Saggi di critica della politica economica – Anno 2013

  1. Vi è, in primo luogo, la difficoltà del coniugare la cura domestica e l’attività lavorativa, difficoltà che aumenta laddove è carente la fornitura di servizi che consentano di rendere possibile lo svolgimento delle due attività. Posta la questione in questi termini, dovrebbe derivarne – per quanto attiene agli indirizzi di politica economica – che il problema potrebbe essere attenuato solo a condizione che lo Stato fornisca maggiori (e migliori) servizi alle famiglie, e li fornisca soprattutto nelle aree del Paese dove il fenomeno è più accentuato. Va, tuttavia, rilevato che, come conseguenza delle politiche di austerità (e, dunque, di contrazione della spesa pubblica), le politiche pubbliche in favore delle componenti deboli della forza-lavoro sono di segno contrario rispetto a quanto auspicabile: la spesa pubblica per l’erogazione di servizi pubblici essenziali e di sostegno alle famiglie è in drastica riduzione, ed è minore proprio nelle Regioni più povere. In altri termini: tanto minore è la spesa pubblica per servizi di Welfare che riducano i tempi dedicati alle attività di cura domestica (assumendo che queste siano svolte prevalentemente da donne), tanto maggiore è il tasso di disoccupazione femminile.
  2.  La carenza di servizi spiega solo parte del fenomeno, che si può far dipendere anche dalle pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro. Si ha discriminazione in tutti i casi nei quali un datore di lavoro non assume o accorda un trattamento retributivo e/o non retributivo peggiore a individui che appartengono a determinati gruppi, indipendentemente da valutazioni che attengono all’effettiva loro produttività.
    La discriminazione nel mercato del lavoro si produce a ragione dell’operare di questo meccanismo. Si parta da una constatazione. Ogni datore di lavoro fronteggia il problema dell’accertamento dell’effettiva abilità dei potenziali lavoratori assunti. La selezione è, infatti, costosa (occorre costituire commissioni esaminatrici, formulare test, valutare i curricula) ed è tanto più costosa quanto più è accurata, quanto maggiore è il numero dei candidati e quanto più specifico è il ruolo o la mansione da assegnare. Se alla selezione partecipano uomini e donne, e se la selezione dà esiti incerti, ciò che prevedibilmente orienterà la scelta del datore di lavoro è la probabilità che egli attribuisce al fatto che il lavoratore abbia investito nella propria qualificazione. In un contesto istituzionale nel quale la gran parte dei datori di lavoro ritiene che le donne siano abbiano minori competenze (generali e tecniche), l’esito della selezione non può che essere l’assunzione preferenziale di lavoratori maschi. Alla componente femminile della forza-lavoro, nella misura in cui è a conoscenza dell’esistenza di pratiche discriminatorie, conviene ridurre i costi della propria formazione, con la conseguenza che anche la componente ‘forte’ dell’offerta di lavoro avrà incentivo a farlo. In tal senso, la discriminazione trae origine da “profezie autoconfermatisi”, cioè da convenzioni che si rafforzano proprio in virtù del fatto che vengono poste in essere pratiche discriminatorie e ha, come conseguenza, il disincentivo – per entrambe le componenti della forza-lavoro – ad accumulare conoscenze. Da ciò segue che la discriminazione, non soltanto per il fatto che comprime l’offerta di lavoro femminile, ma anche perché ne riduce il potenziale produttivo, comprime il tasso di crescita, generando, per questa via, l’amplificarsi del circolo vizioso di aumento della disoccupazione (e, in particolare, della disoccupazione femminile) e, per conseguenza, di incremento della dipendenza economica delle donne.
    Tendenzialmente, la propensione ad attuare comportamenti discriminatori, da parte dei datori di lavoro, è maggiore nelle aree di più recente industrializzazione, a ragione del fatto queste aree sono quelle nelle quali è maggiormente elevata l’incidenza del settore agricolo: ed economie con elevata incidenza del settore agricolo sono, di norma, economie nelle quali è prevalente la cultura patriarcale. Posta la questione in questi termini, non desta sorpresa il fatto che – come mostrato da un’ampia evidenza empirica – le donne lavorano meno proprio nelle aree del Paese dove è maggiormente concentrata la povertà. Naturalmente, questa constatazione sconta il fatto che le rilevazioni ufficiali non tengono conto, giacché, per sua natura, non possono farlo, delle dimensioni dell’economia sommersa, anche queste maggiori nelle regioni meridionali. Questo rilievo è comunque apparentemente paradossale. Ci si aspetterebbe, infatti, che laddove i redditi sono più bassi, maggiore sia la propensione delle componenti ‘deboli’ della forza-lavoro (le donne in primo luogo) a cercare lavoro per integrare la retribuzione di chi in famiglia lavora, ovvero che prevalga l’effetto del “lavoratore aggiunto”. Il paradosso è solo apparente, dal momento che i bassi redditi familiari sono correlati a un alto tasso di disoccupazione: in altri termini, le aree del Paese dove i salari sono più bassi sono anche le aree nelle quali la disoccupazione è più alta. Ciò che, di norma, accade in questi casi è che gli individui con minor potere contrattuale nel mercato del lavoro cessano di cercare occupazione proprio quando la probabilità di trovare lavoro è bassa, ovvero proprio quando il tasso di disoccupazione è alto. Il fenomeno – noto come fenomeno del “lavoratore scoraggiato” – ha una sua motivazione razionale, dal momento che l’attività di ricerca di lavoro comporta costi, in termini monetari e di tempo.

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Se il lusso cresce in tempo di crisi

[“Il Nuovo Quotidiano di Puglia” del 10 gennaio 2012 ]


Una recente indagine di “Frontier Economics” ha posto in evidenza l’importanza del settore dei beni di lusso per la ripresa della crescita economica europea, stimando che la produzione totale del settore supera i 440 miliardi, che essa rappresenta il 3% del PIL del continente, e che il settore occupa circa un milione di lavoratori e almeno altri 500.000 nel suo indotto. A ciò si aggiunge che la quota di mercato detenuta dalle imprese europee del settore copre oltre il 70% del mercato mondiale, e che il settore ha registrato una crescita consistente dei ricavi negli ultimi due anni e che si prevede un loro ulteriore aumento nell’ordine di circa l’8% annuo.

Come è noto, l’Italia è fra i Paesi leader nella produzione di beni di lusso: si stima che la crescita delle nostre esportazioni – per questa tipologia di beni – si è ridotta, a fronte della crisi, del solo 1.9% e che si prevedono incrementi di vendite soprattutto negli Stati Uniti e in Russia (rispettivamente di circa il 15% e di circa il 17%), con ulteriori ampie possibilità di sbocco, in particolare, in Brasile, Cina e India. Le imprese italiane produttrici di beni di lusso hanno ottenuto incrementi di fatturato stimati nell’ordine dei 180 miliardi di euro nel 2010 (dopo la leggera flessione del 2009), con un incremento di circa il 10% nel 2011. Queste stime fanno riferimento a una tipologia di beni – tipicamente: abbigliamento, accessori di moda, gioielleria, accessori preziosi – il cui prezzo supera di almeno il 200% il prezzo medio di categoria.

Si tratta di dati che pongono due interrogativi, che attengono alle cause e agli effetti del fenomeno. 1) In primo luogo, è del tutto evidente che l’espansione del settore è imputabile alla crescente disuguaglianza distributiva su scala globale. La polarizzazione dei redditi – risultato dell’impoverimento assoluto e relativo dei lavoratori e della ‘classe media’ nei Paesi industrializzati nel corso (almeno) dell’ultimo ventennio – contribuisce, infatti, a generare una condizione nella quale (relativamente) pochi individui hanno accesso a beni che sono del tutto inaccessibili alla maggioranza della popolazione. Si tratta di gruppi sociali il cui reddito e il cui patrimonio non è stato pressoché per nulla intaccato né dalla crisi né dalle politiche di austerità messe in atto per farvi fronte. Ciò che ha reso (e rende) possibile questo stato di fatto è l’elevato potere contrattuale del quale la nuova “classe agiata” dispone, e che le consente di essere di fatto esentata da significativi incrementi della tassazione del suo reddito e del suo patrimonio. Un elevato potere contrattuale che, a sua volta, dipende dal fatto che la “classe agiata” in via diretta o indiretta, nella gran parte dei Paesi industrializzati, è anche élite politica e, dunque, partecipa (e orienta) le principali scelte di politica economica.

Vi è di più. La continua crescita del consumo di beni di lusso dipende anche dalla crescita dell’indebitamento privato, da parte di individui con reddito relativamente basso, il cui target di consumi è significativamente influenzato da effetti imitativi. Come l’esperienza recente ha messo in palese evidenza (ci si riferisce soprattutto alla crisi del 2007-2008, generata, in ultima analisi, dall’esponenziale aumento dei prestiti al consumo, in particolare negli USA), l’indebitamento privato costituisce un rilevante fattore di instabilità, dal momento che, in molti casi, si traduce nell’impossibilità di ripagare i debiti e nel conseguente aumento delle sofferenze bancarie. 2) La crescita della produzione e della vendita di consumi di lusso può essere interpretata come un indicatore del fatto che il capitalismo contemporaneo – oltre a essere caratterizzato dalla crescente ‘globalizzazione’ e dalla crescente ‘finanziarizzazione’ – è anche contrassegnato da un fenomeno che alcuni economisti definiscono il “divenire rendita del profitto”. In altri termini, la crescita del settore dei beni di lusso può non implicare crescita economica, potendo, per contro, essere associata alla tendenza al disinvestimento in altri settori, come peraltro mostrato da un’ampia evidenza empirica. Ciò a ragione del fatto che almeno parte di coloro che acquistano beni di lusso lo fanno attingendo ai profitti delle proprie imprese: aumenta la propensione al consumo da parte dei capitalisti e si riduce, contestualmente, la loro propensione all’accumulazione. Si genera, in questo modo, una spirale viziosa, stando alla quale la crescita delle vendite di beni di lusso si associa alla riduzione della produzione di beni di sussistenza. La conseguente caduta dei salari reali – comprimendo la domanda – costituisce un ulteriore incentivo per i capitalisti a ridurre gli investimenti. A ciò si può aggiungere che la crescita della produzione di beni di lusso si associa alla crescita della domanda di lavoro poco qualificato, contribuendo ad accentuare le caratteristiche – tipicamente italiane – di un modello di specializzazione produttiva a bassa intensità tecnologica, poco competitivo su scala internazionale. In tal senso, vi sono buoni argomenti per nutrire dubbi laddove si fa l’apologia del “Made in Italy”. Si tratta di argomenti che poggiano sui possibili effetti macroeconomici di segno negativo connessi dell’espansione del settore dei beni di lusso, e di argomenti che attengono a elementari ragioni di equità distributiva, validi – a maggior ragione – in un clima di austerità, nel quale è sempre più evidente che la distribuzione dei “sacrifici” è sempre più a danno di coloro che non dispongono di un potere contrattuale sufficiente per opporvisi.

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La tecnica della falsificazione

[in “MicroMega” online del 10 gennaio 2013]

Il Presidente Monti ci dice che, nel novembre 2011, nei giorni dell’insediamento del Governo “tecnico”, l’Italia era a rischio di fallimento e che si rischiava di non poter pagare i dipendenti pubblici. Ci dice anche che l’aumento del debito pubblico nel corso del 2012 è imputabile agli aiuti forniti dal nostro Paese a Grecia e Portogallo. Come è possibile tenere insieme queste due affermazioni? E’ ragionevole pensare che uno Stato a rischio di fallimento si adoperi per aumentare questo rischio (o accetti di farlo) per destinare proprie risorse al salvataggio di altri Stati?

Per quanto è possibile sapere, la prima affermazione è  tutta da dimostrare, e fin qui non dimostrata da fonti ufficiali: su fonte Ragioneria Generale dello Stato, al 2011, il bilancio dello Stato italiano presentava un consistente avanzo primario, presumibilmente di importo tale da scongiurare l’eventualità di non poter sostenere le spese correnti della pubblica amministrazione(http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2012/volume_II.pdf). Su queste basi, si può affermare – in attesa di smentita – che lo “stato di emergenza” (premessa delle politiche di austerità messe in atto, con la massima accelerazione, dal Governo “tecnico”)  non sussisteva e, dunque, che le politiche realizzate lo scorso anno rispondevano a obiettivi diversi da quello dichiarato (evitare il rischio di default). In più, l’impegno assunto dal Governo italiano di destinare ingenti risorse al “salvataggio” delle banche spagnole sta semmai a dimostrare che, fra i Paesi europei e ancor più fra i PIIGS, l’Italia è un Paese con una dinamica del bilancio pubblico già relativamente virtuosa. Non a caso, nella c.d. Agenda Monti, si fa ora correttamente riferimento al fatto che l’Italia è un “contributore netto” del bilancio europeo (http://www.agenda-monti.it/wp-content/uploads/2012/12/UnAgenda-per-un-impegno-comune-di-Mario-Monti.pdf). Ma, mentre nell’Agenda Monti, non è dato sapere se lo era già prima dell’insediamento del Governo “tecnico” o se lo è diventato nel corso del 2012, risulta evidente –  su fonte MEF – che, almeno dal 2010, l’Italia ha versato all’Unione Europea più di quanto ha ricevuto

(http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Rapporti-f/Le-Pubblic/Situazione/Archivio-T/STFF2011-ITRIM.pdf).

Si tratta di una questione, quest’ultima, che merita di essere chiarita. Mentre negli anni ottanta e novanta, l’Italia oggettivamente costituiva un’anomalia nell’ambito dei Paesi OCSE per il suo elevato debito pubblico, negli ultimi anni l’indebitamento italiano è stato sostanzialmente in linea con quello dei principali Paesi industrializzati e, in alcuni casi (Giappone in primo luogo), notevolmente inferiore. Se, dunque, nel 2011, l’Italia non era prossima a una condizione di fallimento, e se il suo indebitamento è stato sostanzialmente in linea con quello degli altri Paesi dell’Unione Europea, non si capisce – se non adducendo motivazioni che hanno a che vedere con le imminenti elezioni – per quale ragione il 2012 è stato caratterizzato dalla più alta pressione fiscale della storia del nostro Paese e per quale ragione ora Monti scriva, nella sua Agenda (p.5), che “ridurre le tasse si rende possibile”.

Il Governo Monti si insediò dichiarando che avrebbe perseguito tre obiettivi: il rigore, lo sviluppo, l’equità. Non solo nessuno dei tre obiettivi è stato raggiunto, ma da questi ci si è allontanati. Per quanto riguarda il rigore nella gestione delle finanze pubbliche, può essere sufficiente ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato, in un anno, di 6 punti percentuali. Il modesto calo degli interessi pagati sui titoli del debito pubblico (nell’ordine dello 0.5% in un anno) è imputabile, come rilevato da molti osservatori, non alla presunta “credibilità” del prof. Monti, ma agli interventi della Banca Centrale Europea nei mercati finanziari. Al netto degli acquisiti di titoli pubblici da parte della BCE, la dinamica dei differenziali di rendimento fra titoli italiani e bund tedeschi è stata, nel 2012, in linea con quella determinatasi l’anno precedente. In più, come recentemente attestato dal Fondo Monetario Internazionale, l’aumento del rapporto debito pubblico/PIL è avvenuto proprio per effetto delle politiche di austerità (http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/02/pdf/text.pdf). L’obiettivo dello sviluppo è stato clamorosamente mancato: la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale hanno prodotto un calo della domanda aggregata interna tale da generare un tasso di crescita negativo nell’ordine del -2,4% nel 2012 (fonte Banca d’Italia). L’Italia degli ultimi anni è diventato, fra i Paesi OCSE, uno dei Paesi (con Gran Bretagna e Stati Uniti) con la maggiore immobilità sociale e con la più diseguale distribuzione del reddito: dunque, un Paese sempre meno equo.

E’ anche difficile comprendere la tesi di Monti secondo la quale, a fronte di “sacrifici” necessari nel breve periodo, si attiverà – più o meno spontaneamente – un percorso di crescita in un futuro più o meno prossimo. La c.d. Agenda Monti è troppo vaga per capire quali meccanismi di ripresa della crescita Monti abbia in mente. Gli unici punti fermi sono la preclusione ideologica al ricorso a politiche keynesiane e una sostanziale ambiguità riguardo alle politiche per l’istruzione e la sanità.

A p.9 della sua Agenda, si legge: “La scuola e l’Università sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali”. Il prof. Monti pensa che questo risultato venga raggiunto attraverso il taglio di 300 milioni di euro alle Università statali che proprio il suo Governo ha decretato nell’ultima Legge di Stabilità? O pensa che scuola e Università sono “le chiavi per far ripartire il Paese” a condizione che siano private? Lo stanziamento di fondi aggiuntivi alla Bocconi deciso dal Governo da lui presieduto fa propendere per questa seconda ipotesi. C’è molto da dubitare sul fatto che la privatizzazione dell’istruzione sia una strategia efficace per generare crescita, e ci sono, per contro, ottime ragioni per ritenere che, come si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non accrescere l’indebitamento degli studenti e delle loro famiglie (http://www.roars.it/online/prestiti-donore-negli-usa-luniversita-e-una-rovina/).

A ciò Monti aggiunge: “Il servizio sanitario nazionale resta una conquista da difendere”. Lo scrive ora; ma non è forse vero che la sua spending review ha sottratto al servizio sanitario nazionale quasi 2mila miliardi di euro per il biennio 2012-2013?

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Imprese: il nanismo frena l’Italia

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 gennaio 2013]

La principale e sostanziale differenza fra l’economia italiana e quella tedesca non risiede (soltanto) nei differenti valori e nella differente dinamica del debito pubblico, né nel migliore funzionamento delle Istituzioni, ma soprattutto nella differente struttura produttiva. L’ISTAT certifica che la dimensione media delle imprese italiane è superiore, nell’Europa a 27, soltanto a quella della Grecia e del Portogallo e che, a differenza di questi Paesi, la numerosità delle imprese è relativamente elevata. Per molti anni, molti economisti hanno sostenuto che il ‘nanismo imprenditoriale’ italiano costituisce un fattore di vantaggio competitivo, adducendo la motivazione che, di norma, nelle imprese di piccole dimensioni i rapporti fra lavoratori dipendenti e datori di lavoro sono di tipo cooperativo, così che la produttività del lavoro tende a essere relativamente più alta rispetto a un assetto dominato da imprese di piccole dimensioni. La tesi del “piccolo è bello” ha legittimato la sostanziale assenza di una politica industriale in Italia, almeno a partire dall’ultimo trentennio. E’ bene chiarire che si è trattato di un errore teorico e politico di massima rilevanza, i cui effetti risultano oggi evidenti in regime di crisi. Un sistema produttivo popolato da imprese di grandi dimensioni è di gran lunga più efficiente di un sistema produttivo fatto da piccole imprese, per le seguenti ragioni.

1. Le imprese di grandi dimensioni possono sfruttare economie di scala, ovvero ottenere costi decrescenti al crescere della quantità prodotta. Ciò consente loro, da un lato, di produrre di più e, dall’altro, di ottenere maggiori profitti. Nelle fasi recessive, un’economia popolata da grandi imprese risulta, così, meno vulnerabile di un’economia con piccole imprese, dal momento che, nella condizione iniziale, i profitti sono mediamente maggiori nel primo caso. Inoltre, disponendo di maggiori profitti, le grandi imprese possono attivare processi innovativi attingendo a fondi interni e, più in generale, sono meno dipendenti dal sistema bancario. Anche in questo caso, in fasi recessive contrassegnate, come quella attuale, da restrizione del credito, un’economia popolata da imprese di piccole dimensioni è più vulnerabile: sono, cioè, più probabili casi di crisi aziendali e di fallimenti. Vi è di più. Proprio in ragione del fatto che un’economia con grandi imprese genera maggiori flussi di innovazione – come ampiamente attestato nel caso tedesco, in confronto con quello italiano – è evidente che è lì che la ricerca scientifica serve. E non casuale il fatto che, nell’ultimo biennio, mentre è aumentata la domanda di lavoro qualificato nelle aree centrali dell’Unione Europea, la domanda di lavoro qualificato in Italia si è ridotta. In altri termini, le imprese italiane assumono sempre più lavoratori poco scolarizzati e sempre più somministrano loro contratti a tempo determinato, cercando di essere competitive su scala internazionale comprimendo i costi di produzione. In tal senso, il sistema universitario è, dal loro punto di vista, un puro costo, e le decurtazioni di fondi alle Università (da ultima, quella prevista nella Legge di Stabilità approvata a dicembre scorso) non rispondono ad altra logica se non a quella di assecondare l’interesse di gran parte del mondo imprenditoriale di disporre di forza-lavoro poco qualificata.

2. In ragione del fatto che al crescere delle dimensioni imprenditoriali crescono i profitti, ciò costituisce una condizione permissiva perché i sindacati riescano a ottenere salari più alti. In altri termini, se i profitti sono bassi, le rivendicazioni salariali non possono che essere contenute, dal momento che è comunque nell’interesse stesso dei sindacati non far fallire l’impresa. E, siccome a salari più alti si associano maggiori consumi, si deduce che un’economia fatta da imprese di grandi dimensioni è un’economia nella quale, a parità di investimenti, la domanda aggregata è più alta ed è dunque più alta l’occupazione.

Le politiche economiche messe in atto negli ultimi anni non hanno fatto altro che assecondare questo modello di sviluppo, fondamentalmente attraverso due strategie: la moderazione salariale e la decurtazione di fondi alle Università. In entrambi i casi, si sono create politicamente le condizioni per incentivare ulteriormente le nostre imprese a competere attraverso la riduzione dei costi di produzione (salari in primo luogo), con effetti peraltro fallimentari per quanto attiene al recupero di competitività su scala internazionale. La nostra bilancia commerciale, infatti, è ormai in passivo strutturale: su fonte ISTAT, si registra che, nel secondo semestre del 2012, le importazioni sono maggiori delle esportazioni per un valore pari 569 milioni di euro. E soprattutto continuiamo ad esportare prodotti con basso contenuto tecnologico a fronte del fatto che i nostri principali partner commerciali esportano beni ad alto contenuto tecnologico. Si tratta, dunque, di una strategia perdente, che sarebbe auspicabile e urgente modificare. Così come, anche in considerazione delle specificità della nostra struttura produttiva, sarebbe auspicabile e urgente – nell’interesse stesso delle nostre imprese, e ancor più di quelle meridionali – ripensare le politiche di austerità. Poiché, infatti, le imprese italiane (e ancor più le imprese meridionali) vendono prevalentemente su mercati locali, politiche di riduzione della spesa pubblica, in quanto riducono i consumi, riducono i profitti, potendo determinare (come di fatto sta avvenendo) un massiccio incremento di fallimenti di impresa. Ai quali fa seguito l’incremento della disoccupazione, il calo dei salari, l’impoverimento crescente delle fasce deboli e del ceto medio, in un circolo vizioso che può arrestarsi solo attraverso politiche di espansione della spesa pubblica (e di riduzione della pressione fiscale), di limitazione dell’uso precario del lavoro, di aumento (o quantomeno non riduzione) delle spesa pubblica per l’istruzione e la ricerca e, non da ultimo, di contrasto al nanismo imprenditoriale.

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L’Italia, l’euro e il Rapporto Merrill Lynch

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° febbraio 2013]

L’Italia è, fra i Paesi ‘periferici’ europei, quello che avrebbe la maggior convenienza ad abbandonare l’euro. Lo stabilisce un recente Rapporto di Merrill Lynch, nel quale si legge: “L’Italia ha più incentivi della Grecia a uscire volontariamente dalla zona euro, mentre sarà più costoso per la Germania mantenere l’Italia all’interno. Ciò significa che l’Italia potrebbe essere ancora più riluttante della Grecia ad accettare dure condizioni per rimanere”. Le motivazioni fornite a sostegno di questa ipotesi possono così riassumersi. Innanzitutto – il che peraltro varrebbe per tutti i Paesi dell’eurozona nel caso questa deflagri – l’Italia potrebbe avvalersi dello strumento delle svalutazioni competitive, modificando unilateralmente il tasso di cambio, e accrescendo le proprie esportazioni. Va detto che l’effetto collaterale di queste politiche – effetto sperimentato diffusamente negli anni nei quali l’Italia le ha adottate – consiste in un aumento del tasso di inflazione, imputabile a un aumento dei prezzi dei prodotti importati.

