatto qualcosa che si possa definire una “riforma”.

Si tratta, peraltro, di temi annunciati dal Governo, sui quali non esiste, al momento, un’indicazione certa, con l’ovvio esito di generare il proliferare di interpretazioni talvolta fuorvianti.

Per provare a mettere ordine nel discorso, è opportuno porre due punti fermi. Le “riforme” del lavoro messe in atto in Italia negli ultimi anni sono state propagandate con due assiomi: il mercato del lavoro italiano non premia il merito, ed è duale nel senso che vede contrapposti lavoratori iperprotetti e lavoratori precari. E’ bene chiarire che si tratta di due assiomi molto discutibili. In primo luogo, non è esattamente chiaro, al di là degli slogan, cosa si intende per merito. Non si tratta di una disquisizione sui massimi sistemi, ma di un passaggio tecnico ineludibile per impostare un’eventuale (ulteriore) riforma del mercato del lavoro. La capacità di un lavoratore di svolgere bene una determinata mansione può dipendere da una molteplicità di fattori che esulano del tutto dal suo personale impegno: i lasciti ereditari, il grado di scolarizzazione della famiglia di provenienza, a titolo esemplificativo, esercitano un’influenza rilevante sulle abilità dei singoli, del tutto indipendentemente dal loro sforzo individuale. In secondo luogo, è vero che il mercato del lavoro italiano è duale, ma non nel senso che vede contrapposti lavoratori anziani iperprotetti e lavoratori giovani privi di garanzie. Il mercato del lavoro italiano è duale perché in esso sono presenti individui con reti relazionali forti, che riescono a ottenere più facilmente un’occupazione solo in virtù delle conoscenze che le loro famiglie hanno, e individui privi di relazioni informali tali da garantire loro facile accesso al mercato del lavoro, buone condizioni di lavoro ed elevate retribuzioni.

Nel merito delle riforme annunciate, si possono porre le seguenti considerazioni.

1) Il contratto di lavoro a tutele crescenti, parte integrante del c.d. jobs act, per il quale il costo del licenziamento individuale cresce al crescere dell’anzianità di servizio, presenta almeno due criticità. In primo luogo, se l’impianto dell’intera riforma del mercato del lavoro vuole fondarsi su basi meritocratiche, non si capisce per quale ragione un lavoratore anziano debba avere più tutele di un lavoratore giovane, solo appunto perché più anziano. In secondo luogo, non è ancora chiaro se questa tipologia contrattuale sostituirà – per le nuove assunzioni – il tradizionale contratto a tempo determinato. Se così stanno le cose, si tratta di un ulteriore impulso all’attuazione di politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, non, come viene detto, di misure di contrasto alla precarietà.

2) La recente proposta di inclusione in busta paga del TFR (per quanto è dato sapere, su richiesta dei singoli lavoratori) è anch’essa alquanto discutibile. Le criticità, in questo caso, sono fondamentalmente le seguenti. In primo luogo, come è accaduto per il provvedimento che ha aumentato di ottanta euro gli stipendi mensili di una platea ristretta di lavoratori, c’è da aspettarsi che l’aumento delle retribuzioni non si traduca in misura significativa in un aumento dei consumi. Ciò a ragione del fatto che, con aspettative pessimistiche, l’aumento dei salari può tradursi semmai in maggiori risparmi a fini precauzionali. L’ISTAT attesta un aumento della propensione al risparmio e un aumento dei risparmi complessivi, che sono passati dai 20 miliardi del 2012 ai 26 miliardi di euro nel primo trimestre del 2014, con un incremento del 26.7% in termini reali, e a fronte della riduzione dell’1.2% dei redditi disponibili nel medesimo periodo e della riduzione del tasso di inflazione. Si tratta, con ogni evidenza di risparmio precauzionale finalizzato a far fronte a eventi futuri percepiti come sempre più incerti, soprattutto in considerazione del fatto che i tassi di interesse sui depositi a breve termine sono irrisori. A ciò si può aggiungere che, con tassazione effettiva o attesa in aumento, la probabilità del verificarsi di questo effetto è ancora maggiore (http://www.istat.it/it/files/2014/05/cap1.pdf).

In secondo luogo, il provvedimento si configura come anticipazione del salario differito e, dunque, non è una fonte aggiuntiva di reddito (http://www.controlacrisi.org/notizia/Lavoro/2014/10/3/42557-il-tfr-in-busta-paga-il-danno-oltre-la-beffa/)[1]. Si può osservare che l’impatto della misura potrebbe essere molto modesto, per quanto attiene alla crescita dei consumi, in considerazione della duplice constatazione che la propensione al consumo tende a essere più elevata per gli individui più giovani[2] e che, in Italia, è estremamente ristretta la platea di lavoratori giovani che potrebbero usufruire dell’anticipazione del TFR.

In terzo luogo, il TFR viene utilizzato da molte imprese come principale fonte di autofinanziamento degli investimenti. Soprattutto in un contesto di restrizione del credito bancario, privarle di questi fondi significa rendere ulteriormente difficile la realizzazione di nuovi investimenti, e, per quanto riguarda i lavoratori, tenere il TFR in azienda costituisce un deterrente al licenziamento, dal momento che è ragionevole attendersi che un’impresa che decida di licenziare opterà verosimilmente per i lavoratori ai quali non deve corrispondere la liquidazione[3].

