Draghi insiste sul fatto che, anche a ragione della pandemia di inizi 2020, l’Unione Monetaria Europea ha subito alcune importanti riforme interne delle quali la gran parte dell’opinione pubblica è sostanzialmente ignara e mette in evidenza il fatto che, ai fini della sua sostenibilità (qui in particolare il riferimento è alla crescita esponenziale della disoccupazione giovanile) altre riforme sono previste. Cade, o quantomeno cede, il tabu del debito e l’apologia dell’austerità, anche a seguito della sospensione del Patto di stabilità.
E’ anche recente la dichiarazione del vicepresidente esecutivo della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, rilasciata al Financial Times, per la quale l’austerità nuoce alla crescita ed è bene che il rientro in vigore del Fiscal Compact (che ne costituisce la base giuridica) sia rinviato almeno al 2022.
Il punto in discussione non è tuttavia (o non solo) l’ammontare e la dinamica del debito pubblico, ma l’uso che di questo viene fatto. Se è vero che l’Unione Monetaria Europea sta compiendo qualche passo nella direzione di una sua auto-riforma – dalla quale il tabu del debito sarebbe esclusa – è altrettanto vero che l’impostazione delle politiche economiche per la crescita pare immutata e basata su un mix di agevolazioni fiscali alle imprese e di moderazione salariale. La crescita del debito, in questa prospettiva, serve a trasferire risorse monetarie ai soggetti più svantaggiati, in una prospettiva di breve termine (v. programma SURE sui sussidi di disoccupazione). Manca una revisione della normativa sul mercato del lavoro e contro la precarizzazione e, nonostante il discorso di Draghi, mancano misure di contrasto alla disoccupazione giovanile.
In sostanza, si lascia crescere il debito per far fronte a una fase emergenziale, lasciando le prospettive di crescita di lungo periodo alle sole dinamiche spontanee di mercato. Ma queste ultime, come ampiamente mostrato in questi anni, non fanno che produrre divergenze crescenti fra Paesi centrali e Paesi periferici del continente.
E’ un dato di fatto, in effetti, che un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente a produrre crescenti diseguaglianze su scala regionale, soprattutto per l’operare di effetti di polarizzazione (laddove sono già concentrate molte imprese con elevato potenziale produttivo ciò attira altre imprese da regioni meridionali dell’area considerata).
La linea della moderazione salariale sta incontrando qualche resistenza anche all’interno delle Istituzioni europee: Thierry Breton, commissario europeo all’Industria, si è recentemente espresso a favore del recupero della ‘sovranità tecnologica’ europea, ovvero di un sistema di produzione di innovazioni che non sia dipendente dall’estero e che al tempo stesso non dipenda da illusioni sovraniste. In altri termini, si tratterebbe di intercettare il flusso di nuovi beni e servizi che Cina e Stati si contendono per generare un percorso di innovazione endogena.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 settembre 2020]