E tuttavia, stando a Merrill Lynch, il primo effetto, per l’economia italiana, potrebbe essere di entità maggiore del secondo, a ragione del fatto che, molto più degli altri PIIGS, l’Italia ha una struttura produttiva (ancora) relativamente robusta, con una quota relativamente significativa di imprese ben posizionate nei mercati internazionali. In secondo luogo, come si legge nel Rapporto, potendo – nelle nuove condizioni – la Banca d’Italia stampare moneta (anche in questo caso, ciò avverrebbe per qualunque altro Paese che abbandoni l’euro), ciò costituirebbe un potente freno alla speculazione sui titoli del debito pubblico. Si cita, a riguardo, l’esperienza russa. La Russia dichiarò default sul debito sovrano nel 1998 e dopo poco meno di un anno i titoli pubblici e privati di quel Paese subirono un consistente aumento di rendimento. Gli economisti di Merrill Lynch spiegano che “Il mercato ha una memoria molto corta. Se fai le giuste politiche, e ci sono opportunità per gli investitori di fare soldi, al mercato non importa granché”. E’ interessante osservare che Merrill Lynch non è un autonomo Istituto di Ricerca, ma una della più grandi banche d’affari al mondo. In tal senso, il Rapporto di Merrill Lynch  potrebbe, tuttavia, avere un significato ben diverso da quello attribuibile a una disinteressata analisi scientifica: potrebbe, cioè, significare che agli speculatori interessa che l’Italia abbandoni l’euro e, per conseguenza, che l’intera eurozona deflagri (dal momento che appare ragionevole che se l’Italia dovesse decidere di abbandonare l’euro, verrebbe seguita da altri Paesi), oppure che l’Unione Europea si riduca alla c.d. Grande Germania (ovvero, Germania e Paesi satelliti). In altri termini, data l’opacità che caratterizza i moventi della speculazione, può considerarsi verosimile la congettura stando alla quale le più grandi Istituzioni finanziarie internazionali si attendono la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea così come la conosciamo e si preparano – anche incentivandola, come in questo caso – a speculare sui titoli del debito pubblico dei singoli Paesi. Si tratta di scenari sui quali è estremamente difficile, se non impossibile, formulare previsioni. Ma ciò che qui maggiormente interessa è che il Rapporto Merrill Lynch segnala un preoccupante stato d’allarme, comunque lo si voglia interpretare. E’ il segnale d’allarme relativo a una possibile imminente deflagrazione dell’eurozona, che si aggiunge a ulteriori segnali d’allarme del medesimo tenore proveniente da fonti altrettanto autorevoli. E’ ben nota (e condivisibile) la tesi secondo la quale, per far fronte alla crisi dell’eurozona, occorrerebbe creare un unico bilancio federale assegnando alla Banca Centrale Europea il ruolo di prestatore di ultima istanza (dandole cioè la possibilità di acquistare titoli del debito pubblico), passando, così, da un’Unione esclusivamente monetaria a un’Unione politica. Poiché, infatti, la speculazione si rende conveniente laddove esistono (come esistono oggi) profonde differenze dei tassi di crescita e del saldo della bilancia commerciale fra Paesi che restano sovrani ma che hanno ceduto sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea, è evidente che la creazione di un’Europa politica la renderebbe molto simile – come configurazione istituzionale – agli Stati Uniti, con la non irrilevante conseguenza che non sarebbero più tecnicamente possibili attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico dei singoli Stati. Si può considerare a riguardo, e a titolo esemplificativo, che gli Stati Uniti sono immuni da attacchi speculativi pur avendo un rapporto debito pubblico/PIL non eccessivamente inferiore a quello italiano (circa il 100% nel primo caso, a fronte di circa il 120% nel secondo caso). Letta in quest’ottica, la crisi europea è una crisi che dipende, in ultima analisi, da fattori politico-istituzionali: è ormai chiaro che è impossibile far fronte ad attacchi speculativi in assenza di una politica fiscale comune e di una Banca Centrale che possa attivamente intervenire sui mercati finanziari. Su questo aspetto, occorre sgombrare il campo da due equivoci. In primo luogo, si sostiene che laddove venga consentito alla Banca Centrale di acquistare titoli del debito pubblico, si produrrebbero incentivi – da parte dei singoli Governi – a praticare politiche fiscali espansive, con i (supposti) inevitabili sprechi. In secondo luogo, si ritiene che immissioni di liquidità da parte della Banca Centrale producano effetti inflazionistici. Entrambi gli argomenti sono molto opinabili, per le seguenti ragioni. Dare la possibilità alla Banca Centrale di acquistare titoli del debito pubblico dà, di fatto, ai singoli Governi la possibilità di gestire la politica fiscale senza il vincolo della necessità di collocare tutti i titoli del debito pubblico nel portafoglio di operatori privati. Ma da ciò non può farsi discendere la tesi stando alla quale le risorse pubbliche verrebbero allocate in modo inefficiente, giacché, da un lato, questo dipende da decisioni politiche relative alla “qualità” della spesa pubblica e, dall’altro, l’aumento della spesa pubblica è, di per sé, un fattore di crescita. Eventuali pressioni inflazionistiche potrebbero generarsi nel caso in cui, per effetto di un aumento della spesa pubblica, il conseguente aumento dell’occupazione generi consistenti aumenti dei salari e dei prezzi: il che, con ogni evidenza, non è lo scenario nel quale ci troviamo.

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Monti, l’Europa e la finanza

[in “MicroMega” online dell’8 febbraio 2013]

La principale motivazione teorica a sostegno dell’attuazione di politiche fiscali restrittive in una fase di caduta della domanda aggregata risiede nel c.d. effetto di spiazzamento, secondo il quale la riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della tassazione), riducendo i tassi di interesse, accresce gli investimenti privati generando crescita economica. A ciò si aggiunge che è necessario ridurre (o, con espressione più sfumata, “riqualificare”) la spesa pubblica, dal momento che essa è fonte di sprechi, inefficienze, corruzione. Si tratta di una tesi che sembra non reggere alla prova dei fatti, per le seguenti ragioni.

1) Il Governo italiano non ha attuato politiche di austerità riducendo la spesa pubblica. Su fonte Ragioneria Generale dello Stato (v. tabella 1) si registra che – nel corso dell’ultimo biennio – la spesa pubblica non si è ridotta in modo significativo, e si prevede un ulteriore aumento per il 2013. E’ aumentata soprattutto per l’aumento delle spese rubricate sotto la voce “risorse proprie Cee”, passate da 17.200 milioni di euro del 2010 ai 18.700 milioni di euro nel 2012. Le risorse proprie – che derivano dalla contribuzione dei cittadini – sono accreditate ogni mese all’Unione monetaria europea dagli Stati membri su un conto acceso dalla Commissione europea presso la banca centrale nazionale. Si è ridotta, per contro, la spesa per i redditi da lavoro dipendente, passata da 18.700 milioni di euro nel 2010 a 17.200 milioni di euro nel 2012. Contestualmente, si è registrato un notevole incremento della pressione fiscale, soprattutto nel 2012, generando – nel complesso – una sequenza di manovre fiscali di segno fortemente restrittivo, con la massima accelerazione lo scorso anno (cf. http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/un-governo-maledetto/).

Tabella 1: L’andamento della spesa pubblica in Italia (2010-2013)

2) Su fonte Banca d’Italia, si può verificare che – pure a fronte dell’adozione di politiche fiscali restrittive – non vi è stata una riduzione di entità significativa dei tassi di interesse. Nel periodo considerato, si registra una riduzione dei tassi di interesse sempre inferiore all’1% per i prestiti a famiglie e a società non finanziarie, a fronte di un lieve incremento dei tassi di interesse sui depositi  (http://www.bancaditalia.it/statistiche/SDDS/stat_fin/tassi_int/int_rat_070113/INTR_it_070113.pdf). In più, a fronte della riduzione – seppur modesta – dei tassi di interesse sui prestiti, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione nell’ordine del 9%, e, a fronte della riduzione dei tassi di interesse sui prestiti alle famiglie, i consumi in termini reali si sono ridotti del 3,7%. Il che attesta che, anche se il costo dell’indebitamento di è ridotto, le famiglie italiane hanno ridotto (o comunque non hanno aumentato) il loro indebitamento nei confronti delle banche. Il tasso di disoccupazione è passato dal 9% circa del settembre 2011 all’11% del settembre 2012 e il PIL è diminuito del 2,6% rispetto al secondo trimestre del 2011 (fonte ISTAT). Il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato, in un anno, di oltre 6 punti percentuali. Questi dati segnalano due punti critici, che sembrano contraddire la visione dominante: l’attuazione di politiche fiscali fortemente restrittive non ha effetti significativi sulla variazione dei tassi di interesse, e la riduzione dei tassi di interesse può essere associata a una riduzione degli investimenti e, a seguire, dell’occupazione e dei salari. Con riferimento al primo aspetto, una possibile spiegazione fa riferimento al fatto che i tassi di interesse praticati dalle banche prescindono, in larga misura, dalle politiche fiscali e monetarie attuate. In una fase contrassegnata da una rilevante caduta della domanda aggregata e da un rilevante tasso di mortalità delle imprese, è ragionevole attendersi che le banche riducano l’erogazione di credito, concedendolo alle sole imprese alle quali assegnano una bassa probabilità di insolvenza e mantenendo i tassi di interesse pressoché invariati. In altri termini, politiche di contrazione della domanda aggregata producono (o accentuano) fenomeni di restrizione del credito; e bassi interessi sui finanziamenti combinati con minore erogazione di finanziamenti si associano a una riduzione degli utili delle banche. Con riferimento al secondo aspetto, si può rilevare che la riduzione degli investimenti è causata dall’aumento della tassazione sugli utili d’impresa, dal peggioramento delle aspettative e, non da ultimo, proprio dalla riduzione dei prestiti erogati dalle banche. Il che dà luogo a un circolo vizioso che va dalla riduzione degli investimenti alla riduzione dell’occupazione alla riduzione dei salari. La riduzione dei salari, a sua volta, dipende non soltanto dall’aumento del tasso di disoccupazione, ma anche dal fatto che, con profitti attuali e attesi in riduzione, le imprese sono spinte a comprimere quanto più possibile i costi di produzione. In più, la riduzione dei salari, in quanto si associa alla riduzione dei consumi, unita alla riduzione degli investimenti e all’aumento della tassazione comprime ulteriormente la domanda aggregata, accentuando l’intensità della restrizione del credito e contribuendo ad amplificare la recessione.

In prima approssimazione, sembrerebbe imbattersi in un gioco a somma negativa, nel quale tutti perdono. Con ogni evidenza, la questione non si pone in questi termini. La necessità di attuare politiche di austerità in una fase di calo della domanda aggregata è, nei fatti, connessa all’impegno assunto dall’Italia di contribuire al bilancio europeo, e di farlo in una percentuale superiore alla media degli altri Paesi dell’eurozona. Si consideri che, nel III trimestre del 2012, l’Italia ha contribuito al bilancio generale UE per un ammontare di 3310 milioni di euro, ricevendo dall’Unione circa 1600 euro (http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Attivit–i/Rapporti-f/Le-Pubblic/Situazione/), che il contributo dell’Italia non è molto inferiore a quello tedesco e francese e notevolmente superiore a quello spagnolo (http://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/content/20111107MUN30717/html/MULTIMEDIA-Il-budget-dell’UE). Essere contributori netti del bilancio europeo significa reperire risorse interne – mediante tassazione in primis su lavoro e impresa – per finanziare il c.d. MES (Meccanismo europeo di stabilità, già denominato Fondo Salva Stati). Il MES ha, fra le sue finalità, quella di ricapitalizzare le banche. Fin qui, sembrerebbe di trovarsi di fronte a un disegno in qualche misura “razionale”, dal momento che – per assicurare la stabilità finanziaria dell’Unione – occorre innanzitutto disporre di un sistema bancario in grado di finanziare gli investimenti. Accade, però, che gli “aiuti” forniti alle banche vengano utilizzati da queste ultime per finanziare attività speculative, non investimenti produttivi (http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/chi-paga-la-crisi-e-chi-ci-guadagna/), secondo una dinamica che configura una gigantesca operazione di redistribuzione del reddito a danno del capitale e del lavoro e a vantaggio della rendita.

Il Monti politico chiede ora di rendere “più equa” la contribuzione italiana al bilancio europeo: perché non lo ha fatto il Monti Presidente del Consiglio di un Governo “tecnico”, prima di dichiarare lo stato di emergenza?

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Le tasse, la “casta” e la finanza speculativa

[in “MicroMega” online del 4 marzo 2013]

La convinzione diffusa – “anti – casta” – secondo la quale i costi della politica, in Italia, sono eccessivamente elevati andrebbe ridimensionata alla luce dei fatti. Su fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze, si calcola che i fondi pubblici destinati ai partiti sono in costante diminuzione e che, dal 2013, saranno di importo inferiore a quelli erogati ai partiti politici rappresentati nel Parlamento tedesco. (http://www.nens.it/_public-file/Qualche%20numero%20sui%20costi%20della%20politica.pdf). Il problema appare, dunque, connesso a ragioni di equità e di legittimazione del sistema, ma, per quanto riguarda il dato puramente contabile, non sembra che di problema (rilevante) si tratti. D’altra parte – ed è cosa ovvia – la politica costa e merita di essere ricordato che la politica costa anche per consentire di praticarla a chi, diversamente, non potrebbe permetterselo.

L’ideologia “anti-casta” è ancor più privata di fondamento se ci si riferisce alla convinzione – anch’essa assai diffusa – che la gran parte delle tasse pagate dai contribuenti italiani serva a foraggiare partiti politici ed Enti locali (province, innanzitutto) “inutili”. L’aumento vertiginoso della pressione fiscale, soprattutto nel corso del 2012, che ha raggiunto il massimo storico del 57% a gennaio 2013, è servito in larghissima misura a generare avanzi di bilancio destinati alla contribuzione italiana al bilancio generale dell’Unione Europea. Su fonte Ragioneria Generale dello Stato, si registra che l’Italia è, da anni, un contributore netto del bilancio europeo e che i versamenti effettuati sono stati di gran lunga superiori ai rientri, in particolare nel corso del 2012 (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Rapporti-f/Le-Pubblic/Situazione/STFF2012-IITRIM.pdf). Gli ordini di grandezza dei costi della politica e dei costi del mantenimento di questa Europa sono incomparabili (http://senzasoste.it/politica/costi-della-politica-vs-ce-lo-chiede-l-europa). Ma ciò che maggiormente conta è interrogarsi sull’uso che, in Europa, viene fatto delle risorse prelevate ai contribuenti.

Come diffusamente messo in evidenza  (http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/chi-paga-la-crisi-e-chi-ci-guadagna/; http://temi.repubblica.it/micromega-online/perche-lausterity-non-funziona/), lo schema sul quale regge l’attuale assetto dell’Unione Monetaria è così schematizzabile, almeno per quanto riguarda l’Italia: aumento della tassazione → aumento dei contributi erogati al c.d. Fondo Salva Stati → aumento dei profitti bancari → speculazione bancaria sui titoli del debito pubblico, configurando una gigantesca operazione di ridistribuzione del reddito dal lavoro (e dal capitale) alla rendita finanziaria. Si tratta di un’architettura che contiene tre fondamentali elementi contraddittori, se, come dichiarato, l’obiettivo è ripristinare un sentiero di crescita economica.

1) L’attività speculativa delle banche è destabilizzante, sia perché costituisce un pericoloso potenziale “boomerang” (non potendosi escludere nuove ondate di attacchi speculativi sui nostri titoli pubblici trainati proprio dalle banche che, come contribuenti, finanziamo), sia perché è alla base della restrizione del credito. In altri termini, potrebbe considerarsi razionale un’operazione di “salvataggio” di istituti di credito se finalizzata a porre le condizioni per il finanziamento degli investimenti. La si può decretare del tutto irrazionale se, come sta accadendo, finisce per porre le condizioni per alimentare ondate speculative.

2) L’attività speculativa delle banche può anche manifestarsi con operazioni – più o meno riuscite – di fusioni o acquisizioni. Ciò rende il mercato del credito sempre più monopolistico. L’aumento del potere contrattuale delle banche nei confronti delle imprese genera un aumento dei tassi di interesse applicati sui finanziamenti degli investimenti e, dunque, una riduzione degli investimenti e, a seguire, dell’occupazione e del tasso di crescita. Si osservi che nel caso in cui (come per il Monte dei Paschi di Siena) queste operazioni non abbiano successo, lo Stato è chiamato – per l’obiettivo della tutela del risparmio – a interventi di “salvataggio” (circa 4 miliardi di euro per il Monte dei Paschi di Siena).

3) Per quanto riguarda, in particolare, l’economia italiana, la sequenza delineata sopra non fa che accelerare la recessione, innanzitutto per gli effetti che la restrizione del credito esercita sugli investimenti. Vi è di più. La restrizione del credito pone le imprese nella condizione di poter competere solo riducendo i salari (o licenziando, o a non assumendo), per l’ovvia ragione che il vincolo della scarsità di risorse finanziarie disponibili pone un limite al monte salari. A ciò si aggiunge che il calo dei profitti rende le imprese sempre meno disponibili ad accordare incrementi retributivi e sempre più spinte semmai a ridurre i costi. Il combinato della riduzione degli investimenti e dei consumi genera caduta (ulteriore) della domanda interna, dell’occupazione e della produzione, in una spirale viziosa per la quale quanto più l’Italia si impegna a “salvare” l’Unione Monetaria Europea tanto più danneggia sé stessa e potenzialmente l’Europa stessa (dal momento che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico non riguardano necessariamente l’Italia). In questo scenario, la questione rilevante non è tanto chi paga (ovvero come eventualmente ridistribuire il carico fiscale), a maggior ragione se si ritiene che si debbano ridurre i costi della politica per recuperare risorse sufficienti, ma perché pagare (o comunque perché pagare così tanto), ovvero perché tenere elevata la pressione fiscale per finanziare, in ultima analisi, attività speculative destabilizzanti e concausa della recessione. Va rilevato, a riguardo, che il rapporto del novembre 2012 della commissione europea sul sistema bancario dell’eurozona evidenzia il fatto che l’assunzione di rischio, da parte degli istituti di credito europei, è diventato eccessivo, e che occorrerebbe una più incisiva regolamentazione del settore (http://ec.europa.eu/internal_market/bank/docs/high-level_expert_group/report_en.pdf)riconoscendo la sostanziale inefficacia delle regole fin qui introdotte. In una fase che si vuol far passare come post-ideologica, la nazionalizzazione delle banche non può essere un tabù: si tratta peraltro di operazioni già diffusamente sperimentate (http://temi.repubblica.it/micromega-online/mps-perche-e-in-palio-la nazionalizzazione/), indipendentemente dal colore politico dei Governi che le hanno fatte, come interventi di “riforma” guidati dalla necessità o, se si vuole, dal buon senso.

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Debito pubblico e politiche antirecessive

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 7 marzo 2013]

L’esito elettorale ci consegna un quadro politico nel quale, date le forze in campo, sarà molto difficile continuare a perseguire politiche di austerità. In questi ultimi anni  – e anche in campagna elettorale – si è detto, salvo poche e rilevanti eccezioni, che la stabilità dei conti pubblici è un obiettivo da perseguire in quanto tale. Al di là del fatto che gran parte dell’elettorato sembra non aver accettato questa impostazione, occorre chiarire che – sul piano strettamente economico, e a maggior ragione in un contesto di crescente disoccupazione e caduta del PIL – il perseguimento del rigore finanziario è del tutto controproducente. Ciò per una duplice ragione: le politiche di austerità hanno soltanto effetti recessivi (sono, stando al Fondo Monetario Internazionale, “una sofferenza inutile”) e non raggiungono il risultato che si prefiggono, ovvero non generano riduzioni – ma semmai incrementi – del rapporto debito pubblico/PIL.

In più, l’obiettivo della stabilità dei conti pubblici soggiace a un duplice equivoco.

1) Non è vero che il debito pubblico italiano è eccessivamente elevato. Lo era negli anni ottanta e novanta, anni nei quali, su questo aspetto, l’Italia oggettivamente costituiva un’anomalia nell’ambito dei Paesi OCSE. Per contro, negli ultimi anni, l’indebitamento italiano è stato sostanzialmente in linea con quello dei principali Paesi industrializzati e, in alcuni casi (Giappone in primo luogo), notevolmente inferiore.

2) Il secondo equivoco riguarda la fallace equiparazione del debito di uno Stato con il debito di una famiglia: mentre è evidente che una famiglia non può indebitarsi oltre un dato limite, ciò non accade per un singolo Stato. Uno Stato può ripagare i propri debiti generando avanzi primari (ovvero riducendo la spesa pubblica e aumentando l’imposizione fiscale) o “monetizzando” il debito, ovvero vendendo i propri titoli del debito pubblico alla Banca Centrale. A riguardo, va osservato che il fatto che, per Statuto, la Banca Centrale Europea non possa farlo non implica che tecnicamente non può farlo. Occorre ricordare che la Banca Centrale Europea è la più ‘conservatrice’ fra le banche centrali dei principali Paesi OCSE, ovvero è la Banca Centrale che, per Statuto, ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, non anche, come accade, ad esempio, per la FED statunitense l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione e della coesione sociale.

E occorre precisare che la Banca Centrale non incontra vincoli tecnici alla produzione di moneta. Avendo la moneta circolazione puramente fiduciaria, la produzione di moneta non incontra vincoli di scarsità. A ciò si può aggiungere che l’immissione di moneta non necessariamente determina pressioni inflazionistiche: queste ultime sono generate, nella gran parte dei casi, dal crescente potere di monopolio delle imprese e, dunque, dal fatto che i mercati tendono a discostarsi sempre più da configurazioni di concorrenza. In altri termini, l’inflazione è, di norma, un fenomeno derivante dalle dinamiche dell’economia reale e, in larga misura, prescinde dalle variazioni dell’offerta di moneta.

Lo Statuto della BCE è stato redatto in una condizione completamente diversa da quella attuale: una condizione nella quale la principale preoccupazione dei governi europei (e della Germania in primis) era semmai il verificarsi di pressioni inflazionistiche. Con ogni evidenza, dato il calo della domanda aggregata in tutti i Paesi aderenti all’Unione Monetaria Europea, questi timori sono oggi del tutto infondati. E lo Statuto della BCE è modificabile. Peraltro, i recenti provvedimenti voluti dal Governatore della BCE, Mario Draghi, finalizzati all’acquisto di titoli del debito pubblico dei Paesi dell’eurozona “in misura illimitata” sembrano attestare il fatto che la stessa BCE sta procedendo a una revisione del proprio ruolo e delle proprie funzioni. Appare qui poco rilevante l’argomento utilizzato contro l’idea che la BCE possa agire come “prestatrice di ultima istanza”, ovvero possa acquistare titoli del debito pubblico. Questo argomento risiede nella convinzione che, sapendo di poter comunque vendere i propri titoli, i singoli Governi siano incentivati a usare la leva fiscale in modo “dissennato”, producendo sprechi e inefficienze. Va tuttavia rilevato che, anche nel peggiore dei casi (ovvero, nei casi nei quali i singoli Governi siano fortemente propensi a far uso ‘improduttivo’ della spesa pubblica), questo effetto si può generare solo recependo l’ipotesi estrema secondo la quale le distorsioni nell’uso di risorse pubbliche siano di entità tali rendere nulli gli effetti dell’aumento della spesa pubblica sull’occupazione e la produzione. Si tratta anche di un’ipotesi che non trova alcun riscontro nei fatti. Sia qui sufficiente ricordare che, proprio a ragione delle politiche di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale messe in atto negli ultimi anni, circa centomila individui hanno perso lavoro nel corso dell’ultimo mese, come rilevato nell’ultimo Rapporto ISTAT, con un tasso di disoccupazione giovanile (che tende al 40%) che ha raggiunto, in Italia, il suo massimo storico. E’ in aumento il numero di fallimento di imprese, sono in atto circa 150 crisi aziendali, e l’Italia si accinge a diventare (e in parte già lo è) Paese esportatore netto di manodopera – soprattutto di forza-lavoro giovane e altamente qualificata – dopo almeno un decennio nel quale il nostro Paese ha attratto immigrati. E il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato di ben 6 punti percentuali nel corso dell’ultimo anno. Ciò che, invece, trova ampiamente riscontro nei fatti – come peraltro recentemente attestato dal Fondo Monetario Internazionale – è che non può esistere un’austerità espansiva e che, dunque, dalla riduzione della spesa pubblica e dall’aumento della tassazione c’è da aspettarsi soltanto maggiore disoccupazione, più povertà, minore crescita.

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Costi della politica ed Europa

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 17 marzo 2013]

La convinzione diffusa – “anti – casta” – secondo la quale i costi della politica, in Italia, sono eccessivamente elevati andrebbe ridimensionata alla luce dei fatti. Su fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze, si calcola che i fondi pubblici destinati ai partiti sono in costante diminuzione e che, dal 2013, saranno di importo inferiore a quelli erogati ai partiti politici rappresentati nel Parlamento tedesco. Il problema appare, dunque, connesso a ragioni di equità e di legittimazione del sistema, ma, per quanto riguarda il dato puramente contabile, non sembra che di problema (rilevante) si tratti. D’altra parte – ed è cosa ovvia – la politica costa e merita di essere ricordato che la politica costa anche per consentire di praticarla a chi, diversamente, non potrebbe permetterselo.

L’ideologia “anti-casta” è ancor più privata di fondamento se ci si riferisce alla convinzione – anch’essa assai diffusa – che la gran parte delle tasse pagate dai contribuenti italiani serva a foraggiare partiti politici ed Enti locali (province, innanzitutto) “inutili”. L’aumento vertiginoso della pressione fiscale, soprattutto nel corso del 2012, che ha raggiunto il massimo storico del 57% a gennaio 2013, è servito in larghissima misura a generare avanzi di bilancio destinati alla contribuzione italiana al bilancio generale dell’Unione Europea. Su fonte Ragioneria Generale dello Stato, si registra che l’Italia è, da anni, un contributore netto del bilancio europeo e che i versamenti effettuati sono stati di gran lunga superiori ai rientri, in particolare nel corso del 2012, e che gli ordini di grandezza dei costi della politica e dei costi del mantenimento di questa Europa sono incomparabili, essendo enormemente superiori i secondi. Ma ciò che maggiormente conta è interrogarsi sull’uso che, in Europa, viene fatto delle risorse prelevate ai contribuenti.

Come diffusamente messo in evidenza, lo schema sul quale regge l’attuale assetto dell’Unione Monetaria è così schematizzabile, almeno per quanto riguarda l’Italia: l’aumento della tassazione  serve in larga misura ad accrescere i contributi erogati al c.d. Fondo Salva Stati. Il Fondo Salva Stati, a sua volta, destina queste risorse al sistema bancario, che, nella gran parte dei casi, ne fa uso per finalità speculative, riducendo l’offerta di credito per investimenti produttivi. Si tratta di un’architettura che contiene tre fondamentali elementi contraddittori, se si assume come obiettivo ripristinare un sentiero di crescita economica.