Occorre poi sottolineare che l’aumento dei redditi derivante dall’anticipazione del trattamento di fine rapporto significa maggiore tassazione, dal momento che il TFR è oggi tassato meno del reddito da lavoro[4]. Si stima, a riguardo, che nel caso in cui l’anticipazione riguardasse tutti i lavoratori occupati, le entrate fiscali ammonterebbero a oltre cinque miliardi. Desta, peraltro, molte perplessità l’ipotesi di far gestire questa operazione al sistema bancario, dal momento che non è affatto chiaro, al momento, per quale ragione un Istituto di credito dovrebbe farsene carico. Per quanto è possibile ora capire, le banche (le sole banche che aderiranno al protocollo siglato con il Governo) svolgeranno, per così dire, una funzione di ‘tesoreria’: erogheranno i finanziamenti alle imprese nel caso i loro dipendenti richiedano l’anticipazione del TFR, e, in caso di insolvenza, saranno rimborsate da un fondo di garanzia statale, che consentirà loro di non subire aggravi patrimoniali. E desta anche molte perplessità l’impatto che l’anticipazione del TFR potrebbe avere sulle detrazioni delle quali attualmente i lavoratori beneficiano, a ragione di un aumento del loro ISEE.

Va anche ricordato che l’incidenza della produzione industriale sul Pil, in Italia, è in costante riduzione. Su fonte ISTAT, si registra una flessione della produzione industriale pari a -3.2% nel 2013 e pari a -6.4% nel 2012. In questo scenario, l’aumento dei consumi – nel caso si verifichi – potrebbe in larga misura tradursi in un aumento delle importazioni, riducendo ulteriormente la domanda interna. L’effetto esattamente opposto a quello che il Governo si attende.

Vi è, infine, una considerazione di carattere più generale, sulla quale occorre soffermarsi. La sostanziale abdicazione dell’operatore pubblico a farsi carico della retribuzione dei lavoratori all’atto della cessazione del rapporto di lavoro costituisce la certificazione del principio secondo il quale la gestione dei fondi pensionistici deve rientrare nella sfera delle libere scelte individuali, non solo con riferimento al quando spendere i propri risparmi, ma anche al dove allocarli, ovvero se destinarli alla previdenza pubblica o ai fondi pensione. Il Presidente Renzi ha legittimato questo indirizzo con il suggestivo argomento dello Stato non più “paternalista”, tacendo sul fatto che, nel primo caso, è lo Stato, non i singoli, a poter meglio pianificare l’allocazione dei risparmi a fini pensionistici (a ragione della “miopia” che può caratterizzare le scelte individuali) e, nel secondo caso, che la relazione fra singolo risparmiatore e Istituto privato di gestione dei fondi pensionistici non si svolge in condizioni di parità contrattuale, se non altro per la minore “alfabetizzazione finanziaria” del risparmiatore.

Ma, al di là dei discutibili aspetti tecnici dell’operazione, assimilabile alla “finanza creativa” di tremontiana memoria, vanno riconosciute al Governo notevoli competenze di marketing politico: impinguare la busta paga genera verosimilmente un immediato effetto di illusione monetaria che tende a indurre i lavoratori a identificare un incremento monetario del loro reddito in un incremento del loro reddito reale disponibile; a fronte del quale il Governo otterrà maggiori entrate fiscali (via imposizione sul salario differito) e compirà un passo ulteriore verso quello che è stato definito il “capitalismo dei fondi pensione” (http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/10/10A20001011.html).

NOTE

[1] Per un inquadramento teorico della questione, si rinvia a S.Cesaratto. Pensions reforms and economic theory. Northampton: Elgar, 2005.

[2] Cfr, fra gli altri, S.Enlandsen and R.Nyoen, Consumption and population age structure, “Journal of Population Economics”, 2008, pp.505-520.

[3] V. T.Boeri, Il TFR di Pantaleone, “La Repubblica”, 13 ottobre 2014.

[4] Il prelievo sui rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell11.5%, mentre il TFR in busta paga sarebbe soggetto a una tassazione di circa il 23%.

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La spesa pubblica, il debito e l’aristocrazia finanziaria

[“MicroMega” online del 30 ottobre 2014]

SINTESI. Il debito pubblico italiano continua ad aumentare e il Governo continua a cercare di ridurlo riducendo la spesa pubblica e confidando sulle “riforme strutturali” per fuoriuscire dalla recessione. Ma, a ben vedere, è proprio la contrazione della spesa pubblica a generare aumenti del debito pubblico, non solo per l’operare del tradizionale meccanismo keynesiano e degli effetti moltiplicativi connessi, ma anche e soprattutto perché la contrazione della spesa pubblica contribuisce a ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro e ad accentuare la restrizione del credito, rendendo sempre più difficile il rimborso del debito e rendendo sempre più necessario collocare titoli di Stato con tassi di interesse crescenti. Si configura una dinamica di peggioramento della distribuzione del reddito, che si manifesta sotto forma di trasferimento di risorse dal lavoro alla rendita finanziaria.

Figura 1: spesa pubblica in Italia e in Europa (fonte Eurostat)

Il rapporto debito pubblico/Pil in Italia, secondo le ultime rilevazioni EUROSTAT, ha raggiunto il 133%, proseguendo una dinamica di costante crescita, a fronte del fatto che la spesa pubblica, in Italia, è in linea con la media dei Paesi dell’eurozona (v. fig.1) e si è costantemente ridotta negli ultimi anni. L’impegno dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni è stato essenzialmente finalizzato a provare ridurre il rapporto debito/Pil agendo contestualmente sul debito e sul Pil, ovvero – nel primo caso –  riducendo la spesa pubblica (e aumentando la tassazione) e, per il secondo aspetto, attuando alcune “riforme” prevalentemente calibrate sul mercato del lavoro. La logica sottostante può essere ricondotta a questa ipotizzata sequenza di eventi. La riforma del lavoro genera maggiore occupazione; maggiore occupazione genera maggiore produzione, rendendo più facilmente sostenibile la dinamica del debito pubblico. Contestualmente, i tagli di spesa la “riqualificano” accrescendo l’efficienza del settore pubblico.

