Il verbo «paventare» (molto antico nella nostra lingua, attestato fin dal Duecento) vuol dire ‘prevedere con timore che si verifichino circostanze spiacevoli, negative o funeste’. Ad esempio: «pavento una seconda ondata di pandemia a causa dei comportamenti scriteriati di molti»; oppure: «pavento che in questa situazione possa nascere una dittatura». In questo senso la parola è usata correttamente, non ci sono tentennamenti. Tuttavia sono frequenti, nella lingua quotidiana parlata e scritta, accanto al significato di ‘sollecitare’ che abbiamo ascoltato nella frase pronunziata al TG7, altre due accezioni, pure errate. È errato il significato di ‘ipotizzare’, ‘ritenere’, ‘credere’ che troviamo in una dichiarazione rilasciata da Antonino Monteleone, inviato della notissima trasmissione “Le Iene”. Il giornalista, parlando di una disavventura economica in cui è incappato José Carlos Alvarez, ex-compagno di Rocco Casalino, portavoce del presidente del Consiglio, spiega: «Addirittura si è paventato che il compagno di Casalino, visto il delicato incarico ricoperto da quest’ultimo, avrebbe “speculato” sui mercati sfruttando informazioni privilegiate». Per concludere, scagionando da ogni accusa la persona coinvolta: «La “notizia” esiste ma è quella di un ragazzo tra migliaia, appena trentenne, fregato dalla réclame del trading online». È errato anche il significato di ‘annunciare’ che ricorre nella confidenza che mi rivolge un caro amico: «Sono davvero stanco. Perciò ho dovuto paventare al mio capo che mi prenderò finalmente due o tre giorni di vacanza, a partire da domani». Accezioni errate, quindi da rifiutare, pur se sdoganate e fatte proprie da parlanti e scriventi tutt’altro che incolti.
Andrea Camilleri è lo scrittore siciliano che tutti conoscono, uno dei casi letterari italiani di maggior successo degli ultimi decenni. In particolare negli ultimi anni ricopriva il ruolo del veggente, con la sua inconfondibile voce roca ammoniva a riflettere su quello che succede intorno a noi e nel mondo. Ormai cieco, vedeva cose che quasi nessuno vede. Somigliava in questo a un altro grande vecchio cieco, Jorge Luis Borges autore di un commovente «Elogio de la sombra» («Elogio dell’ombra»). Nel 2013 è uscito da Laterza «La lingua batte dove il dente duole», un libro scritto a quattro mani da Andrea Camilleri e Tullio De Mauro, uno scrittore e un linguista parlano della lingua. Della lingua e del dialetto, che è centrale nella riflessione di entrambi. De Mauro: «La parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua»; Camilleri: «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la “cosa stessa”, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto». La lingua è l’albero, i dialetti sono la linfa, cosi concludono quei due grandi dalla conversazione allusiva e scintillante.
De Mauro è autore di una serie mirabile di opere conosciute da tutti i linguisti, e anche da molti che linguisti non sono (una volta Corrado Augias ha affermato che la «Storia linguistica dell’Italia unita» di De Mauro fu uno dei libri fondamentali per la sua formazione). Con l’epopea di Montalbano (poi amplificata dalla serie televisiva) Camilleri ha avvicinato alla sua scrittura plurilingue milioni di italiani, inducendoli a familiarizzare con sicilianismi un tempo sconosciuti: «s’arrisbigliò» ‘si risveglio’; «astutare» ‘spegnere’; «babbiari» ‘prendere in giro’, ‘imbrogliare’ (lo voce è entrata nel vocabolario Zingarelli, fa parte del lessico italiano); «un cinquantino» ‘un individuo di cinquant’anni’; «parrino» ‘prete’; «tabbuto» ‘cassa da morto’; «li linzola arravugliati» ‘le lenzuola aggrovigliate’; perfino un arabismo come «taliare» ‘guardare’, ecc. Chi, ormai, non conosce il significato di «rompere / scassare i gabbasisi»? (Anche questo sostantivo è un arabismo, deriva dall’arabo “ḥabb ‘azīzo”, “ḥabbal-‘azīz”, letteralmente ‘bacca rinomata’, ‘tubero’, con intuibile passaggio dalla forma del vegetale a quella della ghiandola genitale maschile).
Il capitolo finale del libro si intitola «Contro il cattivo uso delle parole». Camilleri racconta: «Ho sentito con le mie orecchie: “Il generale Dalla Chiesa venne giustiziato a Palermo”. Ma il verbo giustiziare ha un significato preciso, del tutto diverso da assassinare, e nella loro distanza c’è tutto il senso e la sostanza della vicenda». De Mauro aggiunge: «Nei giorni del terremoto in Emilia, un corrispondente ha detto: “Le forze dell’ordine sono allertate perché ci sono degli sciacalli in giro che vanno nelle case abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a fare rappresaglia di tutto quello che trovano”. Lo ha detto due volte, fare rappresaglia nel senso di ‘rubare’, ’rubacchiare’». E, a rinforzo, cita due esempi di «paventato» per ‘annunziato’, proprio uno degli usi impropri del verbo di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo. Aggiungo un esempio dei nostri giorni, che pare inarrestabile. «Tamponare» con il significato di ‘fare il tampone’ (per accertare l’infezione da covid-19) trabocca dalle trasmissioni televisive e dagli articoli di giornale; lo ha usato, ancora la sera del 31 agosto, Luca Telese. È sbagliato, non ci sono dubbi (si dice «tamponare una ferita, tamponare la crisi monetaria, tamponare un’automobile»). Il nuovo significato appare a me, oltre che errato, involontariamente comico.
Così il cerchio lessicale si chiude. Ma resta il problema. La trasandatezza e il cattivo uso dell’italiano sfiorano ormai gli ambienti di coloro che usano professionalmente la lingua. Come può capitare che perfino ottimi giornalisti si lascino andare a usi trascurati della lingua? Non ho risposte. Ci riflettano i lettori, scrivano, facciano sapere (se vogliono) quello che pensano. Discutiamone insieme.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 settembre 2020]