1) L’attività speculativa delle banche è destabilizzante, sia perché costituisce un pericoloso potenziale “boomerang” (non potendosi escludere nuove ondate di attacchi speculativi sui nostri titoli pubblici trainati proprio dalle banche che, come contribuenti, finanziamo), sia perché è alla base della restrizione del credito. In altri termini, potrebbe considerarsi razionale un’operazione di “salvataggio” di istituti di credito se finalizzata a porre le condizioni per il finanziamento degli investimenti. La si può decretare del tutto irrazionale se, come sta accadendo, finisce per porre le condizioni per alimentare ondate speculative.

2) L’attività speculativa delle banche può anche manifestarsi con operazioni – più o meno riuscite – di fusioni o acquisizioni. Ciò rende il mercato del credito sempre più monopolistico. L’aumento del potere contrattuale delle banche nei confronti delle imprese genera un aumento dei tassi di interesse applicati sui finanziamenti degli investimenti e, dunque, una riduzione degli investimenti e, a seguire, dell’occupazione e del tasso di crescita. Si osservi che nel caso in cui (come per il Monte dei Paschi di Siena) queste operazioni non abbiano successo, lo Stato è chiamato – per l’obiettivo della tutela del risparmio – a interventi di “salvataggio” (circa 4 miliardi di euro per il Monte dei Paschi di Siena).

3) Per quanto riguarda, in particolare, l’economia italiana, la sequenza delineata sopra non fa che accelerare la recessione, innanzitutto per gli effetti che la restrizione del credito esercita sugli investimenti. Vi è di più. La restrizione del credito pone le imprese nella condizione di poter competere solo riducendo i salari (o licenziando, o a non assumendo), per l’ovvia ragione che il vincolo della scarsità di risorse finanziarie disponibili pone un limite al monte salari. A ciò si aggiunge che il calo dei profitti rende le imprese sempre meno disponibili ad accordare incrementi retributivi e sempre più spinte semmai a ridurre i costi. Il combinato della riduzione degli investimenti e dei consumi genera caduta (ulteriore) della domanda interna, dell’occupazione e della produzione, in una spirale viziosa per la quale quanto più l’Italia si impegna a “salvare” l’Unione Monetaria Europea tanto più danneggia sé stessa e potenzialmente l’Europa stessa (dal momento che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico non riguardano necessariamente l’Italia). In questo scenario, la questione rilevante non è tanto chi paga (ovvero come eventualmente ridistribuire il carico fiscale), a maggior ragione se si ritiene che si debbano ridurre i costi della politica per recuperare risorse sufficienti, ma perché pagare (o comunque perché pagare così tanto), ovvero perché tenere elevata la pressione fiscale per finanziare, in ultima analisi, attività speculative destabilizzanti e concausa della recessione. Ciò a maggior ragione se si considera che la dinamica in atto configura un rilevante operazione di ridistribuzione del reddito dal lavoro (e dal capitale) alla rendita finanziaria all’interno dell’eurozona, generando problemi di equità distributiva, di legittimazione istituzionale dell’Unione Monetaria Europea e, non da ultimo, di potenziale destabilizzazione dell’Unione stessa.

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Le tasse, la recessione e la diseguaglianza

[in “MicroMega” online del 26 marzo 2013]

Nel corso del 2012, la pressione fiscale in Italia ha raggiunto il suo massimo storico, ed è fisiologico il fatto che pressoché tutti i partiti politici dichiarino di volerla ridurre. Si tratta di una congerie di proposte che spesso si basano esclusivamente su ragioni di equità distributiva, a fronte del fatto che la distribuzione dei carichi fiscali ha effetti rilevanti sulla crescita economica. Sebbene implicitamente, esse sono formulate sotto il vincolo del tendenziale pareggio del bilancio pubblico, così che la detassazione di alcuni gruppi sociali non può che implicare l’aumento della pressione fiscale su altri soggetti. E soprattutto si tratta di proposte che non si sa quando e sotto quale forma saranno tradotte in leggi, a fronte del fatto che, nell’immediato, per effetto delle ultime decisioni assunte dal Governo in carica, i contribuenti italiani saranno ulteriormente gravati da tasse (l’incremento dell’IVA e dell’IMU, in primo luogo), per un importo stimato di circa 15 miliardi di euro (http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-fiscal-cliff-italiano/).

Sulla questione, si confrontano schematicamente due orientamenti.

1) Si ritiene, come si è ritenuto negli ultimi venti anni, che la riduzione delle imposte a beneficio dei lavoratori autonomi, delle imprese e, più in generale, dei redditi elevati generi incrementi di produzione derivanti dal fatto che questi individui reagirebbero (in quanto possono farlo) a una minore tassazione lavorando di più e, per quanto riguarda le imprese, investendo di più. Di fatto, seguendo questa linea, si è prodotta, negli ultimi anni, una condizione nella quale il grado di progressività delle imposte si è significativamente ridotto, ovvero – in termini percentuali – le famiglie con redditi bassi pagano più (o comunque non pagano meno) di quelle con redditi elevati. Al di là di considerazioni che attengono all’equità, va rilevato che queste politiche non hanno prodotto i risultati sperati: il tasso di crescita non è aumentato, e anzi si è ridotto, anche negli anni precedenti lo scoppio della crisi. Si è anche ritenuto che la detassazione dei redditi elevati possa disincentivare l’evasione fiscale. Ma anche questo nesso non ha funzionato: l’evasione fiscale è costantemente aumentata nel corso degli ultimi venti anni, pure a fronte del fatto che l’onere fiscale sugli individui più ricchi si è costantemente e significativamente ridotto. Evidentemente la detassazione non ha alcun effetto sulla “moralità fiscale” dei contribuenti. A ciò occorre aggiungere che l’Italia è arrivata solo nel 2012 all’adozione di provvedimenti di tassazione sulle rendite finanziarie in linea con quelli previsti negli ordinamenti dei maggiori Paesi OCSE.

E’ utile osservare che, stando alle ultime rilevazioni ISTAT, l’incidenza delle imposte sul reddito per tipologia e classe di reddito è stabilmente superiore per i redditi da lavoro dipendente rispetto al lavoro autonomo: http://www.istat.it/it/files/2012/11/Carico_fiscale_2009.pdf. Anche sulla base di questa evidenza, si può sostenere che – al di là della legittimazione ‘scientifica’ di politiche di detassazione delle imprese – la scelta in ordine alla distribuzione del carico fiscale non è affatto neutra, e risente dei rapporti di forza degli attori coinvolti e della loro rappresentanza politica. In altri termini, la ripartizione del carico fiscale sembra essere più il risultato di una contrattazione politica che prescinde da considerazioni relative agli effetti macroeconomici, che non l’esito di una scelta finalizzata a generare maggiore crescita economica. Lo si può affermare tenendo conto di una duplice considerazione. In primo luogo, l’aumento della tassazione sugli utili d’impresa (con particolare riferimento alle imprese di grandi dimensioni) può determinare la loro delocalizzazione, così che può essere sufficiente la sola minaccia di delocalizzazione per spingere il Governo a evitare l’adozione di queste misure. In secondo luogo, l’aumento della tassazione su imprese e banche può avere l’effetto di traslare il maggior carico fiscale su prezzi e tassi di interesse, soprattutto in una condizione nella quale queste operano in forme di mercato con bassa intensità competitiva. A ciò si può aggiungere che, per il solo obiettivo di “fare cassa”, è conveniente tassare maggiormente i lavoratori dipendenti, ai quali è sostanzialmente preclusa la possibilità di evadere.

2) Una visione alternativa fa riferimento al fatto che la riduzione dell’onere fiscale a beneficio dei percettori di redditi più bassi genera effetti espansivi, per l’operare di due meccanismi. In primo luogo, poiché che le famiglie con redditi bassi tendono proporzionalmente a consumare più di quanto consumino le famiglie con redditi elevati, la detassazione dei redditi più bassi genera effetti moltiplicativi sul reddito maggiori di quelli derivanti dalla detassazione dei redditi elevati. In secondo luogo, maggiori salari al netto delle imposte sono, di norma, associati a una maggiore produttività del lavoro. In secondo luogo, a fronte di un aumento dei salari, le imprese tendono a reagire innovando, per ripristinare i margini di profitto temporaneamente erosi dall’aumento dei costi. Anche per questa via, vi è da attendersi una maggiore produttività del lavoro e un maggiore tasso di crescita.  In tal senso, l’equità distributiva non è un fine in sé, ma un presupposto necessario per ottenere maggiori tassi di crescita.

A riguardo, occorre ricordare che la produttività del lavoro in Italia ha raggiunto i suoi livelli massimi negli anni settanta, in una fase contrassegnata da una forte presenza dello Stato in economia e da una rilevante conflittualità sociale associata a una forte capacità di mobilitazione del sindacato. L’evidenza empirica mostra, almeno con riferimento al caso italiano, che la caduta dei salari è associata alla riduzione della produttività e del tasso di crescita. Innanzitutto, come attestato nell’ultimo Rapporto ISTAT, i lavoratori italiani percepiscono, in media, un salario inferiore di circa 15 punti percentuali rispetto ai loro colleghi tedeschi. In più, è stato calcolato che posta uguale a 100 la quota dei salari sul PIL nel 1980, questa si è costantemente ridotta in tutti i Paesi OCSE nel corso degli ultimi trenta anni, con la minima accelerazione in Giappone (circa 4 punti percentuali) e la massima accelerazione in Italia (circa 12 punti percentuali). V. http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/il-falso-paradosso-del-costo-del-lavoro). Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati e, nel corso dell’ultimo ventennio, è costantemente declinata. Si consideri anche che, soprattutto per effetto delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, gli italiani lavorano, in media, molto più dei loro colleghi dei principali Paesi OCSE. E si consideri anche che, come attestato dai principali Istituti di ricerca, l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello con maggiore disuguaglianza distributiva e maggiore immobilità sociale. L’aumento della pressione fiscale, in particolare, sui ceti più deboli ha largamente contribuito a questi esiti. Sarebbe auspicabile prendere atto degli errori compiuti.

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Il reddito minimo

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 aprile 2013]

La proposta di contrasto alla povertà mediante l’istituzione di sussidi a carico del bilancio pubblico, fatta propria in particolare (ma non solo) dal Movimento 5stelle, è, nella sua formulazione attuale, piuttosto ambigua e, per quanto è dato capire, per molti aspetti discutibile. Innanzitutto, occorre capire se chi se ne fa promotore fa riferimento al reddito minimo garantito o al c.d. reddito di cittadinanza. Il primo è un sussidio avente natura condizionale e temporanea: lo si percepisce per un periodo di tempo limitato, e lo percepisce esclusivamente chi versa in condizioni di indigenza. Il secondo ha natura universalistica, ovvero va a beneficio di tutti i cittadini italiani in età lavorativa.

In assenza di informazioni certe, dal momento che nel programma del Movimento 5stelle non è chiarito a quale delle due versioni ci si riferisce, si può innanzitutto richiamare l’opinione dominante secondo la quale l’erogazione di sussidi ha l’effetto negativo di disincentivare la ricerca del lavoro e, al tempo stesso, è una misura impraticabile per gli elevati costi che comporterebbe a carico delle finanze pubbliche. Si tratta di considerazioni opinabili, per le seguenti ragioni:

1) Disporre di un sussidio può consentire a chi lo riceve di migliorare la sua attività di ricerca di lavoro. In altri termini, poiché, di norma, e soprattutto nel Mezzogiorno, la prima offerta di impiego che un inoccupato riceve è un impiego nell’economia sommersa o in condizioni di sotto-occupazione, disporre di un reddito non da lavoro – in quanto ne accresce il potere contrattuale – può consentirgli di rifiutare l’offerta e di cercare un impiego regolare e maggiormente coerente con le proprie competenze. Il che ha, come esito, una migliore allocazione della forza-lavoro e, conseguentemente, una più alta produttività. Inoltre, l’erogazione di sussidi svolge anche la funzione di “stabilizzatore automatico”, riducendo la durata e l’intensità delle fluttuazioni cicliche, dal momento che, con  particolare riferimento alle fasi recessive, contribuisce a tenere elevata la domanda attraverso i consumi dei disoccupati. In tal senso, l’erogazione di sussidi non risponde solo a un obiettivo di equità distributiva, ma può costituire il presupposto per una maggiore efficienza. Se – come nella visione liberista – i sussidi non hanno effetti sulla crescita, ci si trova di fronte a provvedimenti assimilabili a “elemosine”, al più finalizzati a legittimare il sistema riducendo il rischio di esplosione della conflittualità sociale.

2) L’argomento dell’impossibilità di “copertura della spesa” è utilizzabile per qualunque misura di politica economica che implichi un aumento della spesa pubblica, e si presta a un’obiezione ovvia: perché azioni di contrasto alla povertà mediante erogazione di sussidi sono insostenibili, mentre non lo sono – a puro titolo esemplificativo – le spese militari? E’ cioè evidente che invocare l’insostenibilità finanziaria di un provvedimento significa assegnare priorità ad altri interventi; il che può non avere nulla a che fare con una valutazione meramente tecnica in ordine all’efficacia di un provvedimento rispetto a un altro. Vi è di più. La logica dell’insostenibilità finanziaria presuppone che il bilancio pubblico debba tendere al pareggio, ovvero che le spese debbano essere uguali alle entrate. Al fondo di questa logica, ancora una volta, non vi è alcuna valutazione di ordine puramente tecnico: si tratta semmai di una valutazione esclusivamente politica, in quanto tale suscettibile di essere modificata. E proprio per l’obiettivo del contrasto alla povertà, sarebbe altamente auspicabile un radicale ribaltamento di questa impostazione, dal momento che l’incremento della povertà in Italia è, come diffusamente documentato, è in larga misura imputabile alle politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni. Come documentato nell’ultimo Rapporto Istat, la povertà relativa coinvolge oltre 8 milioni di individui (pari a oltre il 13% dei residenti) e la povertà assoluta riguarda quasi 4 milioni di individui (pari a oltre il 5% dei residenti), e, in entrambi i casi, i valori sono in aumento.

Il vulnus della proposta del reddito minimo sta nella constatazione che l’erogazione di sussidi in moneta può generare esiti esattamente opposti rispetto a quelli previsti, per l’operare di questo meccanismo. Un aumento dei sussidi produce un aumento dei consumi e, dunque, un aumento dei profitti. L’aumento dei profitti, a sua volta, può generare pressioni inflazionistiche tali da ridurre i salari reali dei lavoratori occupati e da comprimere il potere d’acquisto dei disoccupati. In più, le possibili pressioni inflazionistiche possono ridurre i tassi di interesse reali percepiti dalle banche, contribuendo ad amplificare la restrizione del credito in atto, con ulteriori effetti recessivi. In altri termini, se l’obiettivo di chi propone l’istituzione di un reddito minimo garantito è contrastare la povertà, lo strumento utilizzato rischia di modificare la distribuzione del reddito proprio a danno dei soggetti che si intende tutelare. Lo strumento più efficace per raggiungere questo obiettivo dovrebbe consistere nella fornitura diretta di beni e servizi pubblici da parte dello Stato. Nel far questo, occorre privare di fondamento i due principali steccati  ideologici che hanno impedito l’attuazione di politiche di redistribuzione del reddito nell’Italia degli ultimi decenni, ovvero: il Paese non può più permettersi un sistema di Welfare e tutto ciò che è pubblico è sempre e soltanto fonte di sprechi, inefficienze, corruzione. Si tratta di steccati ideologici, dal momento che queste proposizioni non sono sostenute né da argomenti scientifici inoppugnabili, né dall’evidenza empirica.

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La recessione trainata dal credito

[Micromega online del 18 aprile 2013]

L’allarme lanciato da Confindustria – e dal Governatore Draghi – sui rischi che l’economia italiana corre a seguito dell’intensificarsi della restrizione del credito bancario non può essere lasciato cadere nel vuoto. Nelle condizioni date, infatti, dalle strategie perseguite dalle nostre banche non ci si può che aspettare un ulteriore aumento del numero di fallimenti di imprese e ulteriori significative riduzioni degli investimenti, con effetti negativi su occupazione, salari e tasso di crescita. Non vi è dubbio che, a partire dallo scoppio della crisi, sia in atto una consistente riduzione dell’offerta di credito su scala globale, con effetti di compressione degli investimenti e dell’occupazione, così come non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni hanno amplificato il problema, in particolare in Italia. La condizione nella quale oggi ci troviamo richiama, mutatis mutandis, il keynesiano paradosso della “scarsità nell’abbondanza”: a fronte di rilevanti iniezioni di liquidità nel sistema, con un tasso di interesse BCE collocato al minimo storico dello 0.75%, la liquidità potenzialmente disponibile per le imprese è di entità estremamente modesta ed è in costante riduzione.

Va rilevato, tuttavia, che il comportamento delle banche risponde a criteri pienamente razionali in una logica di massimizzazione dei profitti, e che esso è reso possibile e conveniente dal combinato delle politiche di austerità e della deregolamentazione dei mercati finanziari.

Il fondamento di razionalità che è alla base della riduzione dell’offerta di credito risiede in questo meccanismo. La caduta della domanda aggregata – derivante dalla riduzione della spesa pubblica e soprattutto dall’aumento della pressione fiscale –  rende più rischiosi i finanziamenti, dal momento che riducendo i profitti, riduce conseguentemente il valore delle garanzie che le imprese possono offrire. A seguire, le banche concedono meno prestiti e tendono a concederli prevalentemente, se non esclusivamente, a imprese di grandi dimensioni, la cui probabilità di fallimento viene stimata, di norma, inferiore a quella delle piccole e medie imprese (che, incidentalmente, costituiscono la grande maggioranza delle imprese italiane). In più, potendo le banche ottenere profitti mediante attività speculative, diventa per loro poco conveniente assumere il rischio del finanziamento di progetti di investimento. Si consideri, a riguardo, che – su fonte Banca d’Italia – la gran parte delle risorse ricevute dalle banche commerciali attraverso la raccolta di depositi e soprattutto dalla BCE è destinata, ad oggi, prevalentemente all’acquisto di titoli di stato UE.

A questo si aggiunge un problema ulteriore. Come documentato, fin dal 2010, dalla Banca d’Italia (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_63/QEF_63.pdf), la riduzione del credito attiene anche al lato della domanda, ovvero dipende anche dalla riduzione della domanda di finanziamenti espressa dalle imprese. Il fenomeno può essere spiegato alla luce delle seguenti ragioni:

1) La riduzione della domanda di finanziamenti bancari dipende certamente dal peggioramento delle aspettative imprenditoriali, e, dunque, dalla volontà da parte delle imprese di non accrescere i loro investimenti, o di posticiparli.

2) Vi sono poi fattori che incidono sulla necessità di indebitarsi. In particolare, la decisione di domandare credito da parte delle imprese può essere messa in relazione all’andamento dei salari e dell’occupazione. Si consideri innanzitutto che l’indebitamento delle imprese nei confronti del sistema bancario serve, alle imprese stesse, principalmente per la retribuzione dei fattori produttivi (e, dunque, anche dei salari). In una condizione, come quella attuale, nella quale i salari (monetari e reali) sono in costante riduzione, ed è in costante riduzione il tasso di occupazione, non c’è da stupirsi se le imprese ricorrano sempre meno al credito bancario e sempre più all’autofinanziamento. Su queste dinamiche, l’evidenza empirica è inoppugnabile. Come documentato dalla Banca d’Italia (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ecore/2012/analisi_m/domanda_e_offerta_di_credito_2012.pdf), a partire dal 2009 si è assistito a una continua e significativa riduzione della domanda di finanziamenti per capitale circolante, oltre a un declino, ancora più marcato, della domanda di finanziamenti per investimenti. Al tempo stesso, come evidenziato, fra gli altri, dall’IRES, i salari monetari e reali hanno subìto una massiccia contrazione nel corso degli ultimi anni, con particolare riferimento al triennio 2009-2012 (http://www.cgil.it/Archivio/Ricerche%20IRES/CER-IRES_Presentazione_slide.pdf).

Il circolo vizioso che ne deriva è così schematizzabile. A fronte della riduzione dei salari, si riduce la necessità  per le imprese di accrescere la loro domanda di credito, a condizione che esse abbiano fondi interni di entità tale da poter consentire loro di pagare i propri dipendenti al salario corrente. In una prospettiva di medio-lungo termine, questo implica una continua erosione dei profitti, con conseguente caduta degli investimenti, dell’occupazione e dei salari. Il meccanismo si autoalimenta da momento che la compressione dei salari, riducendo i consumi, ha un effetto negativo sui profitti, sul piano macroeconomico, spingendo le imprese a praticare ulteriori politiche di compressione dei salari e/o a ridurre l’occupazione. In tal senso, vi sono effetti di retroazione fra dinamiche del mercato del lavoro e dinamiche del mercato del credito, nel senso che variazioni di occupazione e salari agiscono sulla domanda e l’offerta di credito, così come variazioni della domanda e dell’offerta di credito hanno effetti su salari e occupazione. In più, al ridursi dell’offerta di credito tende a ridursi anche la domanda di credito: con elevata probabilità di non ricevere quanto richiesto, può diventare razionale, per le imprese, smettere di cercare finanziatori[1]. In più, in condizioni di forte restrizione del credito, l’aumento della numerosità di fallimenti di impresa comporta una contrazione della domanda complessiva di finanziamenti.

3) E’ anche da considerare il fatto che la riduzione dell’indebitamento può essere conveniente per le imprese, dal momento che ne riduce le passività finanziarie, consentendo loro di ridurre i costi di produzione e di recuperare, per questa via, margini di competitività. E’ evidente che la singola impresa può trovare conveniente ridurre la sua esposizione debitoria, se è in condizione di pagare meno i propri dipendenti (e/o licenziare o non assumere) e investire meno. Ma l’effetto macroeconomico di una riduzione generalizzata della domanda di credito non può che manifestarsi sotto forma di minori consumi e minori investimenti, generando, di conseguenza, incrementi di disoccupazione e riduzione dei salari.

In un’economia di mercato, è impossibile obbligare le banche a finanziare le imprese e a non utilizzare le risorse a loro destinate dalla Banca Centrale per fare denaro a mezzo di denaro. In un’economia di mercato, per l’esperienza fatta in questi ultimi anni, sono anche inefficaci interventi di regolamentazione del settore. Ed è, del resto, opinabile la tesi, sostenuta in ambito confindustriale, secondo la quale il problema potrebbe essere in parte risolto bloccando la delocalizzazione delle attività finanziarie. E’ vero che (su fonte ANIA) solo il 2.5% del patrimonio delle assicurazioni italiane è investito in obbligazioni di imprese italiane, a fronte del 14.5% impegnato all’estero su titoli analoghi. Ma non si capisce per quale ragione, dal punto di vista confindustriale, occorrerebbe interferire nelle libere scelte degli operatori finanziari, preludendo la possibilità di agire sulle analoghe scelte di delocalizzazione delle imprese private.

Sembra, dunque, ragionevole che sia solo l’operatore pubblico a potersi far carico del problema, inibendo la spirale perversa degli effetti recessivi prodotti dall’operare del sistema bancario. Lo può fare in due modi: nazionalizzando gli istituti di credito e accrescendo i mercati di sbocco attraverso politiche fiscali espansive. Lo può fare, a meno di non incorrere in veti di natura puramente ideologica: dopo tutto, in questo gioco a perderci è soprattutto il capitale (e ovviamente il lavoro), a guadagnarci è essenzialmente la rendita finanziaria.


[1] Per ragioni di semplicità, si esclude qui il caso del finanziamento mediante emissione di titoli, che, peraltro, per quanto riguarda l’Italia, attiene a una minoranza di imprese.

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Mario Draghi e le contraddizioni dell’Unione Europea

[in “MicroMega” online dell’8 maggio 2013]

Le reazioni tedesche alla decisione di Mario Draghi di ridurre il tasso di rifinanziamento (il tasso al quale le banche europee accedono al credito della BCE) dallo 0.75% allo 0.5% e, ancor più, di portare il c.d. tasso di deposito (il tasso sui depositi bancari custoditi dalla BCE) a valori negativi per stimolare l’erogazione di credito da parte delle banche commerciali hanno reso ancora più palesi i conflitti intercapitalistici che si celano al fondo dell’architettura istituzionale europea, per come essa è oggi strutturata. E’ da tempo che la gran parte della stampa tedesca vede in Draghi un pericoloso inflazionista, oltre che un sistematico “sabotatore” della linea del rigore.

La linea Draghi viene interpretata come finalizzata a “salvare” Paesi dell’eurozona, il cui “salvataggio” dovrebbe, per contro, essere il risultato del far bene i loro “compiti a casa”. Ed è considerata una linea dannosa per la Germania, dal momento che i salvataggi comporterebbero aumenti della pressione fiscale. Qui occorre sgombrare il campo da un equivoco. Il salvataggio dei Paesi a rischio default è garantito dal “Fondo Europeo per la Stabilità Finaziaria” (il c.d. fondo salva Stati), al quale, in rapporto al PIL, è l’Italia a essere il primo finanziatore, seguita da Germania e Francia.