E’ opportuno ricordare che il criterio convenzionalmente accettato per stabilire la sostenibilità del debito pubblico fa riferimento alla differenza fra tasso di interesse sui titoli e tasso di crescita: tanto maggiore è questa differenza, tanto più lo Stato si trova in una potenziale posizione di insolvenza[1]. Ed è opportuno ricordare che la principale critica a questa impostazione fa riferimento al fatto che  per l’operare del tradizionale meccanismo keynesiano e degli effetti moltiplicativi connessi – la riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda interna, contribuisce ad accrescere il tasso di disoccupazione, a ridurre conseguentemente il tasso di crescita e ad accrescere il rapporto debito pubblico/Pil.

Esistono, tuttavia, altri meccanismi che contribuiscono a generare incrementi del debito pubblico a fronte di riduzioni della spesa pubblica. Si tratta di meccanismi che attengono alla relazione fra spesa pubblica e crescita, da un lato, e alle determinanti dei tassi di interesse sui titoli, dall’altro. Per quanto riguarda i primi, si possono porre queste considerazioni.

1) La riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell’onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell’onere degli interessi (http://temi.repubblica.it/micromega-online/attenti-alla-deflazione-e-a-come-la-si-vuole-fermare/).

2) La riduzione della spesa pubblica riduce la domanda interna, a ragione del fatto che l’indebitamento (pubblico e privato) è una componente della domanda aggregata[2]. Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, così che, anche per questa via, minore spesa può implicare più debito.

3) In una condizione di elevata disoccupazione giovanile, che riguarda in larga misura individui con elevato titolo di studio, i tagli di spesa (ci si riferisce, in particolare, al blocco del turnover negli Enti di Ricerca) producono due ulteriori effetti recessivi, che, anche in questo caso, non solo non riducono ma semmai aumentano il rapporto debito pubblico/Pil. In primo luogo, la disoccupazione giovanile resta elevata e ciò implica minore produzione e minore crescita. In secondo luogo, e soprattutto, l’esistenza di un’ampia platea di individui disoccupati con elevata scolarizzazione fa sì che il loro elevato potenziale produttivo resti inutilizzato, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro.

Per quanto attiene alla dinamica dei tassi di interesse sui titoli di Stato, occorre chiarire che essa non si arresta riducendo la spesa. Ciò per queste ragioni. In primo luogo, i tassi di interesse sui titoli  di Stato sono stati (e vengono) mantenuti elevati per attrarre capitali speculativi con l’obiettivo di mantenere in pareggio la bilancia dei pagamenti, a fronte dei deficit di partite correnti imputati alla scarsa competitività internazionale delle nostre imprese[3]. In secondo luogo, In secondo luogo, gioca qui un ruolo cruciale l’elevata evasione fiscale, dal momento che impedisce recuperi di gettito di entità tale da consentire più agevolmente di ripagare il debito. (http://www.economiaepolitica.it/tag/interessi-sul-debito-pubblico/). In terzo luogo, e soprattutto, si può rilevare che gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato italiani sono, in ultima analisi, l’esito di una dinamica di lungo periodo di costante riduzione della domanda interna connessa a una costante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro (http://temi.repubblica.it/micromega-online/cosi-muore-leconomia-italiana/). Con una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, il finanziamento bancario della produzione e degli investimenti assume massima rilevanza, dal momento che poche imprese italiane riescono a reperire risorse sui mercati finanziari[4]. Come è stato rilevato, la restrizione del credito è, in ultima analisi, imputabile alla bassa domanda aggregata, dal momento che una bassa domanda aggregata si associa a bassi profitti e all’aumento dell’insolvenza delle imprese (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/). In tal senso, la riduzione del tasso di crescita generata dalla contrazione della domanda interna, dalla riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro e, a questa associata, dalla restrizione del credito, riducendo la solvibilità dello Stato italiano costringe lo stesso a collocare titoli del debito pubblico sui mercati azionari con tassi di interesse più alti. Si può, quindi, dedurre che la dinamica degli interessi sui titoli del debito pubblico è anche influenzata dalla dinamica dell’offerta di credito, dal momento che la sua riduzione comporta una riduzione del tasso di crescita e la conseguente necessità (per l’aumento della probabilità di insolvenza) di collocare titoli di Stato sui mercati finanziari con tassi di interesse crescenti. Il che dà luogo a un circolo vizioso di causazione cumulativa, che va dalla bassa spesa pubblica al basso tasso di crescita alla restrizione del credito alla contrazione degli investimenti e alla necessità di accrescere i tassi di interesse sul debito. E’ significativo osservare che questa dinamica non è affatto neutrale sul piano della distribuzione del reddito, per una duplice ragione.

In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica (in quanto si associa a un aumento degli interessi sui titoli del debito pubblico) costituisce un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria.

In secondo luogo, nell’impossibilità di “monetizzare” il debito, l’accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. Occorre chiarire che la ripartizione dell’onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema[5]. In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque lecito aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici)[6] venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale “la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell’alta finanza [è] l’indebitamento continuamente crescente dello stato” e secondo la quale “L’indebitamento dello stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio og­getto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, man­tenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”[7].

NOTE

[1] Per una critica a questa tesi, si rinvia a Luigi L.Pasinetti (The myth – or folly – of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’, “The Cambridge Journal of Economics”, 1, 22, 1998, pp.103-116), dove si mostra che non esiste alcun criterio scientifico per determinare un valore unico del rapporto debito pubblico/Pil sostenibile.

[2] Come scrive Steve Keen, “since the change in debt is a major component of aggregate demand, and aggregate demand determines employment, unemployment rises if the rate of change of debt falls (and vice versa)”V. S. Keen, Debunking economics, London-New York: Zed Books, 2011, p.342.

[3] Si veda A.Graziani, L’economia italiana dal ’45 a oggi. Bologna. Il Mulino, 1989.

[4] Su questa questione, si rinvia, in particolare, a P.Sylos Labini. Oligopolio e progresso tecnico. Torino: Einaudi, 1975 [1958].

[5] Cfr. G. Olsen and J.S.O’Connor, Power resource theory and the politics of reality, in J.S. O’Connor and G.Olsen (eds.) Power resouce Theory and the Welfare State. A Critical Approach. Toronto: University of Toronto Press, 1988, pp.3-33.

[6] Come scrivono Baran e Sweezy: “consideriamo il caso della spesa pubblica per alloggi e sanità … oltre un certo limite l’opposizione comincia a manifestarsi, dapprima da parte degli interessi immobiliari nei confronti della spesa per alloggi e da parte della nei confronti dei programmi pubblici di assistenza sanitaria. Ma presumibilmente gli interessi immobiliari non hanno particolari ragioni per opporsi all’assistenza sanitaria nè i medici particolari ragioni per opporsi agli alloggi. Ciò nonostante, una volta che entrambe le categorie abbiano cominciato a opporsi agli ulteriori aumenti di spesa nelle rispettive sfere, esse possono ben presto trovare di comune interesse unire le forze per opporsi sia all’aumento degli alloggi che all’aumento dell’assistenza sanitaria. L’opposizione per ciascuna voce di spesa, perciò, cresce proporzionalmente al numero delle voci di cui si vuole aumentare la spesa, e diventa dunque massima aumenti che riguardano tutte le voci del bilancio”. V. P.A. Baran e P.M.Sweezy, Monopoly Capital. An Essay on the American Economic and Social Order, Monthly Review Press, 1966, p.140.

[7] V. K.Marx, The Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte. Hamburg; English translation, Moscow, Progress Publisher, 1972 [1869].

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Gli effetti redistributivi del debito pubblico (se non è possibile “monetizzarlo)

[MicroMega online del 21 novembre 2014]

SINTESI. Nonostante le dichiarazioni di segno contrario, il Governo Renzi continua a riproporre misure di riduzione della spesa pubblica che, oltre a ridurre occupazione e crescita, aumentano il debito pubblico, sia in rapporto al Pil sia anche in valore assoluto. In un assetto istituzionale nel quale è impedita la monetizzazione del debito, l’aumento del debito comporta rilevanti effetti distributivi a danno dei percettori di redditi bassi e, su scala regionale, a danno prevalentemente delle famiglie meridionali e a beneficio dei percettori di rendite finanziarie.

E’ evidente che ogni emissione di titoli dello Stato determina sul mercato industriale una vera sottrazione di capitali e crea, per necessità, una classe di oziosi. E come il debito pubblico cresce, cresce parallelamente il numero delle persone che non fanno nulla e che vivono di rendita. Questa classe parassitaria deprime inevitabilmente le condizioni del lavoro. Poiché lo Stato, per mantenerla, è costretto ad attingere largamente all’imposta” (F.S.Nitti, 1894).

Il Presidente del Consiglio ha recentemente dichiarato che: “Se riusciremo a spostare l’attenzione dall’austerità alla crescita, cambiando il paradigma economico dominante di questi anni di crisi, la ricaduta sulla vita delle persone in posti di lavoro e capacità di spesa sarà evidente”, facendo propria una convinzione ormai pressoché dominante nel dibattito italiano secondo la quale le politiche di austerità hanno prodotto esclusivamente danni e, contrariamente all’obiettivo prefissato, hanno contribuito a far crescere il rapporto debito pubblico/Pil. Non vi è dubbio che ciò sia successo, e non vi è dubbio sul fatto che esse siano assolutamente irrazionali. Ma va registrato che questo Governo continua a praticare misure di riduzione della spesa pubblica (in particolare, nei settori della formazione e della sanità[1]), in palese contrasto con le dichiarazioni – o gli auspici – di Renzi. E va anche registrato che, almeno nelle intenzioni dichiarate, ciò che il Governo intende fare è convincere la commissione europea a rendere più “flessibili” i vincoli di finanza pubblica, così da rendere possibili politiche di spesa pubblica in disavanzo. Politiche che, nelle condizioni date, non potrebbero che essere finanziate tramite emissioni di titoli pubblici sui mercati finanziari.

Per capire se si tratta di una strategia efficace, occorre interrogarsi sugli effetti che la spesa pubblica produce sulla dinamica del debito pubblico e sulla distribuzione del reddito, in un assetto istituzionale nel quale è impedita la “monetizzazione”[2].

Va innanzitutto considerato che il debito pubblico italiano è più elevato della media europea ed è in continua crescita e che questo Governo non è fin qui riuscito a invertire la tendenza. Il rapporto debito pubblico/Pil è passato dal 103% del 2007, al 120% del 2011, all’attuale 132,3%, in un periodo nel quale la spesa pubblica è stata sempre ridotta e l’imposizione fiscale è sempre aumentata. Su questi aspetti, è opportuno porre queste considerazioni.

1) L’apparente paradosso della riduzione della spesa pubblica (e dell’aumento della pressione fiscale) a fronte del continuo aumento del debito, non solo in rapporto al Pil ma anche in valore assoluto, che l’Italia sperimenta da molti anni, può essere spiegato alla luce di un duplice effetto. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell’onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell’onere degli interessi (http://temi.repubblica.it/micromega-online/attenti-alla-deflazione-e-a-come-la-si-vuole-fermare/). In secondo luogo, la riduzione della spesa pubblica riduce la domanda interna, dal momento che l’indebitamento (pubblico e privato) è una componente della domanda aggregata[3]. Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, così che, anche per questa via, minore spesa può implicare più debito.  Un tasso di crescita di segno negativo o nullo, protrattosi, nel caso italiano, da almeno sei anni e in assenza di aspettative di ripresa, non può che generare l’aspettativa di crescente insolvenza e, dunque, non può che costringere lo Stato italiano a emettere titoli con tassi crescenti. Il criterio convenzionalmente adottato per definire la sostenibilità del debito, per il quale esso è tale se il tasso di crescita è maggiore del tasso di interesse reale, appare, in tal senso, discutibile, dal momento che non tiene conto del fatto che le due variabili non sono indipendenti: un basso tasso di crescita tende ad associarsi a tassi di interesse sui titoli elevati.