La linea Draghi è anche interpretata come potenzialmente inflazionistica. Si ricorderà, su questo aspetto, l’intervista rilasciata dal prof. Manfred Neumann al quotidiano Süddeutsche Zeitung, nella quale Neumann, relatore al dottorato dell’attuale presidente della Bundesbank Weidmann, sostiene che la politica monetaria seguita dalla BCE rischia di portare il tasso di inflazione in Germania a livelli inaccettabili, paventando il rischio di iperinflazione e richiamando la tragica esperienza della Repubblica di Weimar. Si tratta di una tesi che, soprattutto nelle condizioni attuali, può essere accettata solo in quanto recepisce il senso comune. In una condizione di elevata (e crescente) disoccupazione e bassa (e decrescente) inflazione, appare davvero arduo immaginare che la riduzione dei tassi di interesse produca effetti inflazionistici. Il tasso di inflazione nei Paesi dell’area dell’euro è attestato all’1,2%, in netto calo rispetto allo scorso anno e ai minimi da più di tre anni, a fronte delle politiche monetarie espansive adottate nel periodo considerato. Il tasso di disoccupazione supera il 12%. L’idea che la riduzione dei tassi di interesse produca effetti inflazionistici può essere considerata valida, al più, soltanto in una condizione nella quale tutte le risorse sono impiegate e sono impiegate in modo efficiente. In più, la prescrizione di politica monetaria che ne deriva – ridurre l’offerta di moneta, aumentando i tassi di interesse per garantire la stabilità dei prezzi – regge solo se si considera data la velocità di circolazione della moneta (ovvero la frequenza media con la quale un’unità monetaria viene spesa in un dato intervallo di tempo). Tuttavia, in condizioni di crisi da caduta della domanda aggregata, la velocità di circolazione della moneta tende a ridursi, così che, sul piano analitico, non si può assumere che essa sia data. Ed è esattamente quanto sta accadendo: In più, è semmai un aumento del tasso di interesse – in quanto si traduce in un aumento delle passività finanziarie delle imprese – a poter produrre un aumento dei prezzi, così che, per contro, da una riduzione dei tassi di interesse vi è semmai da attendersi una riduzione (o un non aumento) del livello generale dei prezzi. In tal senso, l’inflazione ha natura conflittuale, ovvero dipende, in ultima analisi, da variazioni della distribuzione del reddito e, in particolare, del potere di mercato delle imprese.

Va rilevato che, per come è oggi strutturata la politica monetaria, appare arduo ritenere che la riduzione del prime rate da parte della Banca Centrale automaticamente si traduca in un aumento dell’offerta di moneta e che a una riduzione dei tassi di interesse faccia seguito automaticamente un aumento degli investimenti. Ciò per due ragioni. In primo luogo, per quanto possa essere vera la convinzione di Keynes secondo la quale “si può portare un cavallo alla fonte, ma non si può obbligarlo a bere”, è certamente indiscutibile che una politica monetaria espansiva costituisce una condizione permissiva per l’aumento degli investimenti e dell’occupazione. E’ una condizione permissiva – ma non cogente – dal momento che la variabile che maggiormente influenza gli investimenti sono le aspettative, così che non vi è da attendersi che politiche di espansione monetaria si traducano automaticamente in aumenti degli investimenti. In secondo luogo, così come è impossibile obbligare un’impresa a investire, è impossibile – in un mercato del credito ampiamente deregolamentato – obbligare una banca a finanziare gli investimenti delle imprese e i consumi delle famiglie. Di fatto, le banche europee restringono l’offerta di credito per ragioni precauzionali e per moventi speculativi. In altri termini, in una condizione di caduta della domanda aggregata, diventa conveniente finanziare le sole imprese i cui progetti di investimento garantiscono una ragionevole certezza di produrre profitti. Di norma, si tratta di imprese di grandi dimensioni, alle quali le banche presuntivamente attribuiscono una bassa (o nulla) probabilità di fallimento. Per contro, risulta conveniente non accordare finanziamenti a imprese di piccole dimensioni, che normalmente operano su mercati interni, dal momento che la compressione dei consumi rende per queste più difficile la realizzazione di profitti. Vi è di più. Le banche possono trovare conveniente allocare risorse nel mercato dei titoli, realizzando utili mediante una pura attività speculativa. Su fonte ABI, si rileva che le banche italiane sono impegnate in transazioni di titoli del nostro debito pubblico per un ammontare circa pari a 350 miliardi di euro, equivalente a oltre il 20% delle transazioni complessive.

Questi rilievi meritano di essere considerati dal momento che costituiscono un rilevante vulnus analitico nella dottrina della Bundesbank. Una dottrina che appare a tal punto screditata sul piano dell’analisi economica da potere valere, al più, come tentativo di legittimazione “scientifica” delle politiche desiderate dal Governo Merkel. In tal senso, il punto in discussione assume valenza propriamente politica: la decisione di Mario Draghi va contro gli interessi dell’industria tedesca, per la seguente ragione. Nel caso in cui la riduzione del prime rate si traduca in un aumento dell’offerta di credito, ciò avvantaggerebbe essenzialmente le imprese collocate nei Paesi periferici dell’Unione Monetaria Europea, dal momento che la restrizione del credito è già più intensa in queste aree e che le dimensioni medie d’impresa sono notevolmente inferiori a quelle tedesche. Dovrebbe derivarne che le imprese collocate nelle aree periferiche diventerebbero meno vulnerabili, e, dunque, meno esposte a operazioni di acquisizione da parte dei capitali “forti”.

E’ fisiologico che, in una fase di crisi, venga meno – per dirla con Marx – la “fratellanza” che di norma caratterizza i rapporti intercapitalistici. Nel caso specifico dell’Unione Monetaria Europea, sembra ormai di capire che l’accentuarsi dei conflitti sia di entità e durata tali da rendere sempre più lontano il processo di unificazione politica – da più parti invocato – e renda sempre più vicino il momento della deflagrazione.

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Letta e il falso problema del debito pubblico

[“MicroMega” online del 28 maggio 2013]

Per l’ex premier Mario Monti, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituiva un problema dal momento che avrebbe incentivato attacchi speculativi, così che occorreva porre in essere misure di austerità, riducendo la spesa pubblica e soprattutto aumentando l’imposizione fiscale. Due i risultati ottenuti: le misure di austerità messe in atto per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL hanno prodotto l’esito esattamente opposto, determinandone un aumento di circa 7 punti percentuali in un anno, anche in considerazione dell’errore di stima del moltiplicatore fiscale, come evidenziato dal Fondo Monetario Internazionale. In più, proprio in quella fase, all’aumentare del debito pubblico non hanno fatto seguito attacchi speculativi, o almeno non di entità e durata paragonabili a quelli sperimentati nell’estate del 2011, quando l’indebitamento pubblico rispetto al PIL era inferiore ai valori assunti nel corso del 2012.

Per il neo-Presidente del Consiglio, Enrico Letta, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituisce un problema perché danneggia le generazioni future, che, inevitabilmente, a suo dire, saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere.

E’ bene chiarire che queste convinzioni si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato, e soprattutto si basano sull’assunto – non dimostrato né dimostrabile – secondo il quale il nostro debito pubblico è eccessivamente elevato. Si tratta di un’assunzione opinabile dal momento che, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste alcun criterio “scientifico” per definire il limite di sostenibilità del debito: sul piano empirico, può essere qui sufficiente richiamare il caso giapponese, laddove, con un rapporto debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240%, non sussistono problemi di sostenibilità dello stesso. Si può, inoltre, ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a studi recenti relativi alla quantificazione del c.d. debito pubblico “implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia inferiore a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa (http://www.bmw-stiftung.de/de/asset/index/mid/33/lang/de/file/o_document2_204.pdf).

La convinzione del Presidente Letta, secondo la quale le politiche di rigore si giustificano per ragioni di equità intergenerazionale, è del tutto priva di fondamento, per le seguenti ragioni.

1) Non è chiaro chiperché e quando dovrebbe accrescere l’imposizione fiscale a danno delle generazioni future. E non è chiaro a quale futuro si fa riferimento, dal momento che l’aumento della tassazione a seguito di un aumento del debito pubblico non è affatto un automatismo, e rinvia a una decisione puramente politica. Né è dato sapere di quanto la pressione fiscale aumenterà e a danno di quali gruppi sociali. In altri termini, il Presidente Letta ritiene di poter persuadere i contribuenti italiani rendendoli disponibili a impoverirsi oggi per evitare di impoverire i posteri, ovvero ritiene che li si possa far diventare a tal punto altruisti in senso intergenerazionale da far loro desiderare il benessere di individui che potrebbero non conoscere mai, accettando ulteriori sacrifici certi, oggi.

2) Si può, per contro, argomentare che è semmai l’aumento del debito pubblico a non impoverire le generazioni future, dal momento che maggiore spesa pubblica oggi comporta maggiori redditi disponibili e maggiore disponibilità per lasciti ereditari. Il fatto che, particolarmente nel caso italiano, la spesa pubblica possa in parte generare corruzione, “sprechi”, inefficienze non legittima affatto la tesi che essa non contribuisca a generare crescita economica. La spesa pubblica (all’estremo, anche se “improduttiva”) ha effetti espansivi per almeno due ragioni, ben note. In primo luogo, per l’attivarsi del meccanismo keynesiano stando al quale la spesa pubblica, accrescendo la domanda aggregata, accresce l’occupazione e la produzione, con effetti moltiplicativi. In secondo luogo, perché, in quanto amplia i mercati di sbocco, migliora le aspettative imprenditoriali e incentiva gli investimenti privati (http://mesharpe.metapress.com/app/home/contribution.asp?referrer=parent&backto=issue,5,10;journal,16,43;linkingpublicationresults,1:109348,1).

3) Anche ammesso che la crescita del debito pubblico comporti un trasferimento dell’onere fiscale a danno delle generazioni future, ciò non costituisce un danno irreversibile, come è, con ogni evidenza, il danno ambientale. Mentre, infatti, nel caso del danno ambientale vi è distruzione di risorse non riproducibili, nel caso dell’aumento delle imposte ciò non accade: fatta eccezione per le risorse naturali, gli altri fattori produttivi sono riproducibili, non essendo soggetti a vincoli di scarsità.

L’esperienza italiana degli ultimi decenni mostra, in effetti, che quanto più si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più questo rapporto è aumentato e tanto più – per decisioni puramente politiche – si è trasferito l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni successive, in una spirale perversa che ha generato il progressivo inarrestabile impoverimento (in ordine di tempo) dei lavoratori, delle classi medie, delle piccole e medie imprese e, infine, della forza-lavoro giovanile. Ciò è accaduto sostanzialmente a ragione del fatto che si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL agendo esclusivamente sul numeratore della frazione, e dunque riducendo la spesa pubblica e/o aumentando la tassazione. Ne è seguita la caduta della domanda e dell’occupazione, con conseguenti inevitabili effetti negativi sul tasso di crescita. La conseguente riduzione della base imponibile ha reso sempre più difficile reperire risorse per pagare il debito. Non si è trovata altra strada se non aumentare la pressione fiscale, peraltro rendendo sempre meno progressiva la tassazione e, dunque, facendo gravare l’onere sempre più sulle fasce di reddito più basse. In tal senso, dovrebbe essere ormai chiaro che è la riduzione del tasso di crescita ad accrescere il debito, non il contrario.

Si riconosca almeno che le politiche di austerità non sono un “imperativo categorico”, valide in ogni circostanza di tempo e di luogo, e che altre vie sono percorribili, peraltro con maggiore efficacia. La c.d. “Abenomics” giapponese (http://keynesblog.com/2013/01/22/il-giappone-keynesiano-di-shinzo-abe/) – ovvero l’attuazione di un’aggressiva politica fiscale (e monetaria) espansiva, nell’ordine di 85 miliardi di euro come primo stanziamento, con una stima di crescita del 2% su base annua – costituisce la conferma più recente del fatto che il deficit spending può essere ancora considerato una strategia pienamente efficace almeno in funzione anti-ciclica.

Avendo sperimentato l’inoppugnabile fallimento delle politiche di austerità, non si vede ragione per la quale reiterare l’errore, soprattutto se il rispetto del vincolo del rigore finanziario viene motivato con argomentazioni che intendono legittimare una recessione politicamente indotta appellandosi a discutibili argomenti etici. Gli argomenti etici dovrebbero essere, al più, utilizzati per far fronte all’insostenibile disuguaglianza distributiva che queste stesse politiche hanno contribuito a produrre.

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Del debito pubblico

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 giugno 2013]

Nello scorso biennio, è stato ripetutamente affermato – da esponenti del Governo e autorevoli commentatori – che il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituiva un problema dal momento che avrebbe incentivato attacchi speculativi, così che occorreva porre in essere misure di austerità, riducendo la spesa pubblica e soprattutto aumentando l’imposizione fiscale. Due i risultati ottenuti: le misure di austerità messe in atto per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL hanno prodotto l’esito esattamente opposto, determinandone un aumento di circa 7 punti percentuali in un anno, anche in considerazione dell’errore di stima del moltiplicatore fiscale, come evidenziato dal Fondo Monetario Internazionale. In più, proprio in quella fase, all’aumentare del debito pubblico non hanno fatto seguito attacchi speculativi, o almeno non di entità e durata paragonabili a quelli sperimentati nell’estate del 2011, quando l’indebitamento pubblico rispetto al PIL era inferiore ai valori assunti nel corso del 2012.

Ci viene detto oggi che il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituisce un problema perché danneggia le generazioni future, che, inevitabilmente, a suo dire, saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere.

E’ bene chiarire che queste convinzioni si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato, e soprattutto si basano sull’assunto – non dimostrato né dimostrabile – secondo il quale il nostro debito pubblico è eccessivamente elevato. Si tratta di un’assunzione opinabile dal momento che, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste alcun criterio “scientifico” per definire il limite di sostenibilità del debito: sul piano empirico, può essere qui sufficiente richiamare il caso giapponese, laddove, con un rapporto debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240%, non sussistono problemi di sostenibilità dello stesso. Si può, inoltre, ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a studi recenti relativi alla quantificazione del c.d. debito pubblico “implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia inferiore a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa.

La convinzione del Presidente Letta, secondo la quale le politiche di rigore si giustificano per ragioni di equità intergenerazionale, è del tutto priva di fondamento, per le seguenti ragioni.

1) Non è chiaro chiperché e quando dovrebbe accrescere l’imposizione fiscale a danno delle generazioni future. E non è chiaro a quale futuro si fa riferimento, dal momento che l’aumento della tassazione a seguito di un aumento del debito pubblico non è affatto un automatismo, e rinvia a una decisione puramente politica. Né è dato sapere di quanto la pressione fiscale aumenterà e a danno di quali gruppi sociali. In altri termini, il Presidente Letta ritiene di poter persuadere i contribuenti italiani rendendoli disponibili a impoverirsi oggi per evitare di impoverire i posteri, ovvero ritiene che li si possa far diventare a tal punto altruisti in senso intergenerazionale da far loro desiderare il benessere di individui che potrebbero non conoscere mai, accettando ulteriori sacrifici certi, oggi.

2) Si può, per contro, argomentare che è semmai l’aumento del debito pubblico a non impoverire le generazioni future, dal momento che maggiore spesa pubblica oggi comporta maggiori redditi disponibili e maggiore disponibilità per lasciti ereditari. Il fatto che, particolarmente nel caso italiano, la spesa pubblica possa in parte generare corruzione, “sprechi”, inefficienze non legittima affatto la tesi che essa non contribuisca a generare crescita economica. La spesa pubblica (all’estremo, anche se “improduttiva”) ha effetti espansivi per almeno due ragioni, ben note. In primo luogo, per l’attivarsi del meccanismo keynesiano stando al quale la spesa pubblica, accrescendo la domanda aggregata, accresce l’occupazione e la produzione, con effetti moltiplicativi. In secondo luogo, perché, in quanto amplia i mercati di sbocco, migliora le aspettative imprenditoriali e incentiva gli investimenti privati

3) Anche ammesso che la crescita del debito pubblico comporti un trasferimento dell’onere fiscale a danno delle generazioni future, ciò non costituisce un danno irreversibile, come è, con ogni evidenza, il danno ambientale. Mentre, infatti, nel caso del danno ambientale vi è distruzione di risorse non riproducibili, nel caso dell’aumento delle imposte ciò non accade: fatta eccezione per le risorse naturali, gli altri fattori produttivi sono riproducibili, non essendo soggetti a vincoli di scarsità.

L’esperienza italiana degli ultimi decenni mostra, in effetti, che quanto più si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più questo rapporto è aumentato e tanto più – per decisioni puramente politiche – si è trasferito l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni successive, in una spirale perversa che ha generato il progressivo inarrestabile impoverimento (in ordine di tempo) dei lavoratori, delle classi medie, delle piccole e medie imprese e, infine, della forza-lavoro giovanile. Ciò è accaduto sostanzialmente a ragione del fatto che si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL agendo esclusivamente sul numeratore della frazione, e dunque riducendo la spesa pubblica e/o aumentando la tassazione. Ne è seguita la caduta della domanda e dell’occupazione, con conseguenti inevitabili effetti negativi sul tasso di crescita. La conseguente riduzione della base imponibile ha reso sempre più difficile reperire risorse per pagare il debito. Non si è trovata altra strada se non aumentare la pressione fiscale, peraltro rendendo sempre meno progressiva la tassazione e, dunque, facendo gravare l’onere sempre più sulle fasce di reddito più basse. In tal senso, dovrebbe essere ormai chiaro che è la riduzione del tasso di crescita ad accrescere il debito, non il contrario.

Si riconosca almeno che le politiche di austerità non sono un “imperativo categorico”, valide in ogni circostanza di tempo e di luogo, e che altre vie sono percorribili, peraltro con maggiore efficacia. La c.d. “Abenomics” giapponese – ovvero l’attuazione di un’aggressiva politica fiscale (e monetaria) espansiva, nell’ordine di 85 miliardi di euro come primo stanziamento, con una stima di crescita del 2% su base annua – costituisce la conferma più recente del fatto che il deficit spending può essere ancora considerato una strategia pienamente efficace almeno in funzione anti-ciclica.

Avendo sperimentato l’inoppugnabile fallimento delle politiche di austerità, non si vede ragione per la quale reiterare l’errore, soprattutto se il rispetto del vincolo del rigore finanziario viene motivato con argomentazioni che intendono legittimare una recessione politicamente indotta appellandosi a discutibili argomenti etici. Gli argomenti etici dovrebbero essere, al più, utilizzati per far fronte all’insostenibile disuguaglianza distributiva che queste stesse politiche hanno contribuito a produrre.

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La spesa pubblica

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’ 8 giugno 2013]

La principale motivazione teorica a sostegno dell’attuazione di politiche fiscali restrittive in una fase di caduta della domanda aggregata risiede nel c.d. effetto di spiazzamento, secondo il quale la riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della tassazione), riducendo i tassi di interesse, accresce gli investimenti privati generando crescita economica. A ciò si aggiunge che è necessario ridurre (o, con espressione più sfumata, “riqualificare”) la spesa pubblica, dal momento che essa è fonte di sprechi, inefficienze, corruzione. Si tratta di una tesi che sembra non reggere alla prova dei fatti, per le seguenti ragioni.

1) Il Governo italiano non ha attuato politiche di austerità riducendo la spesa pubblica. Su fonte Ragioneria Generale dello Stato si registra che – nel corso dell’ultimo biennio – la spesa pubblica non si è ridotta in modo significativo, e si prevede un ulteriore aumento per il 2013. E’ aumentata soprattutto per l’aumento delle spese rubricate sotto la voce “risorse proprie Cee”, passate da 17.200 milioni di euro del 2010 ai 18.700 milioni di euro nel 2012. Le risorse proprie – che derivano dalla contribuzione dei cittadini – sono accreditate ogni mese all’Unione monetaria europea dagli Stati membri su un conto acceso dalla Commissione europea presso la banca centrale nazionale. Si è ridotta, per contro, la spesa per i redditi da lavoro dipendente, passata da 18.700 milioni di euro nel 2010 a 17.200 milioni di euro nel 2012. Contestualmente, si è registrato un notevole incremento della pressione fiscale, soprattutto nel 2012, generando – nel complesso – una sequenza di manovre fiscali di segno fortemente restrittivo, con la massima accelerazione lo scorso anno.

2) Su fonte Banca d’Italia, si può verificare che – pure a fronte dell’adozione di politiche fiscali restrittive – non vi è stata una riduzione di entità significativa dei tassi di interesse. Nel periodo considerato, si registra una riduzione dei tassi di interesse sempre inferiore all’1% per i prestiti a famiglie e a società non finanziarie, a fronte di un lieve incremento dei tassi di interesse sui depositi. In più, a fronte della riduzione – seppur modesta – dei tassi di interesse sui prestiti, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione nell’ordine del 9%, e, a fronte della riduzione dei tassi di interesse sui prestiti alle famiglie, i consumi in termini reali si sono ridotti del 3,7%. Il che attesta che, anche se il costo dell’indebitamento di è ridotto, le famiglie italiane hanno ridotto (o comunque non hanno aumentato) il loro indebitamento nei confronti delle banche. Il tasso di disoccupazione è passato dal 9% circa del settembre 2011 all’11% del settembre 2012 e il PIL è diminuito del 2,6% rispetto al secondo trimestre del 2011 (fonte ISTAT). Il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato, in un anno, di oltre 6 punti percentuali.

Questi dati segnalano due punti critici, che sembrano contraddire la visione dominante: l’attuazione di politiche fiscali fortemente restrittive non ha effetti significativi sulla variazione dei tassi di interesse, e la riduzione dei tassi di interesse può essere associata a una riduzione degli investimenti e, a seguire, dell’occupazione e dei salari. Con riferimento al primo aspetto, una possibile spiegazione fa riferimento al fatto che i tassi di interesse praticati dalle banche prescindono, in larga misura, dalle politiche fiscali e monetarie attuate. In una fase contrassegnata da una rilevante caduta della domanda aggregata e da un rilevante tasso di mortalità delle imprese, è ragionevole attendersi che le banche riducano l’erogazione di credito, concedendolo alle sole imprese alle quali assegnano una bassa probabilità di insolvenza e mantenendo i tassi di interesse pressoché invariati. In altri termini, politiche di contrazione della domanda aggregata producono (o accentuano) fenomeni di restrizione del credito; e bassi interessi sui finanziamenti combinati con minore erogazione di finanziamenti si associano a una riduzione degli utili delle banche. Con riferimento al secondo aspetto, si può rilevare che la riduzione degli investimenti è causata dall’aumento della tassazione sugli utili d’impresa, dal peggioramento delle aspettative e, non da ultimo, proprio dalla riduzione dei prestiti erogati dalle banche. Il che dà luogo a un circolo vizioso che va dalla riduzione degli investimenti alla riduzione dell’occupazione alla riduzione dei salari. La riduzione dei salari, a sua volta, dipende non soltanto dall’aumento del tasso di disoccupazione, ma anche dal fatto che, con profitti attuali e attesi in riduzione, le imprese sono spinte a comprimere quanto più possibile i costi di produzione. In più, la riduzione dei salari, in quanto si associa alla riduzione dei consumi, unita alla riduzione degli investimenti e all’aumento della tassazione comprime ulteriormente la domanda aggregata, accentuando l’intensità della restrizione del credito e contribuendo ad amplificare la recessione.

In prima approssimazione, sembrerebbe imbattersi in un gioco a somma negativa, nel quale tutti perdono. Con ogni evidenza, la questione non si pone in questi termini. La necessità di attuare politiche di austerità in una fase di calo della domanda aggregata è, nei fatti, connessa all’impegno assunto dall’Italia di contribuire al bilancio europeo, e di farlo in una percentuale superiore alla media degli altri Paesi dell’eurozona. Si consideri che, nel III trimestre del 2012, l’Italia ha contribuito al bilancio generale UE per un ammontare di 3310 milioni di euro, ricevendo dall’Unione circa 1600 euro, che il contributo dell’Italia non è molto inferiore a quello tedesco e francese e notevolmente superiore a quello spagnolo. Essere contributori netti del bilancio europeo significa reperire risorse interne – mediante tassazione in primis su lavoro e impresa – per finanziare il c.d. MES (Meccanismo europeo di stabilità, già denominato Fondo Salva Stati). Il MES ha, fra le sue finalità, quella di ricapitalizzare le banche. Fin qui, sembrerebbe di trovarsi di fronte a un disegno in qualche misura “razionale”, dal momento che – per assicurare la stabilità finanziaria dell’Unione – occorre innanzitutto disporre di un sistema bancario in grado di finanziare gli investimenti. Accade, però, che gli “aiuti” forniti alle banche vengano utilizzati da queste ultime per finanziare attività speculative, non investimenti produttivi, secondo una dinamica che configura una rilevante redistribuzione del reddito a danno del capitale e del lavoro e a vantaggio della rendita finanziaria.

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Austerità e crisi del credito

[“ETHNOS”, 16 giugno 2013]

A partire dallo scoppio della crisi, è in atto una consistente riduzione dell’offerta di credito su scala globale, con effetti di compressione degli investimenti e dell’occupazione e le politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni in Europa hanno amplificato il problema. Va rilevato, tuttavia, che il comportamento delle banche risponde a criteri pienamente razionali in una logica di massimizzazione dei profitti, e che esso è reso possibile e conveniente dal combinato delle politiche di austerità e della deregolamentazione dei mercati finanziari.

Il fondamento di razionalità che è alla base della riduzione dell’offerta di credito risiede in questo meccanismo. La caduta della domanda aggregata – derivante dalla riduzione della spesa pubblica e soprattutto dall’aumento della pressione fiscale – rende più rischiosi i finanziamenti, dal momento che riducendo i profitti, riduce conseguentemente il valore delle garanzie che le imprese possono offrire. A seguire, le banche concedono meno prestiti e tendono a concederli prevalentemente, se non esclusivamente, a imprese di grandi dimensioni, la cui probabilità di fallimento viene stimata, di norma, inferiore a quella delle piccole e medie imprese. In più, potendo le banche ottenere profitti mediante l’attività speculativa, diventa per loro poco conveniente assumere il rischio del finanziamento di progetti di investimento.

A questo si aggiunge un problema ulteriore. Come documentato, fin dal 2010, in particolare dalla Banca d’Italia, la riduzione del credito attiene anche al lato della domanda, ovvero dipende dalla riduzione della domanda di finanziamenti espressa dalle imprese.