2) Un elevato e crescente debito pubblico costituisce un problema non perché frena la crescita riducendo gli investimenti privati, ma perché ha effetti ridistributivi che danneggiano i lavoratori a beneficio dei percettori di rendite finanziarie e delle grandi imprese.

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre considerare che il rimborso del debito – in un assetto istituzionale, quello dell’Unione Monetaria Europea, nel quale è fatto divieto di “monetizzare” il debito (ovvero ripagarlo attraverso emissioni di moneta da parte della Banca Centrale) – può rendersi possibile solo attraverso aumenti dell’imposizione fiscale. Dato l’elevato tasso di disoccupazione e conseguentemente il basso potere contrattuale dei lavoratori, non solo nel mercato del lavoro ma anche nella sfera politica, è ragionevole attendersi (anche in considerazione di quanto si è fin qui verificato) che l’accresciuta tassazione gravi essenzialmente sul lavoro, configurando così un meccanismo di redistribuzione del reddito che trasferisce risorse dal lavoro ai detentori di titoli di Stato, e, dunque, alla rendita finanziaria[4].

Per quanto riguarda il secondo aspetto, si può rilevare che l’attuazione di politiche fiscali restrittive reca vantaggi, di fatto, alle imprese di più grandi dimensioni, orientate alle esportazioni. Ciò per le seguenti ragioni. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica riduce l’occupazione e, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari, consentendo loro di recuperare competitività sui mercati internazionali attraverso compressione dei prezzi. La riduzione della domanda derivante da minore spesa pubblica e maggiore tassazione, per contro, riduce i profitti delle imprese – di norma, di più piccole dimensioni e localizzate nelle aree meno sviluppate del Paese – che vendono su mercati interni. La riduzione dei profitti delle piccole imprese (o anche il loro fallimento) consente di attuare operazioni di acquisizione. In secondo luogo, e per quanto attiene al finanziamento degli investimenti, se la riduzione della spesa pubblica comporta anche riduzione dell’emissione di titoli del debito pubblico, ciò consente loro di finanziarsi con costi minori sui mercati finanziari[5].

Queste considerazioni portano a rilevare che la gestione della politica fiscale riflette i conflitti intercapitalistici, dal momento che le imprese di piccole dimensioni hanno interesse all’espansione della domanda interna, interesse configgente con quello delle grandi imprese esportatrici, che trovano semmai possibile e conveniente reperire risorse nei mercati finanziari e vedere attuate politiche di moderazione salariale. Posta la questione in questi termini, segue che:

a) il divieto di monetizzazione del debito risulta funzionale a far crescere i guadagni speculativi di banche e imprese, tramite acquisti e vendite di titoli del debito pubblico nei mercati finanziari;

b) il divieto di monetizzazione del debito, in quanto comporta riduzioni di spesa e aumento della tassazione, porta tendenzialmente, anche in assenza di un’imposizione normativa, al pareggio di bilancio. E il pareggio di bilancio consente alle grandi imprese di reperire risorse nei mercati finanziari emettendo titoli che non entrano in competizione con quelli (con minore rischiosità) emessi dallo Stato. Ci si trova, dunque, nell’apparente paradosso di politiche (che si propongono come) liberiste che di fatto favoriscono processi di crescente concentrazione industriale[6].

Va aggiunto che la crescita del debito pubblico produce effetti ridistributivi anche su scala regionale. Su fonte Banca d’Italia si rileva che i titoli di Stato sono in larghissima misura detenuti da famiglie con alto reddito, prevalentemente residenti nelle regioni del Centro-Nord, mentre le famiglie con più basso reddito, e tipicamente le famiglie residenti nel Mezzogiorno, allocano i propri risparmi in forme più “tradizionali”, spesso in acquisto di buoni postali (file:///C:/Documents%20and%20Settings/utent/Desktop/suppl_05_14.pdf). La Corte dei conti registra che i trasferimenti di risorse pubbliche sono inferiori nel Mezzogiorno e che l’incidenza della pressione fiscale è anch’essa maggiore al Sud. In questo scenario, si può concludere che le famiglie meridionali (e, più in generale, le famiglie con più bassi redditi) traggono ben pochi benefici dell’espansione del debito, a fronte del fatto che comunque contribuiscono – via tassazione – al rimborso dello stesso.

Se, dunque, è vero che le politiche di austerità accrescono il rapporto debito/Pil, generando effetti redistributivi a danno dei lavoratori, può anche verificarsi un effetto esattamente simmetrico per il quale l’aumento della spesa pubblica produce i medesimi risultati. Ciò può verificarsi se la spesa viene finanziata attraverso emissioni di titoli del debito pubblico, in assenza di monetizzazione, dal momento che, anche a parità di tassi di interesse, lo Stato dovrà finanziare la spesa con emissioni aggiuntive di titoli. Rivendicare, come fa Renzi, l’abbandono delle politiche di austerità senza (a quanto risulta) specificare quali saranno i canali di finanziamento del debito può incorrere nel rischio di generare i medesimi effetti sul piano della distribuzione del reddito.

NOTE

[1] Sui tagli ai servizi sanitari, si veda http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Sanita-i-tagli-distratti-della-legge-di-stabilita-27128

[2] La monetizzazione del debito consiste nell’acquisto, da parte della Banca Centrale, di titoli di Stato, che la Banca Centrale pone nel suo attivo. Ciò consente a uno Stato di finanziarsi senza necessariamente dover ricorrere ai mercati finanziari, in una condizione nella quale i tassi di interesse risultano, di norma, più bassi. Sul tema, si vedano, fra gli altri, P. De Grauwe, The European Central Bank: Lender of Last Resort in the Government Bond Markets? CESifo Working Paper No. 3569, September, 2011; A. Terzi, When good intentions pave the road to hell: Monetization fears and Europe’s Narrowing options, “Levy Economics Institute, working paper n.810, June 2014.

[3] Come scrive Steve Keen, “since the change in debt is a major component of aggregate demand, and aggregate demand determines employment, unemployment rises if the rate of change of debt falls (and vice versa)”V. S. Keen, Debunking economics, London-New York: Zed Books, 2011, p.342.

[4] Si osservi anche che la crescita dell’emissione di titoli di Stato, e l’eventuale aumento dei loro rendimenti, costituisce un rilevante incentivo alla speculazione, e che l’attività speculativa si rende tanto massimamente conveniente nelle fasi nelle quali le banche restringono l’offerta di credito. Ciò a ragione del fatto che la restrizione del credito riduce la possibilità di effettuare investimenti e spinge le imprese a cercare di ottenere profitti nei mercati finanziari.

[5] D’altra parte, la restrizione del credito è un problema essenzialmente per le imprese di piccole dimensioni. Sul tema, si rinvia, fra gli altri, a P. Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico. Torino: Einaudi1963. Come osservava Graziani: “Le grandi multinazionali, così come hanno bisogno di utilizzare la forza lavoro là dove essa costa meno, devono anche poter attingere capitali finanziari nei mercati più convenienti, senza che gli Stati risucchino la finanza disponibile per coprire il disavanzo pubblico. Per consentire alla grande impresa di mettere in atto pienamente la propria strategia mondiale occorre quindi anche portare il bilancio pubblico al pareggio e ridimensionare drasticamente la presenza dello Stato nei mercati finanziari”. Si veda A.Graziani (a cura di), La spirale del debito pubblico. Bologna: Il Mulino, 1988.

[6] Sul tema, si rinvia R.Bellofiore e J.Halevi, La grande recessione e la terza crisi della teoria economica, http://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/34_2010bellofiore_halevi.pdf

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L’Italia dell’evasione fiscale

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 dicembre 2014]

Si calcola che l’evasione fiscale in Italia ammonta a un importo compreso (a seconda della metodologia di stima) fra i 90 e i 140 miliardi di euro. Non si tratta esclusivamente di una questione di ordine etico, sebbene quest’ordine di motivazione sia ovviamente di massima rilevanza, ma anche di un problema di massima rilevanza per la crescita economica e la distribuzione del reddito. Innanzitutto, va rilevato che, in presenza di un’elevata evasione fiscale e di un elevato debito pubblico, la tassazione su famiglie e imprese che non evadono né eludono è ovviamente molto elevata; cosa che contribuisce a spiegare l’elevatissima e crescente pressione fiscale in Italia, e il fatto che essa è strutturalmente più elevata della media europea.

E’ palese che l’illegalità ha un costo. Ed è possibile rilevare che un’elevata evasione fiscale è un problema non solo perché riduce il tasso di crescita, ma anche perché contribuisce a rendere sempre più diseguale la distribuzione del redditoCiò per le seguenti ragioni.

1) L’economia italiana sperimenta l’apparente paradosso di una costante riduzione della spesa pubblica e di un costante aumento del debito pubblico, non solo in rapporto al Pil ma anche in valore assoluto. Si tratta di un paradosso appunto apparente, la cui soluzione si rileva in questa sequenza. La riduzione della spesa pubblica comporta riduzione dell’occupazione e del tasso di crescita. La riduzione del tasso di crescita accresce il rischio di insolvenza da parte dello Stato, ovvero accresce la probabilità che lo Stato non sia più in grado di onorare il suo debito. Ciò impone allo Stato di emettere titoli con tassi di interesse crescenti, per far fronte alla loro maggiore rischiosità.

In più, in un assetto istituzionale nel quale è fatto divieto alla Banca Centrale di “monetizzare” il debito (ovvero di stampare moneta per acquistarlo), la tassazione finisce pressoché inevitabilmente per gravare sul lavoro e sulla piccola impresa. Nel Rapporto OCSE 2014 “Taxing wages”, si legge che la tassazione sul lavoro, in Italia, è la più alta fra quella dei maggiori Paesi industrializzati, e che la tassazione in Italia supera nettamente la media OCSE soprattutto sui salari più bassi (44,7% contro 32,2%). Ciò a ragione della duplice considerazione che non è conveniente né tassare i propri creditori né tassare potenziali contribuenti che godono di elevata mobilità territoriale. Si consideri, a riguardo, che il principale creditore dello Stato è il settore bancario, che potrebbe reagire a un aumento della tassazione sui suoi utili riducendo l’acquisto di titoli; e si consideri anche che le grandi imprese possono reagire a un aumento della tassazione minacciando la delocalizzazione (o realizzandola di fatto). In entrambi i casi, le entrate fiscali derivanti dalla tassazione di questi potenziali contribuenti potrebbero essere di entità irrisoria o, al limite, nulla.  E, ancor peggio, nel primo caso si determinerebbero ulteriori problemi di vendita di titoli di Stato e, con riferimento alle delocalizzazioni, si determinerebbero ulteriori riduzioni del tasso di crescita, come conseguenza dei minori investimenti.