Il fenomeno può essere spiegato alla luce delle seguenti ragioni. La riduzione della domanda di finanziamenti bancari dipende certamente dal peggioramento delle aspettative imprenditoriali, e, dunque, dalla volontà da parte delle imprese di non accrescere i loro investimenti, ovvero di posticiparli. Vi sono poi fattori che incidono sulla necessità di indebitarsi. In particolare, la decisione di domandare credito da parte delle imprese può essere messa in relazione all’andamento dei salari e dell’occupazione. Si consideri innanzitutto che l’indebitamento delle imprese nei confronti del sistema bancario serve, alle imprese stesse, principalmente per la retribuzione dei fattori produttivi (e, dunque, anche dei salari). In una condizione, come quella attuale, nella quale i salari (monetari e reali) sono in costante riduzione, ed è in costante riduzione il tasso di occupazione, non c’è da stupirsi se le imprese ricorrano sempre meno al credito bancario e sempre più all’autofinanziamento, generando una condizione per la quale al ridursi dell’offerta di credito si riduce la domanda di credito. Su queste dinamiche, l’evidenza empirica è inoppugnabile, in particolare con riferimento all’Italia. Come documentato dalla Banca d’Italia, a partire dal 2009 si è assistito a una continua e significativa riduzione della domanda di finanziamenti per capitale circolante, oltre a un declino, ancora più marcato, della domanda di finanziamenti per investimenti. Al tempo stesso, come evidenziato, fra gli altri, dall’IRES, i salari monetari e reali hanno subìto una massiccia contrazione nel corso degli ultimi anni, con particolare riferimento al triennio 2009-2012.

In questo scenario, il rilancio della domanda interna appare la sola possibile strategia per evitare che la spirale recessiva nella quale la nostra economia si trova da anni si protragga, con esiti economici, politici e sociali imprevedibili, ma senz’altro di segno negativo. Dopo tutto, abbiamo sperimentato gli effetti perversi delle politiche di austerità: ovvi motivi di ragionevolezza dovrebbero indurre a non ripetere gli errori compiuti, e a cambiare passo con la massima urgenza.

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E’ vero che gli italiani lavorano poco e male?

[“Keynes” blog del 21 giugno 2013]

L’ex Ministro Fornero ha recentemente dichiarato che gli italiani lavorano poco e male, e che la bassa crescita della nostra economia dipende anche da questo. La dichiarazione merita di essere commentata perché esplicita una convinzione diffusa, spesso declinata in modo meno drastico.

Non vi è dubbio che uno dei principali problemi dell’economia italiana, se non il principale problema, riguarda il basso tasso di crescita economica, a sua volta in larga misura imputabile alla bassa (e declinante) produttività del lavoro. Vi sono molti dubbi, invece, sulla diagnosi dominante e sulle conseguenti prescrizioni di politica economica. Occorre innanzitutto chiarire che, su fonte OCSE, le ore lavorate in Italia non sono inferiori a quelle erogate nei principali Paesi industrializzati. E’ dunque falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora poco. E’ semmai vero non che gli italiani lavorano poco, ma che sempre meno italiani lavorano. E’ anche falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora “male”, ovvero è basso il rendimento dei lavoratori occupati. Vediamo perché. La produttività del lavoro dipende fondamentalmente da tre variabili: il capitale fisso di cui il lavoratore dispone, il suo “capitale umano” (derivante dal learning by schooling e dal learning by doing), la sua motivazione al lavoro. La politica del lavoro – in questi ultimi anni – ha provato ad agire quasi esclusivamente su quest’ultima variabile, anche per impulso dell’ex Ministro. Sono state implementate misure di crescente deregolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo di incentivare l’impegno lavorativo, ponendo i lavoratori nella condizione di erogare il massimo rendimento per accrescere la probabilità di rinnovo del contratto. Sono state introdotte misure di detassazione del salario, ispirate all’idea secondo la quale i lavoratori sono incentivati a fornire maggiore impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle loro retribuzioni. E’ una logica che si inserisce coerentemente in un disegno di revisione del modello di relazioni industriali, che intende andare (e, di fatto, sta andando) nella direzione della contrattazione “atomistica”, nella quale il singolo lavoratore – con la minima “interferenza” delle organizzazioni sindacali – contratta direttamente con il proprio datore di lavoro. Ed è una logica che viene legittimata con la convinzione – tutta da dimostrare- che possa esistere una flessibilità “buona”, contrapposta, va da sé, a una “cattiva”.

Quali sono stati gli esiti? Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati ed è in continuo declino da almeno un decennio.

La ragione fondamentale che spiega questo fenomeno è da ricercarsi, semmai, nella bassa (e declinante) accumulazione di capitale, non nello scarso rendimento dei lavoratori italiani. Se fosse vera la seconda ipotesi, infatti, ci troveremmo in una condizione nella quale, con un alto tasso di disoccupazione e ampia discrezionalità dei licenziamenti, la produttività dovrebbe risultare elevata, per l’elevata credibilità della “minaccia di licenziamento”. Per contro, è proprio una condizione di elevata (e crescente) disoccupazione – e di elevata (e crescente) precarizzazione del lavoro – a generare cali di produttività. Ciò accade per l’operare di questo meccanismo. Le nostre imprese, fatte salve poche eccezioni, esprimono una bassa propensione all’innovazione, dal momento che, nella gran parte dei casi, sono imprese di piccole dimensioni con una specializzazione produttiva in settori “maturi”. A fronte del fatto che è, questo, ormai un dato strutturale, il problema viene accentuato dalle politiche messe in atto negli ultimi anni. In particolare:

1) Le politiche di contrazione della spesa pubblica (e di aumento dell’imposizione fiscale) hanno ridotto i profitti e peggiorato le aspettative imprenditoriali, soprattutto a danno delle imprese che operano su mercati interni, di norma, imprese di piccole dimensioni. A ciò ha fatto seguito minore propensione a investire, e anche minore possibilità di investire, dal momento che riducendosi i profitti si sono ridotti i fondi per l’autofinanziamento degli investimenti. La riduzione degli investimenti, a sua volta, ha accresciuto il grado di obsolescenza del capitale e, in quanto la produttività del lavoro dipende fondamentalmente dalla quantità e dalla qualità di capitale di cui ciascun lavoratore dispone, ciò si è tradotto in cali di produttività. Con disoccupazione in aumento e produttività in declino, è ovvio che il tasso di crescita si sia significativamente ridotto: in altri termini, come efficacemente messo in evidenza sul piano empirico, la produttività del lavoro si riduce al ridursi della domanda aggregata (http://www.economiaepolitica.it/index.php/distribuzione-e-poverta/bassa-domanda-e-declino-italiano/).

Si badi che si tratta di un fenomeno di lungo periodo, che comincia a manifestarsi già a partire dagli anni ottanta, cioè proprio dalla c.d. svolta neo-liberista (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/rel10/rel10it/economia_italiana/rel10_8_domanda_offerta.pdf) e dalla prima fase della c.d. globalizzazione (http://globalization.kof.ethz.ch/media/filer_public/2013/03/25/potrafke_2010_rowe.pdf).

L’evidenza empirica mostra che la produttività del lavoro in Italia ha raggiunto i suoi livelli massimi negli anni settanta, in una fase contrassegnata da una forte presenza dello Stato in economia e da una rilevante conflittualità sociale.

2) L’accelerazione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro ha ulteriormente contribuito al declino della produttività del lavoro. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – soprattutto in una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, con scarsa propensione all’innovazione e poco internazionalizzate – normative che facilitano l’uso flessibile della forza-lavoro costituiscono un potente incentivo, per le imprese, a cercare di recuperare competitività mediante la compressione dei costi. In altri termini, le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro disincentivano le innovazioni e, per conseguenza, si associano a un basso tasso di crescita della produttività. D’altra parte, la precarizzazione del lavoro – accrescendo l’incertezza in ordine al rinnovo del contratto – si associa a una riduzione della propensione media al consumo, con effetti negativi sulla domanda aggregata interna. E, anche per questa via, agisce negativamente sul tasso di crescita.

Per il Presidente del Consiglio “in una fase straordinaria come questa, serve un po’ meno rigidità” dei contratti di lavoro. Quando pressoché tutta l’evidenza empirica disponibile almeno a partire dal Rapporto OCSE 2008 (http://www.oecd.org/els/soc/growingunequalincomedistributionandpovertyinoecdcountries.htm) mostra inequivocabilmente che la precarizzazione del lavoro riduce l’occupazione, riduce i salari, riduce la produttività e il tasso di crescita (http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/la-precarieta-come-freno-alla-crescita/),; quando si mostra che non ha neppure effetti significativi sull’attrazione di investimenti (né sui processi di delocalizzazione delle imprese italiane), viene da chiedersi – e da chiedere a chi ancora confida sull’efficacia di queste misure – quali possano essere gli effetti macroeconomici di segno positivo derivanti dalla loro reiterazione.

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Sui lavoratori italiani

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 giugno 2013]

L’ex Ministro Fornero ha recentemente dichiarato che gli italiani lavorano poco e male, e che la bassa crescita della nostra economia dipende anche da questo. La dichiarazione merita di essere commentata perché esplicita una convinzione diffusa, spesso declinata in modo meno drastico.

Non vi è dubbio che uno dei principali problemi dell’economia italiana, se non il principale problema, riguarda il basso tasso di crescita economica, a sua volta in larga misura imputabile alla bassa (e declinante) produttività del lavoro. Vi sono molti dubbi, invece, sulla diagnosi dominante e sulle conseguenti prescrizioni di politica economica. Occorre innanzitutto chiarire che, su fonte OCSE, le ore lavorate in Italia non sono inferiori a quelle erogate nei principali Paesi industrializzati. E’ dunque falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora poco. E’ semmai vero non che gli italiani lavorano poco, ma che sempre meno italiani lavorano. E’ anche falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora “male”, ovvero è basso il rendimento dei lavoratori occupati. Vediamo perché. La produttività del lavoro dipende fondamentalmente da tre variabili: il capitale fisso di cui il lavoratore dispone, il suo “capitale umano” (derivante dal learning by schooling e dal learning by doing), la sua motivazione al lavoro. La politica del lavoro – in questi ultimi anni – ha provato ad agire quasi esclusivamente su quest’ultima variabile, anche per impulso dell’ex Ministro. Sono state implementate misure di crescente deregolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo di incentivare l’impegno lavorativo, ponendo i lavoratori nella condizione di erogare il massimo rendimento per accrescere la probabilità di rinnovo del contratto. Sono state introdotte misure di detassazione del salario, ispirate all’idea secondo la quale i lavoratori sono incentivati a fornire maggiore impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle loro retribuzioni. E’ una logica che si inserisce coerentemente in un disegno di revisione del modello di relazioni industriali, che intende andare (e, di fatto, sta andando) nella direzione della contrattazione “atomistica”, nella quale il singolo lavoratore – con la minima “interferenza” delle organizzazioni sindacali – contratta direttamente con il proprio datore di lavoro. Ed è una logica che viene legittimata con la convinzione – tutta da dimostrare- che possa esistere una flessibilità “buona”, contrapposta, va da sé, a una “cattiva”.

Quali sono stati gli esiti? Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati ed è in continuo declino da almeno un decennio.

La ragione fondamentale che spiega questo fenomeno è da ricercarsi, semmai, nella bassa (e declinante) accumulazione di capitale, non nello scarso rendimento dei lavoratori italiani. Se fosse vera la seconda ipotesi, infatti, ci troveremmo in una condizione nella quale, con un alto tasso di disoccupazione e ampia discrezionalità dei licenziamenti, la produttività dovrebbe risultare elevata, per l’elevata credibilità della “minaccia di licenziamento”. Per contro, è proprio una condizione di elevata (e crescente) disoccupazione – e di elevata (e crescente) precarizzazione del lavoro – a generare cali di produttività. Ciò accade per l’operare di questo meccanismo. Le nostre imprese, fatte salve poche eccezioni, esprimono una bassa propensione all’innovazione, dal momento che, nella gran parte dei casi, sono imprese di piccole dimensioni con una specializzazione produttiva in settori “maturi”. A fronte del fatto che è, questo, ormai un dato strutturale, il problema viene accentuato dalle politiche messe in atto negli ultimi anni. In particolare:

1) Le politiche di contrazione della spesa pubblica (e di aumento dell’imposizione fiscale) hanno ridotto i profitti e peggiorato le aspettative imprenditoriali, soprattutto a danno delle imprese che operano su mercati interni, di norma, imprese di piccole dimensioni. A ciò ha fatto seguito minore propensione a investire, e anche minore possibilità di investire, dal momento che riducendosi i profitti si sono ridotti i fondi per l’autofinanziamento degli investimenti. La riduzione degli investimenti, a sua volta, ha accresciuto il grado di obsolescenza del capitale e, in quanto la produttività del lavoro dipende fondamentalmente dalla quantità e dalla qualità di capitale di cui ciascun lavoratore dispone, ciò si è tradotto in cali di produttività. Con disoccupazione in aumento e produttività in declino, è ovvio che il tasso di crescita si sia significativamente ridotto: in altri termini, la produttività del lavoro si riduce al ridursi della domanda aggregata

2) L’accelerazione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro ha ulteriormente contribuito al declino della produttività del lavoro. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – soprattutto in una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, con scarsa propensione all’innovazione e poco internazionalizzate – normative che facilitano l’uso flessibile della forza-lavoro costituiscono un potente incentivo, per le imprese, a cercare di recuperare competitività mediante la compressione dei costi. In altri termini, le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro disincentivano le innovazioni e, per conseguenza, si associano a un basso tasso di crescita della produttività. D’altra parte, la precarizzazione del lavoro – accrescendo l’incertezza in ordine al rinnovo del contratto – si associa a una riduzione della propensione media al consumo, con effetti negativi sulla domanda aggregata interna. E, anche per questa via, agisce negativamente sul tasso di crescita.

Per il Presidente del Consiglio “in una fase straordinaria come questa, serve un po’ meno rigidità” dei contratti di lavoro. Quando pressoché tutta l’evidenza empirica disponibile almeno a partire dal Rapporto OCSE 2008 mostra inequivocabilmente che la precarizzazione del lavoro riduce l’occupazione, riduce i salari, riduce la produttività e il tasso di crescita, quando si mostra che non ha neppure effetti significativi sull’attrazione di investimenti (né sui processi di delocalizzazione delle imprese italiane), viene da chiedersi – e da chiedere a chi ancora confida sull’efficacia di queste misure – quali possano essere gli effetti macroeconomici di segno positivo derivanti dalla loro reiterazione.

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L’inutilità delle semplificazioni

[in “MicroMega” online del 3 luglio 2013]

I dati resi noti recentemente da Confindustria sulla drastica riduzione degli investimenti esteri in Italia (ridottisi in un anno di circa il 70%) hanno indotto molti commentatori a imputare questo fenomeno all’eccessivo carico burocratico che graverebbe sulle imprese che operano in Italia, suggerendo provvedimenti di semplificazione. Si tratterebbe di mettere a punto dispositivi che riducano i passaggi burocratici ai quali un’impresa deve sottostare per svolgere la sua attività. In prima approssimazione, l’idea è appealing, dal momento che sembrerebbe di trovarsi di fronte all’ennesima formula magica di provvedimenti “a costo zero” che generano crescita, attraverso l’ingresso di nuove imprese in Italia. Tuttavia, come evidenziato da un’ampia letteratura teorica ed empirica, le decisioni di localizzazione delle grandi imprese – per quanto attiene alle parti del processo produttivo che richiedono un uso intensivo di manodopera altamente qualificata – sono fondamentalmente determinate dalle “economie di agglomerazione” che esse possono sfruttare laddove già esiste una forte concentrazione industriale. In altri termini, il capitale tende a localizzarsi in Paesi nei quali si concentrano le attività di ricerca e sviluppo, attirando dalle aree periferiche forza-lavoro con elevato capitale umano e localizzando le produzioni a bassa intensità tecnologica nelle aree con salari più bassi, minore tassazione, maggiore flessibilità contrattuale, minore tassazione.

Ma anche assumendo che la semplificazione degli oneri burocratici sia un fattore di attrazione degli investimenti, non è chiaro, fin qui, a quali passaggi burocratici si fa riferimento. Va ricordato che, in molti casi, si tratta di oneri burocratici finalizzati a verificare che l’esercizio dell’attività di impresa non generi esternalità negative, ovvero non produca danni sociali i cui costi non vengono sostenuti dall’impresa stessa (a titolo puramente esemplificativo, la produzione di inquinamento). Semplificazione, in questa accezione, significa niente altro che maggiore libertà d’impresa, ovvero minori vincoli posti al suo agire, anche se questi vincoli esistono perché esistono diritti che le imprese sono tenute a rispettare.

La retorica delle semplificazioni si basa su una visione puramente ideologica e di segno marcatamente liberista: come scriveva Friedman negli anni settanta, la sola responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i loro profitti, dal momento che maggiori profitti comporterebbero maggiori investimenti, maggiore crescita economica e riduzione del tasso di disoccupazione. Anche ammesso che questi nessi funzionino, occorre rilevare che – declinata questa tesi nell’attuale contesto italiano – un aumento degli investimenti dovrebbe derivare sic et simpliciter da minore burocrazia, dunque da un ulteriore dimagrimento del settore pubblico. Se, infatti, appare pressoché indiscutibile che gli oneri burocratici (non solo sulle imprese) sono in Italia notevolmente elevati, occorre chiedersi se una “riforma” dell’apparato burocratico non si traduca in licenziamenti nella Pubblica Amministrazione. E, a seguire, occorre chiedersi se i benefici di (eventuali) maggiori investimenti eccedano o meno i costi di una (eventuale) riduzione del tasso di occupazione nel settore pubblico. D’altra parte, se anche provvedimenti di semplificazione non hanno effetti sull’occupazione, per quanto fin qui sperimentato, non hanno alcun effetto macroeconomico significativo: sia sufficiente, a riguardo, ricordare il decreto semplificazioni del Governo Monti (febbraio 2012), i cui risultati sono, ad oggi, sostanzialmente invisibili.

Ci si può anche chiedere se sia la semplificazione dell’attività di impresa la sola strategia efficace per generare crescita o, se, per quanto in prima approssimazione possa sembrare paradossale, non lo sia invece la sua “complicazione”, sotto forma di una normativa più stringente.

Lungo la linea delle riforme “a costo zero”, si può immaginare un percorso alternativo a quello delineato dal Governo, mediante politiche di redistribuzione del reddito a vantaggio del lavoro dipendente. Fra queste, la fissazione ope legis di salari minimi, combinata con una legislazione più restrittiva sui licenziamenti. Queste misure possono avere effetti positivi sui flussi di innovazione e, per questa via, sul tasso di crescita, per due ragioni.

1)  Sul piano microeconomico, un aumento esogeno dei costi di produzione ridurrebbe temporaneamente i margini di profitto delle imprese. Al fine di ripristinarli, le imprese non avrebbero altra soluzione se non far crescere la produttività del lavoro e, per far questo, accrescere l’accumulazione di capitale tecnico. E’ un effetto che può generarsi con la massima intensità se le imprese non sono poste nella condizione di aumentare i prezzi nella stessa misura con qui aumentano i salari monetari.

2) Sul piano macroeconomico, un aumento dei salari comporta un aumento dei consumi e, per le imprese nel loro complesso, un aumento dei profitti monetari. Ciò determina, a seguire, la disponibilità di maggiori fondi interni per il finanziamento degli investimenti, il che costituisce quantomeno una condizione permissiva per generare flussi di innovazione. In più, se l’aumento della domanda aggregata migliora le aspettative imprenditoriali, ciò si traduce in una effettiva crescita del tasso di accumulazione.

L’aumento dei salari non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica e dovrebbe comportare maggiori innovazioni prodotte da imprese italiane. E’ un’operazione “a costo zero” che, tuttavia, contro le tesi dominanti, non semplifica l’attività d’impresa ma, proprio per questo, ha potenziali effetti positivi sul tasso di crescita. Si possono nutrire molti dubbi sul fatto che sia possibile riattivare un sentiero di crescita senza spendere un euro, o quasi, ma – anche ammesso che lo si possa fare – non necessariamente occorre immaginare provvedimenti a costo zero che, almeno in via diretta, favoriscano solo le imprese. Con l’aggravante che il tentativo di attrarre investimenti è finalizzato essenzialmente ad accrescere l’attività di ricerca e sviluppo (che, non a caso, è svolta essenzialmente dalle imprese estere che operano in Italia), alla quale le nostre imprese, nella gran parte dei casi, hanno ormai rinunciato.

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Perché il Governo Letta non può agire

[“MicroMega online del 12 luglio 2013]

La gran parte dei commentatori sembra essere concorde sul fatto che, in materia di politica economica, questo Governo è sostanzialmente inerte e sopravvive grazie a continui rinvii, soprattutto in materia di tassazione. Si tratta di una valutazione in larga misura condivisibile che, tuttavia, nella gran parte dei casi, viene accreditata con argomenti che attengono alla dialettica politica interna alla maggioranza che lo sostiene. Al di là delle oggettive difficoltà che incontra un Esecutivo “di larghe intese”, può essere utile chiedersi perché il Governo Letta, pur volendo, non può agire. Per provare a fornire una risposta, occorre partire da un dato di fatto. Dopo l’incontestabile fallimento delle politiche di austerità – sul piano dei fatti, ma anche sul piano teorico (si consideri il ripensamento del Fondo Monetario Internazionale e della gran parte degli economisti accademici in merito alla loro efficacia) – ben pochi economisti oggi negherebbero che in un fase di profonda recessione è opportuno mettere in campo politiche fiscali espansive. Realisticamente, immaginare che interventi “a costo zero” possano generare crescita è del tutto inverosimile. E’, tuttavia, ovvio che misure di stimolo alla crescita della domanda interna sono impraticabili per i vincoli di rigore posti in sede europea, per volontà tedesca. Occorre quindi chiedersi per quale ragione il Governo tedesco ha interesse a mantenere (e perpetuare) un’Europa a doppia velocità.

L’economia tedesca, ad oggi, costituisce circa il 23% del PIL dell’eurozona. Nel 2010 ha registrato il più alto tasso di crescita dalla sua riunificazione (+3.7%), nel 2011 il tasso di crescita si è attestato al 3% per poi declinare intorno all’1% nel 2012. Nell’ultimo triennio il reddito pro-capite è aumentato di circa il 3%, generando un aumento dei consumi privati e un aumento del gettito fiscale. La crescita economica tedesca è essenzialmente trainata dalle esportazioni e circa il 60% delle esportazioni tedesche è rivolto ai Paesi dell’eurozona. A fronte di ciò il resto dell’eurozona (i Paesi mediterranei, innanzitutto) fa registrare tassi di crescita negativi, consistenti aumenti della disoccupazione – e in particolare della disoccupazione giovanile – riduzione dei consumi e degli investimenti. Se la crescita economica tedesca è trainata dalle esportazioni, e se le imprese tedesche esportano prevalentemente nell’eurozona, ci si dovrebbe attendere che sia nell’interesse del capitale tedesco consentire agli altri Paesi membri dell’Unione Monetaria Europa di mettere in atto politiche che accrescano la loro domanda.

Evidentemente, la perseveranza tedesca nell’imporre politiche di rigore contrasta con questa ipotesi, e porta a considerare due fattori che rendono conveniente, al capitale tedesco, l’impoverimento del resto del continente.

1) Al ridursi della domanda estera, le imprese tedesche accrescono le loro esportazioni. Per quanto questo effetto possa apparire paradossale, lo si può spiegare in questo modo. L’aumento della pressione fiscale e la riduzione della spesa pubblica nei Paesi periferici, generando compressione dei mercati di sbocco interni per le imprese che lì operano (e, dunque, riducendone i profitti e accrescendone la probabilità di fallimento), consente alle imprese tedesche di acquisire, in quelle aree, quote di mercato crescenti. Si consideri, a riguardo, che, su fonte ISTAT, la Germania è il primo Paese da cui importiamo beni, per un valore circa pari a 62,4 miliardi di euro, e che l’incidenza dell’export sul PIL tedesco è passata, dal 2000 al 2011, dal 33,4 al 50,1%.

2) In considerazione dell’aumento della disoccupazione – soprattutto giovanile e intellettuale – nei Paesi periferici, le imprese tedesche hanno un’ulteriore ragione di convenienza nell’imporre in quei Paesi politiche recessive. L’attrazione di manodopera altamente qualificata, infatti, consente al capitale tedesco di accrescere la sua competitività su scala internazionale, mediante gli incrementi di produttività derivanti dall’occupazione di forza-lavoro dotata di elevato capitale umano.

Queste due considerazioni portano a ritenere che è solo producendo recessione nel resto d’Europa che il capitale tedesco può fare profitti.

In questo scenario, è del tutto evidente che il nostro Governo può far poco o nulla. Nella migliore delle ipotesi, può contrattare vincoli meno stringenti in ordine ai limiti oltre i quali non sono consentiti aumenti della spesa pubblica in rapporto al PIL. Ma, come mostrato dai recenti tentativi in tal senso del Presidente Letta, si tratta di importi assolutamente insufficienti per mettere in atto politiche fiscali espansive anticicliche di entità tali da prospettare il recupero di un percorso di crescita in Italia.

L’elevato potere contrattuale tedesco – che si sostanzia nell’imporre politiche che accentuano l’intensità della recessione nei Paesi periferici dell’eurozona – deriva essenzialmente dal fatto che questi Paesi temono la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea. E la temono con motivazioni da prendere seriamente in considerazione. Gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico dei c.d. PIIGS si sono fermati essenzialmente a seguito degli interventi della BCE di acquisito di titoli emessi da questi Stati, e dell’annuncio del Governatore della BCE di procedere all’emissione di moneta “in misura illimitata” per frenare la speculazione. E’ opinione diffusa – e condivisibile – che qualora un Paese decidesse di tornare alla propria valuta, abbandonando l’euro, subirebbe nuovamente attacchi speculativi sui titoli che emette. In più, un’eventuale fuoriuscita dell’Italia dall’UME non comporterebbe altri vantaggi se non il potersi avvalere di svalutazioni competitive, il cui impatto sulle esportazioni è sostanzialmente imprevedibile, essendo invece prevedibile un aumento dell’inflazione importata (data la nostra non autosufficienza per l’approvvigionamento di materie prime) e, in assenza di indicizzazione, un ulteriore calo dei salari reali. Ma soprattutto l’abbandono dell’euro da parte italiana non avrebbe effetti sull’economia “reale”, lasciando inalterata una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale.

D’altra parte, il capitale tedesco ha ben poco da perdere dal ritorno al marco, anche nella peggiore delle ipotesi, ovvero anche se gli altri Paesi europei dovessero mettere in atto misure protezionistiche. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: la quota delle esportazioni tedesche intra-UE si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, e considerando gli elevati margini di incertezza che aleggiano sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea, si può ragionevolmente concludere che la tenuta dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Rispetto alle dimensioni del problema, dibattere sull’efficacia di misure di “semplificazioni” e di “riforme strutturali” è, in larga misura, fuorviante: un Governo al quale vengono posti vincoli alla gestione della politica fiscale è, per definizione, un Governo condannato all’inerzia.

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I punti deboli del piano giovani

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 luglio 2013]

Il “Piano lavoro” del Governo Letta prevede sgravi fiscali per imprese che assumono giovani disoccupati di età compresa fra i 19 e i 30 anni nel Mezzogiorno, attingendo risorse ai fondi comunitari 2007-2013 destinati alle aree più deboli del Paese (nelle quali la disoccupazione giovanile supera il 40%). E’ prevista una revisione della “riforma” Fornero del mercato del lavoro, con il ripristino degli intervalli di 10 e 20 giorni per il rinnovo dei contratti a termine, innalzati con quella riforma a 90 giorni.

Dopo un biennio di politica economica nel quale la preoccupazione principale, se non unica, del Governo è stato il perseguimento del rigore di bilancio, ben venga un’iniziativa che, almeno sul piano simbolico, sembra costituire un elemento positivo di discontinuità. Ma, a fronte di questo, vi sono non pochi elementi di criticità, così sintetizzabili.

1) L’importo stanziato – circa un miliardo di euro – come evidenziato da Confindustria, è del tutto insufficiente per far fronte al problema. Ciò anche in considerazione del fatto che eventuali ulteriori risorse recuperabili dovranno essere stanziate per analoghi provvedimenti a favore dell’occupazione giovanile nel Centro-Nord.

2) Come già nella riforma Fornero, non è chiaro per quale ragione sia previsto un intervallo temporale per il rinnovo del contratto di lavoro. Certamente ciò costituisce una penalizzazione per il lavoratore, penalizzazione tanto più forte quanto minore è il “salario di riserva” di cui il lavoratore dispone. Il salario di riserva è il salario minimo al quale un lavoratore è disposto a offrire i suoi servizi ed è maggiore di zero nel caso in cui si disponga di redditi non da lavoro (proprietà mobiliari, immobiliari). La dilazione del rinnovo del contratto ne riduce, conseguentemente, il potere contrattuale, ponendo l’impresa nella condizione di imporre condizioni di lavoro peggiori nelle successive assunzioni.

3) La detassazione dell’occupazione – in un mercato del lavoro ormai quasi completamente deregolamentato – può generare effetti perversi, dal momento che le imprese potrebbero trovare conveniente assumere giovani (avvalendosi degli sgravi fiscali) e, contestualmente, licenziare o non rinnovare il contratto a lavoratori già assunti, per i quali non si prevedono agevolazioni. In altri termini, il rischio di questa operazione consiste nell’amplificare i “conflitti orizzontali” – fra lavoratori – dal momento che assegna trattamenti diversificati esclusivamente a ragione della data di ingresso nel mercato del lavoro. Se dovesse realizzarsi questo effetto, si potrebbe trattare di un gioco a somma zero, con flussi in ingresso uguali ai flussi in uscita.

A fronte di questi rilievi, va posta un’osservazione di carattere più generale. L’elevato tasso di disoccupazione giovanile – in Italia come negli altri Paesi europei – non dipende dall’eccessiva imposizione fiscale che grava sulle imprese, ma dalla carenza di domanda aggregata. In altri termini, è difficile immaginare che le imprese assumano se, come in questa fase, hanno aspettative pessimistiche in ordine alla possibilità di realizzare profitti. Le aspettative possono migliorare se le imprese sanno che ciò che producono troverà mercati di sbocco sufficientemente ampi e, in un contesto di calo dei consumi e degli investimenti, non vi è altra possibilità se non praticare politiche fiscali espansive e/o attuare politiche di redistribuzione del reddito. Come evidenziato da un’ampia letteratura teorica ed empirica, le famiglie con più bassi redditi esprimono una propensione al consumo più alta delle famiglie con redditi più alti. Ciò per l’ovvia ragione che, con redditi bassi, le risorse monetarie disponibili devono essere destinate a consumi, per raggiungere almeno il livello di sussistenza.

Mentre la prima strada (l’aumento della spesa pubblica) è resa sostanzialmente impraticabile dai vincoli europei, la seconda strada non comporterebbe costi addizionali rispetto ai costi che lo Stato sostiene per la detassazione delle imprese. Occorre, dunque, chiedersi per quale ragione si sia scelta quest’ultima opzione.

La redistribuzione del carico fiscale è profondamente influenzata dal potere contrattuale di cui dispongono imprese e lavoratori in sede di contrattazione politica. In una condizione di elevata disoccupazione, è verosimile attendersi che il potere contrattuale dei lavoratori – nel loro complesso – sia notevolmente inferiore al potere contrattuale delle imprese. Ciò soprattutto nel caso in cui le imprese abbiano la possibilità di delocalizzare i loro investimenti, dal momento che è sufficiente la sola “minaccia” di delocalizzazione per indurre il Governo ad accordare loro trattamenti privilegiati.

In questo scenario, si profila – per le imprese – un conflitto di obiettivi fra accumulazione e “legittimazione” del sistema. Ovvero: per le imprese nel loro complesso, un elevato tasso di occupazione è reso non conveniente dal fatto che a questo si associa un elevato potere contrattuale dei lavoratori, sia nel mercato del lavoro (con maggiori rivendicazioni salariali), sia nell’arena politica (con maggiori rivendicazioni in ordine alla ripartizione del carico fiscale). D’altro canto, un elevato tasso di disoccupazione può “delegittimare” il sistema, attivando pressioni conflittuali che, per le imprese stesse, risultano non desiderabili.

L’evidenza empirica, su fonte OCSE, mostra che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro accrescono il tasso di disoccupazione e riducono i salari. Le misure di detassazione delle imprese per agevolare assunzioni sono già state adottate, in Italia, da almeno un ventennio, con esiti pressoché nulli. Se l’esperienza storica, e le risultanze fattuali, contano, occorre decretare che la reiterazione di provvedimenti inefficaci non è altro che, appunto, commettere di nuovo errori già commessi.

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Sulla semplificazione degli oneri burocratici

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 28 luglio 2013]

I dati resi noti recentemente da Confindustria sulla drastica riduzione degli investimenti esteri in Italia (ridottisi in un anno di circa il 70%) hanno indotto molti commentatori a imputare questo fenomeno all’eccessivo carico burocratico che graverebbe sulle imprese che operano in Italia, suggerendo provvedimenti di semplificazione. Si tratterebbe di mettere a punto dispositivi che riducano i passaggi burocratici ai quali un’impresa deve sottostare per svolgere la sua attività. In prima approssimazione, l’idea è appealing, dal momento che sembrerebbe di trovarsi di fronte all’ennesima panacea di provvedimenti “a costo zero” che generano crescita, attraverso l’ingresso di nuove imprese in Italia. Tuttavia, come evidenziato da un’ampia letteratura teorica ed empirica, le decisioni di localizzazione delle grandi imprese – per quanto attiene alle parti del processo produttivo che richiedono un uso intensivo di manodopera altamente qualificata – sono fondamentalmente determinate dalle “economie di agglomerazione” che esse possono sfruttare laddove già esiste una forte concentrazione industriale. In altri termini, il capitale tende a localizzarsi in Paesi nei quali si concentrano le attività di ricerca e sviluppo, attirando dalle aree periferiche forza-lavoro con elevato capitale umano e localizzando le produzioni a bassa intensità tecnologica nelle aree con salari più bassi, minore tassazione, maggiore flessibilità contrattuale, minore tassazione.

Ma anche assumendo che la semplificazione degli oneri burocratici sia un fattore di attrazione degli investimenti, non è chiaro, fin qui, a quali passaggi burocratici si fa riferimento. Va ricordato che, in molti casi, si tratta di oneri burocratici finalizzati a verificare che l’esercizio dell’attività di impresa non generi esternalità negative, ovvero non produca danni sociali i cui costi non vengono sostenuti dall’impresa stessa (a titolo puramente esemplificativo, la produzione di inquinamento). Semplificazione, in questa accezione, significa niente altro che maggiore libertà d’impresa, ovvero minori vincoli posti al suo agire, anche se questi vincoli esistono perché esistono diritti che le imprese sono tenute a rispettare.

Come scriveva Friedman negli anni settanta, la sola responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i loro profitti, dal momento che maggiori profitti comporterebbero maggiori investimenti, maggiore crescita economica e riduzione del tasso di disoccupazione. Anche ammesso che questi nessi funzionino, occorre rilevare che – declinata questa tesi nell’attuale contesto italiano – un aumento degli investimenti dovrebbe derivare sic et simpliciter da minore burocrazia, dunque da un ulteriore dimagrimento del settore pubblico. Se, infatti, appare pressoché indiscutibile che gli oneri burocratici (non solo sulle imprese) sono in Italia notevolmente elevati, occorre chiedersi se una “riforma” dell’apparato burocratico non si traduca in licenziamenti nella Pubblica Amministrazione. E, a seguire, occorre chiedersi se i benefici di (eventuali) maggiori investimenti eccedano o meno i costi di una (eventuale) riduzione del tasso di occupazione nel settore pubblico. D’altra parte, se anche provvedimenti di semplificazione non hanno effetti sull’occupazione, per quanto fin qui sperimentato, non hanno alcun effetto macroeconomico significativo: sia sufficiente, a riguardo, ricordare il decreto semplificazioni del Governo Monti (febbraio 2012), i cui risultati sono, ad oggi, sostanzialmente invisibili.

Ci si può anche chiedere se sia la semplificazione dell’attività di impresa la sola strategia efficace per generare crescita o, se, per quanto in prima approssimazione possa sembrare paradossale, non lo sia invece la sua “complicazione”, sotto forma di una normativa più stringente.

Lungo la linea delle riforme “a costo zero”, si può immaginare un percorso alternativo a quello delineato dal Governo, mediante politiche di redistribuzione del reddito a vantaggio del lavoro dipendente. Fra queste, la fissazione ope legis di salari minimi, combinata con una legislazione più restrittiva sui licenziamenti. Queste misure possono avere effetti positivi sui flussi di innovazione e, per questa via, sul tasso di crescita, per due ragioni.

1)  Sul piano microeconomico, un aumento esogeno dei costi di produzione ridurrebbe temporaneamente i margini di profitto delle imprese. Al fine di ripristinarli, le imprese non avrebbero altra soluzione se non far crescere la produttività del lavoro e, per far questo, accrescere l’accumulazione di capitale tecnico. E’ un effetto che può generarsi con la massima intensità se le imprese non sono poste nella condizione di aumentare i prezzi nella stessa misura con qui aumentano i salari monetari.

2) Sul piano macroeconomico, un aumento dei salari comporta un aumento dei consumi e, per le imprese nel loro complesso, un aumento dei profitti monetari. Ciò determina, a seguire, la disponibilità di maggiori fondi interni per il finanziamento degli investimenti, il che costituisce quantomeno una condizione permissiva per generare flussi di innovazione. In più, se l’aumento della domanda aggregata migliora le aspettative imprenditoriali, ciò si traduce in una effettiva crescita del tasso di accumulazione.

L’aumento dei salari non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica e dovrebbe comportare maggiori innovazioni prodotte da imprese italiane. E’ un’operazione “a costo zero” che, tuttavia, contro le tesi dominanti, non semplifica l’attività d’impresa ma, proprio per questo, ha potenziali effetti positivi sul tasso di crescita. Si possono nutrire molti dubbi sul fatto che sia possibile riattivare un sentiero di crescita senza spendere un euro, o quasi, ma – anche ammesso che lo si possa fare – non necessariamente occorre immaginare provvedimenti a costo zero che, almeno in via diretta, favoriscano solo le imprese. Con l’aggravante che il tentativo di attrarre investimenti è finalizzato essenzialmente ad accrescere l’attività di ricerca e sviluppo (che, non a caso, è svolta essenzialmente dalle imprese estere che operano in Italia), alla quale le nostre imprese, nella gran parte dei casi, hanno ormai rinunciato.

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Le politiche economiche espansive e le restrizioni del credito

[in “Keynes” blog del 9 agosto 2013]

Le principali banche centrali dei Paesi industrializzati – BCE inclusa – stanno, da tempo, inondando di liquidità il sistema economico, adottando politiche monetarie definite “non convenzionali”. Con quali risultati? Ci si aspetterebbe un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Ci si aspetterebbe anche un aumento del tasso di inflazione. Per contro, sta accadendo il contrario o comunque non si stanno verificando i risultati attesi. Su fonte ISTAT, si registra che, in Italia, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione del 3.3%, il tasso di disoccupazione è aumentato, dal 2012 al 2013, di circa un punto percentuale e le (più ottimistiche) previsioni indicano un tasso di crescita nell’ordine del -1.4%. Il tasso di inflazione resta sostanzialmente fermo su valori di poco superiori all’1%. Le principali motivazioni che spiegano la sostanziale inefficacia delle politiche monetarie espansive nell’attuale configurazione del capitalismo sono così sintetizzabili.

1) In una condizione di aspettative pessimistiche, la riduzione dei tassi di interesse non costituisce un incentivo rilevante per effettuare investimenti o, al limite, è una condizione totalmente irrilevante nelle decisioni di spesa delle imprese. Si osservi che le aspettative non sono un dato ma dipendono in modo cruciale dall’andamento della domanda. In fasi recessive, caratterizzate da bassa e declinante domanda di beni di investimento e beni di consumo, è del tutto ovvio che le imprese posticipino i loro investimenti, attivando un circolo vizioso che, in assenza di interventi esterni, è destinato ad autoalimentarsi. La riduzione degli investimenti, infatti, contribuisce a generare ulteriori riduzioni della domanda aggregata e ulteriori aumenti del tasso di disoccupazione. La riduzione della domanda, a sua volta, disincentiva gli investimenti.

2) Un basso tasso di inflazione – attuale e atteso – costituisce un ulteriore fattore di freno agli investimenti, dal momento che gli imprenditori assumono rischi se ritengono di poter vendere a prezzi tali da consentire loro di acquisire margini di profitto ‘normali’. In tal senso, la riduzione del tasso di inflazione definisce una condizione per la quale i costi inizialmente sostenuti per attuare un progetto di investimento eccedono i ricavi attesi. Se si ammette che gli investimenti crescono al crescere del tasso di inflazione, non si capisce per quale ragione la BCE continui a darsi un target del 2%, oltre il quale si ritiene obbligata a intervenire riducendo il tasso di inflazione. D’altra parte, il target del 2% non trova riscontro in un fondamento ‘scientifico’ inoppugnabile, e riflette una decisione esclusivamente politica.

3) Il fattore più rilevante che motiva l’inefficacia delle politiche monetarie espansive risiede negli effetti che queste producono sulla gestione del credito da parte delle banche commerciali. Come documentato dalla Banca d’Italia fin dal 2010 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_63/QEF_63.pdf; http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi/td10/td764_10/td_764_10/en_tema_764.pdf), in Italia (e nei principali Paesi OCSE) è in atto una rilevante restrizione del credito combinata con una altrettanto rilevante riduzione della domanda di finanziamenti da parte delle imprese. Da qui un apparente puzzle. Come è possibile tenere insieme una consistente immissione di liquidità da parte delle banche centrali con la riduzione del credito da parte delle banche commerciali? Si consideri che i profitti bancari sono in costante aumento. I principali istituti di credito su scala globale fanno registrare incrementi di utili eccezionali: si stima che, su base annua, JP Morgan, Citibank, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs abbiano, in media, più che raddoppiato i loro profitti. In una condizione “fisiologica”, nella quale le banche raccolgono risparmi per erogare finanziamenti, i profitti bancari sono dati dalla differenza fra i ricavi ottenuti dal rimborso del debito maggiorato con interessi da parte delle imprese e gli interessi dovuti ai risparmiatori (più i costi di gestione). Nella condizione attuale, è da escludere che i profitti siano generati dagli interessi pagati dalle imprese, proprio a ragione della restrizione del credito in atto. La gran parte dell’incremento degli utili bancari va, dunque, imputato all’attività speculativa, ovvero all’acquisto e alla vendita di titoli sui mercati finanziari, e a operazioni di acquisizione e fusione (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Denaro-denaro-denaro-il-ciclo-della-finanziarizzazione-11445).

Si è, dunque, in presenza di un fenomeno – la “finanziarizzazione” bancaria – che, per le dimensioni assunte, è decisamente inedito. Tutto ciò è reso possibile, in ultima analisi, da due fattori: la piena libertà assegnata all’intero sistema bancario di operare senza vincoli sui mercati finanziari e, soprattutto, l’attuazione di politiche fiscali restrittive.

La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento dell’imposizione fiscale), riducendo i mercati di sbocco, riduce i profitti delle imprese – fino a determinarne il fallimento. Ciò si traduce, da un lato, in una riduzione delle garanzie che le imprese possono offrire alle banche per ottenere finanziamenti e, dall’altro, nel peggioramento delle aspettative imprenditoriali. Le imprese domandano meno credito e le banche – assegnando maggiore rischiosità ai progetti di investimento – riducono l’offerta di credito. Il conseguente calo della domanda aggregata accresce il tasso di disoccupazione e, a fronte della riduzione degli investimenti (e, dunque, della crescita dell’obsolescenza del capitale tecnico), si riduce la produttività del lavoro. Tassi di disoccupazione crescenti e bassa crescita della produttività non possono che generare continue riduzioni del tasso di crescita. In definitiva, una politica monetaria espansiva che non sia associata a una politica fiscale espansiva è del tutto inefficace (http://keynesblog.com/2012/12/18/smontiamo-i-luoghi-comuni-1-la-finanziarizzazione-delleconomia-rende-obsoleto-il-keynesismo/). E l’assenza di una incisiva regolamentazione dell’attività bancaria, rischia di rendere l’aumento dell’offerta di moneta da parte della banca centrale controproducente per l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione e della ripresa di un percorso di crescita economica, rivelandosi – intenzionalmente o meno – esclusivamente funzionale a ridistribuire reddito dal lavoro e dal capitale alla rendita finanziaria.

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Sulle liberalizzazioni

[“Nuovo  Quotidiano di Puglia” del 25 agosto 2013]

Non c’è da aspettarsi che le c.d. “riforme strutturali” portino l’economia italiana su un sentiero di crescita. Ciò soprattutto a ragione del fatto che – declinate innanzitutto sotto forma di liberalizzazioni – esse non producono altro che, nella migliore delle ipotesi, un aumento della numerosità delle imprese. L’esperienza storica, anche recente, mostra che le liberalizzazioni vengono effettuate in settori produttivi popolati da imprese di piccole dimensioni, che, proprio per questa ragione, hanno un limitato potere contrattuale in sede di negoziazione politica. Non vi è, dunque, una ratio macroeconomica che motiva la scelta dei settori sui quali intervenire: questa scelta è, al più, demandata alla capacità – da parte delle grandi imprese, con elevato potere contrattuale in sede politica – di opporsi a normative che agevolino l’ingresso di potenziali concorrenti.

In più, date le piccole dimensioni medie delle imprese operanti nei settori oggetto di liberalizzazioni, il tasso di crescita della produttività del lavoro è, di norma, molto basso ed è basso il numero di addetti. In tal senso, le riforme strutturali non attenuano la recessione in corso, dal momento che essa deriva essenzialmente da un significativo calo della domanda aggregata, in larga misura indotto dalle politiche di austerità messe in atto nell’ultimo triennio.

La tesi (diffusa) che la crescita economica passi dalle liberalizzazioni nasce da un fondamentale fraintendimento: ovvero dalla convinzione che sia sufficiente rendere i mercati più competitivi per generare innovazione. Sul piano teorico, può essere semmai vero il contrario. Un’economia nella quale i mercati sono perfettamente concorrenziali (o quantomeno si approssimano a configurazioni di concorrenza perfetta) è un’economia nella quale i profitti sono nulli nel lungo periodo, così da rendere impossibile l’autofinanziamento degli investimenti. In più, un’economia di concorrenza perfetta è tale per cui le imprese, di piccole dimensioni, per definizione, hanno difficoltà di accesso al credito e al finanziamento degli investimenti mediante l’emissione di titoli. In tal senso, l’idea che sia la concorrenza a promuovere innovazioni si traduce, in larga misura, in un ossimoro.

Sul piano empirico, come registrato da una recente indagine ASCOM, gli effetti dei provvedimenti di liberalizzazione contenuti nel c.d. Decreto “Salva Italia” dello scorso anno sono o nulli o di segno negativo. In particolare, il rapporto evidenzia il fatto che, a partire dagli inizi del 2012, non vi sia stata alcuna inversione di tendenza per quanto attiene alle vendite nei settori liberalizzati, che, in molti casi, i margini di profitto si sono ulteriormente ridotti e che l’occupazione – in quei settori – non è aumentata, ed è anzi diminuita in alcuni periodi. Viene anche messo in evidenza che i provvedimenti di liberalizzazione, consentendo maggiore deregolamentazione dell’orario di lavoro, si sono, di norma, accompagnati a un peggioramento della qualità dei servizi offerti.

L’esperienza storica mostra inequivocabilmente che i grandi flussi di innovazione sono stati generati da imprese di grandi dimensioni. La motivazione di questo fenomeno è piuttosto ovvia. Le imprese di grandi dimensioni possono produrre sfruttando economie di scala (ovvero ridurre i costi al crescere della produzione) e, soprattutto, hanno facile accesso al credito e al finanziamento sui mercati finanziari. Ciò costituisce una condizione permissiva perché esse attuino innovazioni. La convenienza a innovare dipende essenzialmente dai profitti attesi che, a loro volta, dipendono dalla possibilità di vendere quantità maggiori di beni e di vendere beni “nuovi”. La facilità dell’accesso a fonti di finanziamento consente a queste imprese di modificare le preferenze dei consumatori, soprattutto attraverso le spese pubblicitarie.

Questa diagnosi porta a concludere che sono semmai politiche indirizzate a far crescere la domanda interna a costituire la necessaria pre-condizione per favorire un processo di crescita trainato, contestualmente, da innovazioni e aumento dei consumi. L’aumento dei consumi, con ogni evidenza, deriva dall’aumento dei redditi disponibili, ovvero dall’aumento dei salari al netto della tassazione.

Sarebbero, dunque, auspicabili misure che si muovano in questa direzione, per due ragioni. In primo luogo, come certificato su fonte OCSE, l’Italia è, fra i Paesi industrializzati, quello con la più elevata diseguaglianza distributiva, il che costituisce innanzitutto – ma non solo – un problema etico, che attiene anche alla capacità di legittimazione del sistema. In secondo luogo, come ampiamente documentato sul piano teorico ed empirico, l’aumento dei redditi delle famiglie più povere accresce la propensione media al consumo, con effetti moltiplicativi sulla domanda aggregata e, per conseguenza, sui flussi di investimento e di innovazione. In altri termini, le politiche fiscali espansive producono effetti positivi sia dal lato della domanda, sia dal lato dell’offerta, in quanto incentivano le innovazioni.

Il totem del rigore finanziario, voluto dalla Commissione Europea e fatto proprio dagli Governi italiani succedutisi nel corso dell’ultimo triennio, va nella direzione opposta. L’annunciato aumento dell’IVA costituisce esattamente ciò che non bisognerebbe fare: non avrebbe altri effetti se non accentuare l’intensità della recessione e, poiché l’IVA è un’imposta regressiva, accentuare ulteriormente le diseguaglianze distributive.

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Le false promesse del “piano casa”

[in MicroMega online del 2 settembre 2013]

E’ opinione diffusa che la restrizione del credito in atto (sia per le imprese, sia per le famiglie), almeno con riferimento all’Italia, sia imputabile alla sottocapitalizzazione dei nostri Istituti di credito. E’ bene chiarire che – come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE con riferimento all’eurozona – la sottocapitalizzazione interessa principalmente le banche francesi e tedesche, a fronte del fatto che il problema pare non sussistere affatto per le banche italiane. Il recente declassamento, da parte delle agenzie di rating (per quanto possa ancora valere il loro giudizio), delle principali banche italiane – e la contestuale valutazione positiva delle banche tedesche – va semmai imputato a una valutazione in ordine alla probabilità che i rispettivi governi intervengano per “salvarle” e, dunque, in ultima analisi, alle risorse alle quali Italia e Germania possono attingere per ripianare le perdite dei propri Istituti di credito.