A ciò si può aggiungere che l’incremento della tassazione sul lavoro genera un duplice effetto recessivo. Un’elevata evasione fiscale, in quanto si associa a maggiore tassazione sul lavoro dipendente, genera effetti ridistributivi a danno dei percettori di redditi bassi, ovvero di famiglie con più elevata propensione al consumo. Ne segue una riduzione dei consumi, della domanda, dell’occupazione e del tasso di crescita, che delinea una spirale viziosa per la quale, a fronte della contrazione del tasso di crescita e della conseguente maggiore rischiosità dei titoli del debito pubblico, si rende necessario accrescere ulteriormente la tassazione sul lavoro, per far fronte all’aumento dell’onere del debito. In più, un’elevata tassazione sul lavoro, e dunque la riduzione dei redditi disponibili, deteriora la qualità del lavoro stesso, dal momento che rende più difficile l’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione, con conseguente calo del tasso di crescita della produttività. Questo effetto è accentuato dal fatto che la contrazione dei consumi e della domanda riduce i profitti (e/o genera fallimenti), riducendo gli investimenti e producendo – anche per questa via – effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro

2) Assumendo data la “moralità fiscale” dei contribuenti, in quanto la riduzione della spesa pubblica si traduce in una riduzione dell’occupazione nel settore pubblico (dove il prelievo fiscale è alla fonte ed è dunque limitato, se non nullo, lo spazio per l’evasione), ciò contribuisce quantomeno a rendere possibile ulteriori aumenti dell’evasione fiscale.

Si può anche rilevare che, come attestato dalla Ragioneria Generale dello Stato, l’incidenza dell’evasione fiscale non è uniforme sul territorio nazionale, ed è mediamente più alta nelle regioni settentrionali, così che essa contribuisce a produrre diseguaglianze distributive anche su scala regionale, a danno delle famiglie meridionali.

Se non vi può essere dubbio sul fatto che l’evasione fiscale contribuisce a frenare la crescita economica e ad accentuare le diseguaglianze distributive, si possono avanzare molte perplessità sulla linea che il Governo intende perseguire, e sintetizzata così dal nostro Presidente del Consiglio: “bisogna cambiare approccio verso il cittadino che si deve sentire moralmente accompagnato e il pubblico non è solo controllore ma diventa il consulente. Per chi sbaglia non ci sono scappatoie, va stangato ma le norme vanno rese più semplici, la semplicità è presupposto per il contrasto alla criminalità”. Le misure di semplificazione, come previsto nella Legge di Stabilità, dovrebbero consentire un recupero di gettito derivante dal contrasto all’evasione pari a 3.5 miliardi di euro.

Per provare a capire se la strategia governativa possa rivelarsi efficace, occorre partire da un dato. Su fonte Banca d’Italia, si registra che la gran parte dell’evasione è generata da imprenditori e lavoratori autonomi, ed è prevalentemente concentrata al Nord. Il fenomeno non sembra avere andamenti ciclici, e si registra che le normative di contrasto fin qui poste in essere sono state sistematicamente ed efficacemente aggirate. La convinzione che si possa recuperare gettito attraverso semplificazioni del sistema di pagamento delle imposte (convinzione che si basa sull’idea che si evade perché è difficile pagare) è ormai un topos delle strategie di contrasto all’evasione, essendo stata alla base dei tentativi di contrastarla almeno a partire dal secondo Governo Berlusconi (e riproposta dai Governi Monti e Letta). In tal senso, le proposte di Renzi non sono affatto nuove e, data l’evidenza suggerita dall’esperienza recente, laddove i recuperi di gettito sono stati assolutamente irrisori, non vi è da aspettarsi che la semplificazione sia risolutiva. Ed è anche legittimo ritenere che l’aumento delle entrate derivante dalla minore evasione, così come previsto dalla Legge di Stabilità, sia ampiamente sovrastimato.

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Le vecchie (e inefficaci) ricette del governo per la lotta all’evasione fiscale


[“MicroMega” online del 18 dicembre 2014]

SINTESI. Il tema della lotta all’evasione fiscale non sembra essere prioritario nell’agenda di questo Governo, nonostante l’evasione continui a essere alta e costituisca un rilevante freno alla crescita e un rilevante fattore di aumento delle diseguaglianze distributive. Il Governo ha scelto di riproporre misure di semplificazione per contrastare il fenomeno: ma si tratta di una linea già percorsa, con risultati decisamente deludenti.

Si calcola che l’evasione fiscale in Italia ammonta a un importo compreso (a seconda della metodologia di stima) fra i 90 e i 140 miliardi di euro[1]. Non si tratta esclusivamente di una questione di ordine etico, sebbene quest’ordine di motivazione sia ovviamente di massima rilevanza, ma anche di un problema di massima rilevanza per la crescita economica e la distribuzione del reddito. Innanzitutto, va rilevato che, in presenza di un’elevata evasione fiscale e di un elevato debito pubblico, la tassazione su famiglie e imprese che non evadono né eludono è ovviamente molto elevata; cosa che contribuisce a spiegare l’elevatissima e crescente pressione fiscale in Italia, e il fatto che essa è strutturalmente più elevata della media europea.

E’ palese che l’illegalità ha un costo. Ed è possibile rilevare che un’elevata evasione fiscale è un problema non solo perché riduce il tasso di crescita, ma anche perché contribuisce a rendere sempre più diseguale la distribuzione del redditoCiò per le seguenti ragioni.

1) L’economia italiana sperimenta l’apparente paradosso di una costante riduzione della spesa pubblica e di un costante aumento del debito pubblico, non solo in rapporto al Pil ma anche in valore assoluto. Si tratta di un paradosso appunto apparente, la cui soluzione si rileva in questa sequenza. La riduzione della spesa pubblica comporta riduzione dell’occupazione e del tasso di crescita. La riduzione del tasso di crescita accresce il rischio di insolvenza da parte dello Stato, ovvero accresce la probabilità che lo Stato non sia più in grado di onorare il suo debito. Ciò impone allo Stato di emettere titoli con tassi di interesse crescenti, per far fronte alla loro maggiore rischiosità.