Va rilevato che la misurazione del grado di capitalizzazione degli Istituti di credito risente moltissimo delle diverse metodologie utilizzate. E tuttavia, pressoché tutta l’evidenza empirica disponibile mostra una sostanziale (e relativa) robustezza del nostro sistema bancario. A fronte di ciò, tuttavia, la restrizione del credito ha assunto, in Italia, dimensioni estremamente rilevanti.

Come certificato dalla Banca d’Italia (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_125/QEF_125.pdf), dal 2008 al 2011 il numero di nuovi mutui si è ridotto, in media, del 9,1% su base annua, a fronte di un aumento medio dell’8,5% nel triennio precedente. Nel 2012, il numero di nuovi mutui si è quasi dimezzato rispetto all’anno precedente.

Con il “Piano casa”, il Governo – soprattutto per impulso del Ministro Lupi – prova a porre rimedio al problema impegnando un importo pari a circa 200 milioni di euro per agevolare l’erogazione di mutui, affidando alla Cassa Depositi e Prestiti il ruolo di garante nei confronti del sistema bancario. Al di là degli aspetti tecnici, il meccanismo ipotizzato dovrebbe tradursi in un trasferimento di risorse pubbliche, mediato dal canale bancario, alle famiglie (in particolare ai giovani precari) perché possano acquistare casa. Si osservi che un provvedimento simile era già in discussione, ed era sostanzialmente pronto, fin dal 2011 e che non è chiaro perché non fu emanato in quel periodo.

Si tratta di una misura che desta perplessità, per le seguenti ragioni.

1) Il meccanismo ha, innanzitutto, un vulnus, che deriva dal fatto che – come considerazione generale – chi gestisce risorse non proprie, con promesse di assicurazione in caso di perdita, assume più rischi di quanti ne assumerebbe se fosse nella condizione di gestire le medesime risorse in piena autonomia. In più, la diagnosi dalla quale il provvedimento parte non sembra essere corretta. Se, infatti, le banche italiane non hanno problemi di sottocapitalizzazione, e se – a fronte di questo – hanno erogato una quantità di mutui costantemente decrescente negli ultimi sei anni, per quale ragione dovrebbero ora cambiare rotta e concedere più facilmente finanziamenti? In altri termini: è sufficiente la garanzia offerta dalla Cassa Depositi e Prestiti per indurle a modificare le proprie strategie? Inoltre: per quale ragione si è ritenuto necessario far transitare le risorse alle banche? E cosa assicura che, in casi di insolvenza, le banche riescano a recuperare interamente crediti inesigibili? Per provare a dare risposta, si parta dalla constatazione in base alla quale la gran parte dei profitti bancari deriva da attività speculative e da operazioni di acquisizione e fusione (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/). Si consideri anche che la restrizione del credito (alle famiglie e alle imprese) è essenzialmente imputabile alla caduta della domanda aggregata, in larga misura imputabile alle politiche di austerità messe in atto negli ultimi anni. La caduta della domanda aggregata ha prodotto, infatti, un aumento del tasso di disoccupazione e, in particolare, del tasso di disoccupazione giovanile. In un contesto di elevata incertezza e di restrizione dei mercati di sbocco, le imprese hanno prevalentemente somministrato contratti a tempo determinato. Ciò ha reso sempre meno conveniente, per il sistema bancario, erogare mutui a famiglie con figli disoccupati o precari, essendosi progressivamente ridotte le garanzie che queste potevano offrire. Vi è di più. L’aumento della disoccupazione giovanile ha notevolmente eroso i risparmi delle famiglie, rendendo ancora più difficile – per i giovani – ottenere un mutuo offrendo garanzie derivanti dal patrimonio delle loro famiglie.

2) Il Governo dichiara che le misure adottate servono a favorire la ripresa del mercato immobiliare. Nel far questo, tuttavia, non tiene conto che le garanzie offerte dallo Stato potrebbero non avere effetti sulle aspettative bancarie in ordine alla solvibilità dei propri clienti. Ciò sia perché ritenute insufficienti, sia perché le banche sono ancora poste in condizione di poter incrementare i propri utili agendo in mercati finanziari pressoché totalmente deregolamentati, dove è più facile (e più rapido) guadagnare mediante attività speculative. Si calcola, a riguardo, che, nel corso dell’ultimo anno, gli istituti di credito italiano hanno acquistato titoli di Stato per un valore stimato di circa 72 miliardi, in una condizione nella quale gli interessi sui titoli del debito pubblico italiano sono fra i più alti d’Europa (http://www.scenarieconomici.it/i-tassi-di-interesse-sul-debito-pubblico-corrodono-leconomia-italiana/). Gli acquisti, in misura massiccia, sono resi possibili dai finanziamenti che le banche hanno ricevuto per dalla BCE, tramite soprattutto il c.d. LTRO (Long-term financing operation), per un ammontare stimato pari a circa 260 miliardi. Si tratta di prestiti che ora giungono a scadenza, proprio nel momento in cui il Governo trasferisce fondi pubblici alle banche. La tempistica dell’intervento lascia pensare che – intenzionalmente o meno – esso non sia altro che “aiuto di Stato” alle banche.

Se la questione viene posta in questi termini, non c’è da confidare nel fatto che il “Piano casa” attenui la spirale recessiva in corso e che abbia effetti significativi sul mercato immobiliare. Si tratta di una spirale che va dalla restrizione del credito alla riduzione di investimenti, occupazione e del tasso di crescita, generando un aumento del rapporto debito pubblico/PIL e (a parità di imposizione fiscale) il conseguente aumento dei tassi applicati sui titoli di Stato, accentuando l’incentivo – per le banche – a privilegiare operazioni speculative rispetto ad allocazioni “produttive” del credito.

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La disoccupazione giovanile, le diseguaglianze distributive e la “meritocrazia”

[inhttp://keynesblog.com/ del 12 settembre 2013]

L’ultimo Rapporto OCSE (http://www.oecd.org/els/emp/oecdemploymentoutlook.htm) mette in evidenza il fatto che il tasso di disoccupazione è in crescita in quasi tutti i Paesi industrializzati e, in particolare, nell’eurozona e in Italia. Banca d’Italia, fin da 2010, registra che la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_75/QEF_75.pdf), e che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato, portando il tasso di disoccupazione giovanile a circa il 40% (fonte ISTAT), fatto del tutto inedito nella storia dell’economia italiana. Ciò nonostante, sembra che il dibattito su questi temi si concentri quasi esclusivamente sulle misure di contrasto al fenomeno, in assenza di una preventiva individuazione delle cause.

Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. In tal senso, la disoccupazione giovanile viene imputata alla bassa dotazione di “capitale umano specifico”, derivante dalla bassa dotazione (o dalla totale assenza) di competenze associate al learning by doing.

Si tratta di un’interpretazione per alcuni aspetti discutibile, almeno se riferita all’Italia.

1) L’ipotesi del labour hoarding vale sotto la condizione che le aspettative delle imprese siano ottimistiche, ovvero che si attendano un aumento della domanda già nel breve-medio termine. Diversamente, non si spiegherebbe per quali ragioni esse razionalmente decidano di non licenziare, mantenendo manodopera “in eccesso” rispetto ai volumi di produzione da realizzare e, dunque, sostenendo costi senza ottenere benefici di breve periodo. Data questa condizione, l’ipotesi del labour hoarding sembra essere in evidente contraddizione con la percezione che le imprese italiane hanno in merito alla durata della crisi. Si stima, a riguardo, che oltre il 50% degli imprenditori italiani ritiene che la recessione in atto durerà ancora almeno due anni (http://www.castelmonteonlus.it/UserFiles/File/Fondazione%20Norest%20la%20crisi%20e%20gli%20imprenditori,%20luglio%202012.pdf), ed è una stima che può considerarsi prudenziale.

2) Fatte salve le dovute eccezioni, il sistema produttivo italiano è composto da imprese di piccole dimensioni e poco innovative. Anche in questo caso, l’ipotesi del labour hoarding – con riferimento all’Italia – sembra poco convincente. Se la tecnologia utilizzata, infatti, non richiede lunghi e costosi processi di apprendimento, non si capisce per quale ragione le imprese non licenzino, potendo – nel far questo – ridurre i costi di produzione di breve periodo ed eventualmente assumere (con costi di formazione pressoché irrisori) nelle fasi espansive del ciclo.

Queste considerazioni inducono a ritenere che, almeno nel caso italiano (e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno), la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta dipende semmai da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico[1] sia psicologico[2], ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.

L’opinione dominante – schematizzando – fa propria la convinzione, apparentemente lapalissiana, secondo la quale sono gli individui più produttivi ad avere la più alta probabilità di essere assunti. Sul piano normativo, ciò implica mettere in campo politiche che rimuovano le barriere che ostacolano un’allocazione della forza-lavoro basata sul “merito”. E’ bene chiarire che si tratta di una tesi fallace da un duplice punto di vista. Innanzitutto, non è chiaro come possa essere quantificato il merito, e quale relazione si intenda istituire fra merito e produttività. Il “merito” ha natura qualitativa e, in quanto tale, può essere oggetto di misurazione esclusivamente in modo discrezionale, se non arbitrario. La produttività del lavoro (ammesso che anche questa sia misurabile, ovvero “isolabile” dalla produttività degli altri fattori produttivi) è il rapporto fra la quantità prodotta e le ore-lavoro impiegate. La differenza che passa fra produttività e merito è esattamente quella che passa fra lavorare molto e lavorare bene: con ogni evidenza, nulla assicura che lavorare molto implichi lavorare bene. In secondo luogo, questa tesi si fonda implicitamente sul presupposto secondo il quale la competizione nel mercato del lavoro avviene in un “vuoto istituzionale”, ovvero non risente di variabili che attengono all’ambiente sociale e familiare nel quale gli individui si formano.

In palese contraddizione con questa impostazione, si rileva sul piano empirico (http://datamarket.com/data/set/18u4/methods-used-for-seeking-work-percentage-of-unemployed-who-declared-having-used-a-given-method-by-sex#!display=line&ds=18u4!msg=1:msh=9:6frb=a) che, dal 2000 al 2012, in tutti i Paesi dell’eurozona è notevolmente aumentato il numero di individui che si rivolge a conoscenti, amici, parenti nell’attività di ricerca di lavoro. Si osservi che il periodo considerato è caratterizzato da un notevole incremento delle diseguaglianze distributive. (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Income_distribution_statistics)[4].

Questi due fenomeni inducono a ritenere che il peggioramento della distribuzione del reddito genera un potenziamento del ruolo delle “reti relazionali” nell’attività di job search, configurando una dinamica del mercato del lavoro nella quale le relazioni di potere e di gerarchia assumono sempre più rilievo, e sempre meno rilievo assumono le caratteristiche personali. Il che, peraltro, si associa – come ampiamente documentato sul piano empirico (http://www.oecd.org/tax/public-finance/chapter%205%20gfg%202010.pdf) – alla riduzione del grado di mobilità sociale: i figli delle famiglie con più alto reddito ottengono good jobs, a fronte del fatto che le famiglie con più basso reddito vedono i loro figli collocati in condizioni di disoccupazione, sottoccupazione, precarietà[5].

A ciò si aggiunge il fatto che i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati hanno un salario di riserva più alto rispetto a coloro che provengono da famiglie con basso reddito. Un elevato salario di riserva – derivante essenzialmente dai risparmi delle famiglie d’origine – consente di acquisire un più elevato potere contrattuale (in quanto consente di attendere più tempo per la stipula del contratto di lavoro) e, conseguentemente, consente anche di attendere più tempo per accettare un’offerta di posto di lavoro In tal senso, l’aumento delle diseguaglianze distributive rende il mercato del lavoro sempre più duale.

E’ evidente che un meccanismo di allocazione della forza-lavoro basato su reti relazionali ha effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che gli individui provenienti da famiglie con redditi elevati “spiazzano” gli individui provenienti da famiglie con più basso reddito, non perché più produttivi, ma semplicemente perché le famiglie d’origine hanno redditi più alti e maggiori e migliori “reti relazionali”.  In tal senso – e contro la visione dominante – la disoccupazione giovanile non ha nulla a che vedere con il fatto che i lavoratori adulti sono iperprotetti. E, contro la visione dominante, è semmai il peggioramento della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro.

Non è un fenomeno nuovo quello della trasmissione ereditaria della povertà. L’“ideologia del “merito” che ha guidato le politiche economiche degli ultimi decenni non aiuta a risolvere il problema (e, di fatto, non lo ha minimamente attenuato), dal momento che il fenomeno si auto-alimenta soprattutto in contesti di crescente polarizzazione dei redditi.


[1] Per l’ovvia ragione che, in questo caso, il licenziamento comporta la riduzione di reddito della famiglia.

[2] Per l’altrettanto ovvia ragione che è psicologicamente costoso licenziare un familiare.

[3] Come certificato dall’OCSE, la diseguaglianza distributiva è notevolmente aumentata a partire dagli anni Ottanta al’interno di tutti i Paesi industrializzati. Al 2012, l’indice di Gini, riferito all’Italia, oscilla intorno allo 0,36 a fronte di una media OCSE circa uguale a 0,30.

[4] Come certificato dall’OCSE, la diseguaglianza distributiva è notevolmente aumentata a partire dagli anni Ottanta al’interno di tutti i Paesi industrializzati. Al 2012, l’indice di Gini, riferito all’Italia, oscilla intorno allo 0,36 a fronte di una media OCSE circa uguale a 0,30.

[5] Come riconosciuto da Mario Draghi: “il successo professionale di un giovane sembra dipendere più dal luogo di nascita e dalle caratteristiche dei genitori che dalle caratteristiche personali come il titolo di studio” (http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2011/giovanicrescita/sarteano_ottobre_2011_ende.pdf). Sul tema si vedano S.Bowels and H.Gintis, The inheritance of inequality, “Journal of Economic Perspective”, (16): 3-30 e, per il caso italiano, A. Rosalia, Relazioni intergenerazionali: il ruolo della famiglia, CEPR 2011.

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Perché il Governo Letta non può agire

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 15 settembre 2013]

La gran parte dei commentatori sembra essere concorde sul fatto che, in materia di politica economica, questo Governo è sostanzialmente inerte e sopravvive grazie a continui rinvii, soprattutto in materia di tassazione. Si tratta di una valutazione in larga misura condivisibile che, tuttavia, nella gran parte dei casi, viene accreditata con argomenti che attengono alla dialettica politica interna alla maggioranza che lo sostiene. Al di là delle oggettive difficoltà che incontra un Esecutivo “di larghe intese”, può essere utile chiedersi perché il Governo Letta, pur volendo, non può agire. Per provare a fornire una risposta, occorre partire da un dato di fatto. Dopo l’incontestabile fallimento delle politiche di austerità – sul piano dei fatti, ma anche sul piano teorico (si consideri il ripensamento del Fondo Monetario Internazionale e della gran parte degli economisti accademici in merito alla loro efficacia) – ben pochi economisti oggi negherebbero che in un fase di profonda recessione è opportuno mettere in campo politiche fiscali espansive. Realisticamente, immaginare che interventi “a costo zero” possano generare crescita è del tutto inverosimile. E’, tuttavia, ovvio che misure di stimolo alla crescita della domanda interna sono impraticabili per i vincoli di rigore posti in sede europea, per volontà tedesca. Occorre quindi chiedersi per quale ragione il Governo tedesco ha interesse a mantenere (e perpetuare) un’Europa a doppia velocità.

L’economia tedesca, ad oggi, costituisce circa il 23% del PIL dell’eurozona. Nel 2010 ha registrato il più alto tasso di crescita dalla sua riunificazione (+3.7%), nel 2011 il tasso di crescita si è attestato al 3% per poi declinare intorno all’1% nel 2012. Nell’ultimo triennio il reddito pro-capite è aumentato di circa il 3%, generando un aumento dei consumi privati e un aumento del gettito fiscale. La crescita economica tedesca è essenzialmente trainata dalle esportazioni e circa il 60% delle esportazioni tedesche è rivolto ai Paesi dell’eurozona. A fronte di ciò il resto dell’eurozona (i Paesi mediterranei, innanzitutto) fa registrare tassi di crescita negativi, consistenti aumenti della disoccupazione – e in particolare della disoccupazione giovanile – riduzione dei consumi e degli investimenti. Se la crescita economica tedesca è trainata dalle esportazioni, e se le imprese tedesche esportano prevalentemente nell’eurozona, ci si dovrebbe attendere che sia nell’interesse del capitale tedesco consentire agli altri Paesi membri dell’Unione Monetaria Europa di mettere in atto politiche che accrescano la loro domanda.

Evidentemente, la perseveranza tedesca nell’imporre politiche di rigore contrasta con questa ipotesi, e porta a considerare due fattori che rendono conveniente, al capitale tedesco, l’impoverimento del resto del continente.

1) Al ridursi della domanda estera, le imprese tedesche accrescono le loro esportazioni. Per quanto questo effetto possa apparire paradossale, lo si può spiegare in questo modo. L’aumento della pressione fiscale e la riduzione della spesa pubblica nei Paesi periferici, generando compressione dei mercati di sbocco interni per le imprese che lì operano (e, dunque, riducendone i profitti e accrescendone la probabilità di fallimento), consente alle imprese tedesche di acquisire, in quelle aree, quote di mercato crescenti. Si consideri, a riguardo, che, su fonte ISTAT, la Germania è il primo Paese da cui importiamo beni, per un valore circa pari a 62,4 miliardi di euro, e che l’incidenza dell’export sul PIL tedesco è passata, dal 2000 al 2011, dal 33,4 al 50,1%.

2) In considerazione dell’aumento della disoccupazione – soprattutto giovanile e intellettuale – nei Paesi periferici, le imprese tedesche hanno un’ulteriore ragione di convenienza nell’imporre in quei Paesi politiche recessive. L’attrazione di manodopera altamente qualificata, infatti, consente al capitale tedesco di accrescere la sua competitività su scala internazionale, mediante gli incrementi di produttività derivanti dall’occupazione di forza-lavoro dotata di elevato capitale umano.

Queste due considerazioni portano a ritenere che è solo producendo recessione nel resto d’Europa che il capitale tedesco può fare profitti.

In questo scenario, è del tutto evidente che il nostro Governo può far poco o nulla. Nella migliore delle ipotesi, può contrattare vincoli meno stringenti in ordine ai limiti oltre i quali non sono consentiti aumenti della spesa pubblica in rapporto al PIL. Ma, come mostrato dai recenti tentativi in tal senso del Presidente Letta, si tratta di importi assolutamente insufficienti per mettere in atto politiche fiscali espansive anticicliche di entità tali da prospettare il recupero di un percorso di crescita in Italia.

L’elevato potere contrattuale tedesco – che si sostanzia nell’imporre politiche che accentuano l’intensità della recessione nei Paesi periferici dell’eurozona – deriva essenzialmente dal fatto che questi Paesi temono la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea. E la temono con motivazioni da prendere seriamente in considerazione. Gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico dei c.d. PIIGS si sono fermati essenzialmente a seguito degli interventi della BCE di acquisito di titoli emessi da questi Stati, e dell’annuncio del Governatore della BCE di procedere all’emissione di moneta “in misura illimitata” per frenare la speculazione. E’ opinione diffusa – e condivisibile – che qualora un Paese decidesse di tornare alla propria valuta, abbandonando l’euro, subirebbe nuovamente attacchi speculativi sui titoli che emette. In più, un’eventuale fuoriuscita dell’Italia dall’UME non comporterebbe altri vantaggi se non il potersi avvalere di svalutazioni competitive, il cui impatto sulle esportazioni è sostanzialmente imprevedibile, essendo invece prevedibile un aumento dell’inflazione importata (data la nostra non autosufficienza per l’approvvigionamento di materie prime) e, in assenza di indicizzazione, un ulteriore calo dei salari reali. Ma soprattutto l’abbandono dell’euro da parte italiana non avrebbe effetti sull’economia “reale”, lasciando inalterata una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale.

D’altra parte, il capitale tedesco ha ben poco da perdere dal ritorno al marco, anche nella peggiore delle ipotesi, ovvero anche se gli altri Paesi europei dovessero mettere in atto misure protezionistiche. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: la quota delle esportazioni tedesche intra-UE si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, e considerando gli elevati margini di incertezza che aleggiano sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea, si può ragionevolmente concludere che la tenuta dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Rispetto alle dimensioni del problema, dibattere sull’efficacia di misure di “semplificazioni” e di “riforme strutturali” è, in larga misura, fuorviante: un Governo al quale vengono posti vincoli alla gestione della politica fiscale è, per definizione, un Governo condannato all’inerzia.

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La crisi nel Mezzogiorno e la retorica degli specchi

[“MicroMega” online del 20 settembre 2013, poi  in “Keynes” blog e infine nel “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 settembre 2013]]

Gli ultimi rapporti SVIMEZ fanno registrare un declino dell’economia meridionale che appare, allo stato dei fatti, pressoché inarrestabile, con un’evidenza empirica che molto assomiglia a un bollettino di guerra. Nel 2012, le regioni meridionali nel loro complesso hanno subìto una contrazione del PIL nell’ordine del -3,2%, superiore di oltre un punto percentuale rispetto al resto del Paese. Il 2012 è stato il quinto anno consecutivo in cui il tasso di crescita nel Sud è risultato negativo: dal 2007 si è ridotto di oltre il 10%, quasi il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord. Ciò a ragione della caduta dei consumi delle famiglie (-4,2% al Sud, a fronte del -2,8% al Centro-Nord), del crollo degli investimenti (-11% circa, a fronte del -5,4% al Centro-Nord), della riduzione delle esportazioni – soprattutto quelle indirizzate ai Paesi dell’Unione Monetaria Europea – e, non da ultimo, della riduzione della spesa pubblica. La spesa in conto capitale della pubblica amministrazione, a fronte di un obiettivo dichiarato del 45% sul totale nazionale, si è ridotta dal 40,4% nel 2001 al 35,4% nel 2007, giungendo al minimo storico del 31,1% nel 2011. Quest’ultimo dato è significativo giacché smentisce, con ogni evidenza, la visione dominante secondo la quale il Sud è inondato da risorse pubbliche.

SVIMEZ registra anche che, nel 2013, a fronte di una previsione di riduzione del PIL nazionale nell’ordine dell’1,9%, il Mezzogiorno farà registrare una caduta del prodotto interno lordo pari al 2,5% contro il -1,7% del Centro-Nord. Le previsioni più ottimistiche indicano che, a fronte, di un modesto aumento del tasso di crescita in Italia nel 2014 (+0,7%), esso dovrebbe risultare nullo per il complesso delle regioni meridionali.

E’ molto diffusa la convinzione stando alla quale l’arretratezza del Mezzogiorno dipende dalla sua scarsa dotazione di capitale sociale: elevata propensione alla corruzione, criminalità diffusa, scarsa attitudine al rispetto delle norme, elevata diffusione dell’evasione fiscale. Si tratta di tesi che non pienamente convincenti e comunque meno robuste di quanto si vuol far intendere. Per due ragioni:

1) Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, esistono al più tentativi di misurazione del “capitale sociale”. In assenza di una sua misurazione oggettiva, è sostanzialmente impossibile – se non per pura congettura – stabilire che il Mezzogiorno ha una bassa dotazione di capitale sociale ed ancor più difficile è stabilire una correlazione fra capitale sociale e crescita. Inoltre, se anche la tesi dominante fosse vera, risulterebbe molto arduo stabilire in quale direzione si muove il nesso di causalità: se, cioè, è il capitale sociale un prerequisito per la crescita o viceversa. Vi è di più. In quanto categoria per sua natura disomogenea, il capitale sociale non si presta neppure a una definizione univoca.

2) Su fonte Banca d’Italia, si calcola che a fronte del fatto che, al Nord, in media, l’evasione fiscale e contributiva ammonta a circa 2500 euro pro-capite, nel Mezzogiorno l’imposto si assesta, su base annua, a circa 900 euro a testa. In termini percentuali, il tasso di evasione è del 14,8 al Nord e del 7,9 per cento al Sud. L’obiezione secondo la quale al Sud si evade meno perché il reddito pro-capite è più basso può essere ribaltata stabilendo che ci si aspetterebbe semmai maggiore evasione proprio dove i redditi sono più bassi. Né vale l’ulteriore obiezione secondo la quale l’evasione fiscale è relativamente bassa nel Mezzogiorno perché è maggiore l’occupazione nel pubblico impiego. E’ un’obiezione smentita dagli ultimi dati prodotti dalla Ragioneria Generale dello Stato, secondo la quale la maggiore incidenza dell’occupazione pubblica, fra le regioni italiane, si ha in Lombardia e in tutte le regioni meridionali il numero di occupati nella pubblica amministrazione è inferiore a quella del Centro-Nord. Incidentalmente, viene anche rilevato che, nelle regioni meridionali, è maggiore l’occupazione precaria nel settore pubblico.