In più, in un assetto istituzionale nel quale è fatto divieto alla Banca Centrale di “monetizzare” il debito (ovvero di stampare moneta per acquistarlo), la tassazione finisce pressoché inevitabilmente per gravare sul lavoro e sulla piccola impresa. Nel Rapporto OCSE 2014 “Taxing wages”, si legge che la tassazione sul lavoro, in Italia, è la più alta fra quella dei maggiori Paesi industrializzati, e che la tassazione in Italia supera nettamente la media OCSE soprattutto sui salari più bassi (44,7% contro 32,2%). Ciò a ragione della duplice considerazione che non è conveniente né tassare i propri creditori né tassare potenziali contribuenti che godono di elevata mobilità territoriale. Si consideri, a riguardo, che il principale creditore dello Stato è il settore bancario, che potrebbe reagire a un aumento della tassazione sui suoi utili riducendo l’acquisto di titoli; e si consideri anche che le grandi imprese possono reagire a un aumento della tassazione minacciando la delocalizzazione (o realizzandola di fatto). In entrambi i casi, le entrate fiscali derivanti dalla tassazione di questi potenziali contribuenti potrebbero essere di entità irrisoria o, al limite, nulla.  E, ancor peggio, nel primo caso si determinerebbero ulteriori problemi di vendita di titoli di Stato e, con riferimento alle delocalizzazioni, si determinerebbero ulteriori riduzioni del tasso di crescita, come conseguenza dei minori investimenti.

A ciò si può aggiungere che l’incremento della tassazione sul lavoro genera un duplice effetto recessivo. Un’elevata evasione fiscale, in quanto si associa a maggiore tassazione sul lavoro dipendente, genera effetti ridistributivi a danno dei percettori di redditi bassi, ovvero di famiglie con più elevata propensione al consumo. Ne segue una riduzione dei consumi, della domanda, dell’occupazione e del tasso di crescita, che delinea una spirale viziosa per la quale, a fronte della contrazione del tasso di crescita e della conseguente maggiore rischiosità dei titoli del debito pubblico, si rende necessario accrescere ulteriormente la tassazione sul lavoro, per far fronte all’aumento dell’onere del debito[2]. In più, un’elevata tassazione sul lavoro, e dunque la riduzione dei redditi disponibili, deteriora la qualità del lavoro stesso, dal momento che rende più difficile l’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione, con conseguente calo del tasso di crescita della produttività. Questo effetto è accentuato dal fatto che la contrazione dei consumi e della domanda riduce i profitti (e/o genera fallimenti), riducendo gli investimenti e producendo – anche per questa via – effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro

2) Assumendo data la “moralità fiscale” dei contribuenti, in quanto la riduzione della spesa pubblica si traduce in una riduzione dell’occupazione nel settore pubblico (dove il prelievo fiscale è alla fonte ed è dunque limitato, se non nullo, lo spazio per l’evasione), ciò contribuisce quantomeno a rendere possibile ulteriori aumenti dell’evasione fiscale.

Si può anche rilevare che, come attestato dalla Ragioneria Generale dello Stato, l’incidenza dell’evasione fiscale non è uniforme sul territorio nazionale, ed è mediamente più alta nelle regioni settentrionali, così che essa contribuisce a produrre diseguaglianze distributive anche su scala regionale, a danno delle famiglie meridionali.

Se non vi può essere dubbio sul fatto che l’evasione fiscale contribuisce a frenare la crescita economica e ad accentuare le diseguaglianze distributive, si possono avanzare molte perplessità sulla linea che il Governo intende perseguire, e sintetizzata così dal nostro Presidente del Consiglio: “bisogna cambiare approccio verso il cittadino che si deve sentire moralmente accompagnato e il pubblico non è solo controllore ma diventa il consulente. Per chi sbaglia non ci sono scappatoie, va stangato ma le norme vanno rese più semplici, la semplicità è presupposto per il contrasto alla criminalità”. Le misure di semplificazione, come previsto nella Legge di Stabilità, dovrebbero consentire un recupero di gettito derivante dal contrasto all’evasione pari a 3.5 miliardi di euro.

Per provare a capire se la strategia governativa possa rivelarsi efficace, occorre partire da un dato. Su fonte Banca d’Italia, si registra che la gran parte dell’evasione è generata da imprenditori e lavoratori autonomi, ed è prevalentemente concentrata al Nord. Il fenomeno non sembra avere andamenti ciclici, e si registra che le normative di contrasto fin qui poste in essere sono state sistematicamente ed efficacemente aggirate. La convinzione che si possa recuperare gettito attraverso semplificazioni del sistema di pagamento delle imposte (convinzione che si basa sull’idea che si evade perché è difficile pagare) è ormai un topos delle strategie di contrasto all’evasione, essendo stata alla base dei tentativi di contrastarla almeno a partire dall’ultimo Governo Berlusconi (e riproposta dai Governi Monti e Letta). In tal senso, le proposte di Renzi non sono affatto nuove e, data l’evidenza suggerita dall’esperienza recente, laddove i recuperi di gettito sono stati assolutamente irrisori, non vi è da aspettarsi che la semplificazione sia risolutiva[3]. Ed è anche legittimo ritenere che l’aumento delle entrate derivante dalla minore evasione, così come previsto dalla Legge di Stabilità, sia ampiamente sovrastimato.

NOTE

[1] Per un approfondimento sulle metodologie di stima, si rinvia al materiale elaborato dal Tax Justice Network: http://www.taxjustice.net/

[2] Ciò non necessariamente implica che l’evasione fiscale accentui il problema della sostenibilità del debito. Si veda a riguardo: https://ideas.repec.org/p/ces/ceswps/_4004.html

[3] Come peraltro autorevolmente attestato da una recente pronuncia della corte dei conti. Per un resoconto della valutazione della magistratura contabile sulle politiche di contrasto all’evasione fiscale si rinvia a http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/02/corte-dei-conti-evasione-fiscale-norme-contrastanti-manca-strategia/1245604/)

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