Il crescente impoverimento del Mezzogiorno può essere fondamentalmente imputato a due cause.

a) Vi è innanzitutto da considerare un meccanismo spontaneamente generato da un’economia di mercato deregolamentata, che ha a che vedere con quelli che vengono definiti effetti di causazione cumulativa. In altri termini, data una condizione iniziale di concentrazione dei capitali in determinate aree, i capitali collocati nelle aree periferiche trovano conveniente spostarsi in aree nelle quali – attraverso l’operare di economie di agglomerazione e di economie di scala (per le quali al crescere della quantità prodotta si riducono i costi di produzione) – possono ottenere maggiori profitti, perché è più alta la produttività del lavoro. Evidentemente, possono più facilmente migrare imprese di grandi dimensioni che, peraltro, trovano conveniente farlo in quanto competono innovando, e, per farlo, hanno bisogno di operare in ambienti nei quali sussistono le condizioni più favorevoli per generare flussi di innovazione: facile accesso al credito, esistenza di esternalità positive derivanti dall’attività di ricerca attuata da imprese già presenti in loco, presenza di Istituti di ricerca scientifica, ampia disponibilità di manodopera qualificata. Questa dinamica determina crescenti divergenze regionali: in alcune aree si producono beni ad alta intensità tecnologica, nelle aree periferiche (Mezzogiorno incluso) le imprese – di norma di piccole dimensioni e poco esposte alla concorrenza internazionale – competono mediante compressione dei costi, e dei salari in primo luogo. La crescente concentrazione geografica dei capitali si associa a crescenti flussi migratori, che interessano prevalentemente giovani con elevato livello di istruzione. In tal senso, la ripresa dei flussi migratori dal Mezzogiorno è da leggersi come un trasferimento netto di produttività verso le aree centrali dello sviluppo capitalistico.

b) Negli ultimi anni, il fenomeno è stato accentuato dalle politiche di austerità. La riduzione della spesa pubblica (soprattutto nel Mezzogiorno) e l’aumento dell’imposizione fiscale su famiglie e imprese hanno ristretto i mercati di sbocco, generando riduzione dei profitti e fallimenti. L’aumento del tasso di disoccupazione e la riduzione dei salari sono state le ovvie conseguenze di queste scelte.

L’inversione di rotta – come, peraltro, invocato da SVIMEZ – richiederebbe ingenti investimenti pubblici nelle aree meridionali, ovvero fare politica industriale (si osservi che la minore divergenza del PIL pro-capite fra Nord e Sud si è avuta negli anni nei quali era operativa la vituperata “Cassa del Mezzogiorno”). E’ difficile aspettarsi che i soli flussi turistici – peraltro localizzati in poche aree del Mezzogiorno e, per loro natura, estremamente volatili – possano, da soli, contribuire significativamente a ridurre il dualismo.

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Siamo certi che le banche “soffrono” e che occorre aiutarle?

[“Micromega” online del 16 ottobre 2013]

Fra le misure contenute nella Legge di Stabilità 2014, è significativa la norma che consente la deducibilità delle perdite sui crediti bancari, abbreviandone il periodo, rispetto alla normativa precedente e a vantaggio delle banche, da 18 a 5 anni. La ratio la si ritrova nella convinzione che la restrizione del credito in atto dipende dalla sottocapitalizzazione delle nostre banche e che, dunque, per incentivarle a erogare prestiti si rendono necessari interventi che ne riducano il rischio di perdite. Si tratta di una disposizione che recepisce gli orientamenti teorici prevalenti, che imputano la stretta creditizia a fattori che possono considerarsi “interni” al sistema bancario. Si argomenta, in particolare, che è in atto un cambiamento delle modalità di gestione del rischio da parte delle banche, che le induce a valutare in modo più prudente la potenziale solvibilità dei debitori (http://www.oecd.org/finance/financial-markets/48501035.pdf). L’aumento dell’avversione al rischio viene imputato all’avidità e all’incompetenza di chi gestisce gli Istituti di credito (Brummer, 2009) o ai modesti incentivi che ricevono i manager delle banche (Fahlenbract and Stulz, 2010) o ancora viene fatto dipendere dalla bassa capitalizzazione del sistema bancario: in altri termini, si ritiene che le banche, avendo accumulato elevate “sofferenze” (a loro volta derivate dall’impossibilità di recuperare crediti concessi), sarebbero diventate sempre meno disponibili a erogare credito, sia alle imprese sia alle famiglie.

Si tratta di tesi estremamente opinabili, per le seguenti ragioni.

a) Non è chiaro se e in quale misura il sistema bancario europeo è sottocapitalizzato. Nel Rapporto del gennaio 2013, l’OCSE ha evidenziato che a essere sottocapitalizzate sono molte banche francesi e tedesche, a fronte della sostanziale “solidità” patrimoniale delle nostre (http://www.trend-online.com/prp/ocse-banche-sttocapitalizzate-140113/). Questo dato smentisce – quantomeno con riferimento all’Italia – la tesi secondo la quale la restrizione del credito dipende da scarsità di risorse nei portafogli delle banche, soprattutto se si considera che il fenomeno è maggiormente accentuato, fra i Paesi europei, proprio in Italia.

b) E’ implicita, nella visione dominante, la convinzione stando alla quale le banche sono imprese a tutti gli effetti identiche alle imprese produttrici di beni e servizi. Si può rilevare, a riguardo, che il fallimento di una banca non è affatto indipendente da scelte di ordine propriamente politico, per due ragioni. Innanzitutto, i governi hanno interesse (se non l’obbligo normativo) di tutelare i risparmiatori. In secondo luogo, il fallimento di una banca (soprattutto se di grandi dimensioni) può innescare processi di “contagio” a danno dell’intero sistema bancario, con effetti decisamente indesiderati per i governi. In tal senso, vi è una fondamentale differenza fra il fallimento di una banca e il fallimento di un’impresa (soprattutto se di piccole dimensioni): nel primo caso, è ben difficile che la banca centrale o il governo ne rifiuti il “salvataggio”.

A ben vedere, vi sono ragionevoli considerazioni che inducono a ritenere che la restrizione del credito sia causata da altri fattori. D’altra parte, se l’intero sistema bancario italiano non è sottocapitalizzato e opera in un contesto di politiche monetarie espansive (potendo, quindi, ottenere facilmente liquidità dalla banca centrale), per quali ragioni le banche italiane dovrebbero ridurre l’offerta di credito? Per provare a dare risposta a questa domanda, con la massima schematizzazione, si può far riferimento alla seguente sequenza di eventi determinatasi, nei fatti, in Europa nel corso degli ultimi anni. Le politiche di austerità hanno generato recessione. La recessione ha generato riduzione dei profitti e fallimenti di imprese. Si è ridotta, conseguentemente, la solvibilità delle imprese e l’erogazione di credito da parte delle banche è diventata sempre meno conveniente. La restrizione del credito – in quanto ha contribuito a generare riduzione degli investimenti – ha accentuato l’entità della recessione. Su questi tre passaggi si è giocato (e si gioca), in estrema sintesi, il circolo vizioso nel quale è precipitata l’Unione Monetaria Europea, con particolare riferimento ai c.d. Paesi periferici (Italia inclusa): quanto meno lo Stato spende (e/o quanto più tassa), tanto più riduce la domanda aggregata e quanto più si riduce la domanda aggregata tanto più il sistema bancario riduce l’offerta di credito a imprese e famiglie, contribuendo, per questa via, a generare un circolo vizioso propagato da ulteriori contrazioni di consumi e investimenti. A ciò si è aggiunta l’intensificazione dell’attività speculativa delle banche, che è parte essenziale del problema (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/)

Occorre sottolineare che né le politiche di austerità né la restrizione del credito ha danneggiato tutte le imprese: entrambi i fenomeni sottintendono l’accentuarsi dei conflitti intercapitalistici fra imprese di grandi dimensioni (nella gran parte dei casi con elevata propensione a esportare e collocate nelle aree centrali dell’Unione Monetaria Europea) e le imprese di piccole dimensioni (nella gran parte dei casi operanti su mercati interni e collocate nelle aree periferiche dell’eurozona). In altri termini, le grandi imprese beneficiano delle politiche di austerità e non sono danneggiate dalla restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che queste politiche producono incrementi di disoccupazione e conseguente calo dei salari. Il che consente loro di ridurre i costi di produzione, migliorando la competitività sui mercati internazionali e ottenendo, per questa via, profitti crescenti. In più, le imprese esportatrici possonoorientare l’azione dei governi disponendo della “minaccia” di delocalizzazione. Per contro, le imprese di piccole dimensioni che operano su mercati locali hanno la convenienza opposta: la riduzione della spesa pubblica riduce, per loro, i mercati di sbocco, determinando calo dei profitti e fallimenti.

Il credit crunch non riguarda le grandi imprese, per tre ragioni. In primo luogo, esse possono ottenere facilmente finanziamenti senza transitare per il canale bancario, ma attingendo risorse direttamente sui mercati finanziari (cf. Gambacorta and Marques-Ibanez, 2011). In secondo luogo, data la presunzione per la quale sono “troppo grandi per fallire”, hanno comunque accesso al finanziamento bancario. In terzo luogo, in ragione dei più alti profitti che realizzano rispetto a imprese di piccole dimensioni, possono più facilmente auto-finanziare i loro investimenti.

Se questa diagnosi è corretta, detassare le banche per indurle a concedere prestiti non è una buona idea. Al più, la detassazione può costituire una condizione permissiva per l’aumento dell’offerta di credito ma non agisce sulla convenienza a farlo (al più accresce i profitti netti delle banche). Ancora una volta, il problema sul quale non si intende intervenire è la carenza di domanda interna: se non si interviene per accrescerla, il circolo vizioso che va dalla riduzione della spesa pubblica alla restrizione del credito non viene fermato, né attenuato. E la Legge di Stabilità non solo non agisce in modo significativo sul rilancio dei consumi e degli investimenti, ma, per quanto riguarda la spesa pubblica e la tassazione, ripropone, di fatto. misure di austerità (http://keynesblog.com/2013/10/16/un-letta-e-per-sempre/#more-4818).

Riferimenti bibliografici

Balke, N.S. and Zeng, Z. (2011). Credit demand, credit supply and economic activity, mimeo.

Brummer, A. (2009). How greed and incompetence sparked the credit crunch. London: Business Books.

Fahlenbract, R. and Stulz, R.M. (2010). Bank CEO incentives and the credit crisis, mimeo.

Gambacorta, L. and Marques-Ibanez, D. (2011). The bank lending channel: lessons from the crisis, May, working paper BIS n.345.

Graziani, A. (2003). The monetary theory of production. Cambridge: Cambridge University Press.

 Ed è implicita l’idea secondo la quale le banche svolgono una pura funzione di intermediazione, raccogliendo risparmi ed erogando prestiti. Per contro, si può dimostrare che il sistema bancario nel suo complesso è in grado di creare moneta senza incontrare vincoli di scarsità (v. Graziani, 2003).

 L’esperienza di questi ultimi anni, in tal senso, è lampante: si può ricordare, fra gli altri, il caso del Monte dei Paschi di Siena, ricapitalizzato con i c.d. Monti bonds. Per il caso Lehman Brothers (che sembrerebbe contraddire la tesi qui sostenuta) si rinvia a http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/contagio-strategico/

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La precarietà accentua la crisi

[in “MicroMega” online del 4 novembre 2013]

Su fonte CGIL, si stima che i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato, in Italia, percepiscono un salario medio di circa 800 euro al mese, e sono prevalentemente collocati nella Pubblica Amministrazione e nel Mezzogiorno. L’OCSE certifica, con riferimento al nostro Paese, che il fenomeno interessa prevalentemente giovani di età inferiore ai 25 anni e che, soprattutto, il numero di precari in rapporto alla popolazione attiva è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, si registra che, nel corso dell’ultimo anno è significativamente aumentata (nell’ordine del 4%) la percentuale di assunzioni con contratto a tempo determinato sul totale delle assunzioni rispetto all’anno precedente.

Questi dati sollecitano due domande: quali sono le possibili cause dell’aumento del precariato in Italia? E quali sono stati gli effetti macroeconomici delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro?

Una possibile risposta alla prima domanda rinvia a una riformulazione della tesi marxiana della “sovrappopolazione relativa”: nelle fasi nelle quali il tasso di occupazione è in aumento, è in aumento il potere contrattuale dei lavoratori, implicando un aumento dei salari e una contrazione dei margini di profitto. Una variante di questa tesi fa riferimento al fatto che, se il potere contrattuale dei lavoratori è elevato, non solo ci si attende che i salari siano elevati, ma ci si attende anche che le condizioni di lavoro siano migliori, ovvero – per quanto attiene al tema qui affrontato – che i contratti di lavoro siano maggiormente vantaggiosi per i lavoratori. Escludendo l’ipotesi secondo la quale “il posto fisso è monotono”, e che, dunque, i lavoratori preferiscano, di norma, contratti a tempo indeterminato rispetto a contratti a tempo determinato, ne deriva che al crescere del tasso di disoccupazione (in quanto si riduce il potere contrattuale dei lavoratori nella sfera politica) aumenta l’incidenza dei contratti a tempo determinato.

Va rilevato che i sostenitori delle politiche di precarizzazione del lavoro, soprattutto nel corso dei primi anni Duemila, ne motivavano la necessità sulla base di questo argomento. Si sosteneva che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sono necessarie in quanto consentono alle imprese di modificare rapidamente (e con i minimi costi) il proprio organico in relazione alla sempre più mutevole dinamica della domanda. Si aggiungeva che la deregolamentazione del mercato del lavoro è vantaggiosa anche per i lavoratori, seguendo l’argomento (apparentemente inoppugnabile) in base al quale al crescere dei profitti si riduce la probabilità che l’impresa licenzi. E i profitti – si sosteneva – possono crescere se l’impresa è messa nelle condizioni di utilizzare il lavoro in modo “flessibile”.

Si può affermare oggi che si trattava di tesi fortemente viziate da pregiudizi ideologici. Non è mai stato dimostrato che la domanda di beni e servizi rivolta alle imprese è diventata, nel corso degli ultimi anni, costantemente più variabile. Per contro, si può argomentare che i processi di crescente concentrazione e centralizzazione dei capitali hanno semmai reso i mercati meno concorrenziali e, per conseguenza, hanno semmai accentuato la “sovranità del produttore”, ovvero la caratteristica tipica di un assetto non concorrenziale che pone le imprese nella condizione di decidere autonomamente la scala e la composizione merceologica della produzione. Ciò anche in considerazione delle ingenti spese pubblicitarie realizzate dalle grandi imprese, peraltro le sole in grado di assumerne i costi.

La risposta alla seconda domanda rinvia a un’evidenza empirica inoppugnabile: la precarietà ha effetti negativi sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei salari rispetto al PIL (http://temi.repubblica.it/micromega-online/elogio-della-rigidita/). Vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo, dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale (http://keynesblog.com/2013/09/12/disoccupazione-giovanile-diseguaglianze-distributive-e-meritocrazia/).

Il fatto che la riduzione della protezione dei lavoratori riduce l’occupazione è spiegabile alla luce di almeno tre effetti macroeconomici.

1) La flessibilità riduce la propensione al consumo dei lavoratori, perché a fronte della possibilità di mancato rinnovo del contratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di disoccupazione riducendo i consumi, per quanto ciò sia possibile, con conseguenti effetti negativi sulla domanda aggregata interna. La riduzione dei consumi, associata al crescere della precarietà, deriva anche da due cause ulteriori: la difficoltà (se non l’impossibilità) per i lavoratori con contratto a tempo determinato di accedere a mutui, e – in quanto il precariato riguarda prevalentemente individui provenienti da famiglie con basso reddito – la scarsa disponibilità di risorse derivanti dai risparmi delle famiglie d’origine.

2) Si rileva anche che la somministrazione di contratti a tempo determinato riduce l’accumulazione di capitale umano (http://archivio.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina1002558.html). Ciò a ragione del fatto che – particolarmente in un’economia, come quella italiana, popolata da imprese di piccole dimensioni, specializzate in settori a bassa intensità tecnologica – la somministrazione di contratti a termine disincentiva l’acquisizione di competenze specifiche, contribuendo a ridurre la produttività.

3) A ciò si aggiunge che l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di compressione dei costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese.Come rilevava Keynes: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”.

In tal senso, le politiche di flessibilità contribuiscono ad alimentare la recessione, sia perché deprimono la domanda interna, sia perché sono in larga misura all’origine della modesta dinamica della produttività, che è il tratto caratteristico dell’economia italiana degli ultimi anni.

 Si veda, a riguardo, l’ultimo Rapporto CNEL (http://www.cnel.it/53?shadow_documenti=23222).

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Deindustrializzazione

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 18 novembre 2013]

Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione, e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 2020. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo. E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari), ma non è chiaro per quale ragione – a fronte del fatto che le imprese italiane sono meno finanziarizzate di quelle della gran parte degli altri Paesi dell’eurozona – la deindustrializzazione sia un fenomeno maggiormente accentuato nel nostro Paese (e ancor più nel Mezzogiorno). Si stima, a riguardo, che, nel corso del 2013, si è raggiunto il record di aziende chiuse per fallimento. In particolare, nel corso del primo trimestre del 2013, sono stati avviate circa 3.500 pratiche di fallimento, circa il 12% in più rispetto al 2012. Dal 2009, le aziende italiane fallite sono oltre 45.000. A ciò si può aggiungere che ciò che resta del settore industriale italiano è, in larga misura, di proprietà straniera: si pensi ai casi di Star, Carapelli, Bertolli e Riso Scotti ora di proprietà spagnola, di Gancia di proprietà russa, di Parmalat, Galvani, Locatelli e Invernizzi acquisite da imprese francesi, di LoroPiana, Gucci, Bulgari e Fendi anch’esse francesi, di Baci Perugina e Buitoni, oggi di proprietà Nestlè (Svizzera) e Fiorucci (Spagna). E’ convinzione diffusa che la crescente minore incidenza del settore industriale in Italia dipenda essenzialmente dagli eccessivi oneri burocratici, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, dalla presenza della criminalità organizzata, dalla lentezza delle procedure giudiziarie, aggiungendo che questi problemi sono maggiormente accentuati nel Mezzogiorno e che ciò spiegherebbe la sostanziale desertificazione produttiva delle regioni del Sud. Si tratta di una tesi che, sebbene colga parte del problema, non riesce a dar conto del perché, a fronte del fatto che questi problemi sono strutturali, essi abbiano potuto contribuire a generare la drammatica caduta degli investimenti – in Italia e nel Mezzogiorno – nel corso degli ultimi anni. Questa tesi è, tuttavia, rilevante dal momento che legittima la presunta necessità di interventi di semplificazione e delle c.d. riforme strutturali: liberalizzazioni e ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, in primo luogo. La logica che è alla base di provvedimenti di liberalizzazioni consiste nella convinzione stando alla quale la concorrenza stimola l’innovazione. E’ bene chiarire che si tratta di una convinzione molto discutibile: i principali flussi di innovazione registratisi negli ultimi decenni (ci si riferisce, in particolare, alle innovazioni nel settore informatico) sono derivati da investimenti effettuati in mercati oligopolistici o monopolistici, spesso – ed è soprattutto il caso degli Stati Uniti – attraverso trasferimenti pubblici al settore militare, nel quale l’attività di ricerca è più intensa. A ciò viene aggiunto che, sulla base del dogma per il quale tutto ciò che è pubblico è inefficiente, è necessario ridurre i trasferimenti pubblici alle regioni meridionali (dal momento che avrebbero il solo effetto di accrescere la corruzione e gli “sprechi”) e incentivare, semmai, le “vocazioni naturali” del territorio: turismo e agricoltura, innanzitutto. Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassi tassi di crescita. Contrariamente all’opinione dominante, si può affermare che la deindustrializzazione è in larghissima misura imputabile alle politiche di austerità messe in campo negli ultimi anni (sotto forma di riduzione della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale) e all’assenza di politiche industriali. E’ significativo, a riguardo, il fatto che, diversamente da quanto è accaduto nei principali Paesi dell’eurozona (Francia e Germania in primis), in Italia gli interventi dello Stato a favore delle imprese sono stati significativamente ridotti, più che dimezzandosi nel periodo compreso fra il 2006 e il 2011. Poiché la gran parte dell’imprenditoria italiana, soprattutto in fasi recessive, sopravvive grazie a sussidi pubblici, la loro riduzione – in regime di crisi – ha ovviamente contribuito a produrre un massiccio incremento del numero di fallimenti o, nella migliore delle ipotesi, un drastico calo dei profitti, soprattutto delle imprese localizzate nelle aree meno sviluppate del Paese, e, a seguire, una rilevante contrazione degli investimenti. Ciò a ragione del fatto che il Mezzogiorno ha una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco internazionalizzate e con bassa propensione all’innovazione. Poiché si tratta di imprese che operano essenzialmente su mercati locali, la riduzione della spesa pubblica – riducendone i mercati di sbocco – ha ridotto i loro profitti. Con ogni evidenza, il problema è accentuato da fenomeni di restrizione del credito e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, dal razionamento del credito, secondo un circolo vizioso per il quale la riduzione della spesa pubblica genera riduzione delle dimensioni aziendali e la riduzione delle dimensioni aziendali disincentiva l’erogazione di credito da parte delle banche. E’ ben noto, infatti, che le banche (in particolare le banche italiane), nel decidere se concedere o meno finanziamenti alle imprese, tengono conto delle loro dimensioni, attribuendo a imprese di grandi dimensioni bassa probabilità di fallimento e, per converso, elevata rischiosità per i finanziamenti erogati alle piccole imprese. Sarebbe sufficiente affidarsi al “buon senso” e prendere atto del fallimento delle politiche di austerità, per evitare la desertificazione produttiva del Paese (e, ancor più, del Mezzogiorno) e, dunque, per evitare che la recessione finisca per diventare una storia senza fine.

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Fra utopie letali e crisi reali

[in “MicroMega online” del 21 novembre 2013]

Utopie letali è il bel titolo dell’ultimo libro di Carlo Formenti1. E’ un titolo basato su un ossimoro, dal momento che al termine utopia si è soliti attribuire valenza positiva. Ma le utopie possono diventare letali quando “disperdono su obiettivi illusori e immaginari” le energie antagonistiche (p.8), ovvero – come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste” – quando utopie apparentemente antagonistiche si rivelano tutt’altro che antagonistiche, sia al sistema capitalistico, sia all’ideologia liberista che ne costituisce la legittimazione “scientifica”. Utopie letali è un libro denso, estremamente documentato, nel quale si spazia dall’analisi delle politiche di austerità, ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, a temi più propriamente sociologico-politici. In relazione ai quali, Formenti assume una posizione netta, così riassumibile. Tutte le ideologie antagonistiche fondate sulla convinzione che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato possa essere superato “dal basso”, ovvero attraverso lo spontaneismo antigerarchico e antiautoritario dei “movimenti”, sono non solo destinate al fallimento (il che è, peraltro, ampiamente dimostrato dai risultati che hanno raggiunto), ma sono pericolosamente fuorvianti ai fini della costruzione di dispositivi di efficace contrapposizione a quella che Luciano Gallino ha definito la “lotta di classe dall’alto”; lotta di classe unidirezionale (del capitale contro il lavoro) fatta di riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori, precarizzazione del lavoro, crescita della disoccupazione e della disoccupazione giovanile in particolare, sottoccupazione intellettuale, smantellamento del welfare, impoverimento dei ceti medi, crescente diseguaglianza distributiva e immobilità sociale. Un caso macroscopico di “utopia letale” lo si ritrova nell’apologia della Rete, vista come luogo di interazione democratica e potenzialmente rivoluzionaria, laddove, per contro, come ampiamente dimostrato da Formenti, la Rete non è altro che un luogo nel quale si riproducono, sebbene in forme diverse, i rapporti capitalistici di potere e gli assetti gerarchici, e che “incorpora modelli culturali funzionali alla valorizzazione e al comando del capitale” (p.81). Formenti propone di tornare a riflettere sull’idea di partito, a partire dalla convinzione che le classi sociali, in senso marxiano e in quanto “realtà oggettive” (p. 71), non sono affatto scomparse e che è fallimentare la proposta – propria delle utopie letali – di “andare oltre … la storia e la cultura politica del Novecento” (p.8).

Il libro di Formenti ha il notevole merito di ricostruire lucidamente il percorso che ha condotto al ciclo economico-politico che stiamo vivendo e, al tempo stesso, ha il notevole merito di smascherare le aporie delle ideologie alle quali si è affidata la sinistra (non solo italiana e non solo “riformista”), e merita di essere letto attentamente per queste ragioni. Con una precisazione: ciò che l’autore definisce neo-liberismo ha ben poco a che vedere con teorie e politiche economiche che si basano sulla convinzione che un’economia di mercato deregolamentata produca il migliore degli esiti possibili. Se anche in molti testi e articoli di Economia continuano a leggersi queste tesi, nei fatti, il neo-liberismo è tutt’altro che liberismo: è semmai un connubio di deregolamentazione del mercato del lavoro e monopolizzazione degli altri mercati (finanziari in primo luogo).

Le argomentazioni di Formenti, assolutamente condivisibili, portano inevitabilmente a chiedersi qual è, e se esiste, il limite di sostenibilità (economico, sociale, politico) del processo di attacco al lavoro descritto nel volume. L’autore cita numerosi casi di inoppugnabile falsificazione delle teorie e delle politiche economiche “neo-liberiste”. Ci si riferisce, in particolare, ai numerosi contributi di Paul Krugman sulla irrazionalità delle politiche di austerità e alla scoperta del clamoroso errore commesso da Reinhart e Rogoff nella quantificazione dei criteri di sostenibilità del debito pubblico. Formenti commenta questi casi scrivendo che “i politici sanno quali sono gli strumenti con cui potrebbero porre fine alla crisi, per cui non hanno scuse”, che “la politica economica non è governata dal buon senso, bensì dagli interessi di classe” (p.19) e che gli interessi di classe – in questa fase – sono gli interessi del capitale (e della rendita finanziaria).

Mentre è difficilmente discutibile la tesi secondo la quale sono gli interessi di classe a guidare la politica economica, è controversa e più difficilmente difendibile l’idea che la critica della politica economica sia sostanzialmente ininfluente. Si tratta di una vexata quaestio, che, tuttavia, risulta decisamente attuale nel contesto presente. Non si può ignorare la (timida e tardiva) presa d’atto del fatto che le politiche di austerità non soltanto producono recessione, ma sono anche del tutto inefficaci per l’obiettivo che (ufficialmente) si propongono, ovvero la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL. E si può ritenere che ciò dipenda anche dall’enorme mole di pubblicazioni, prodotte in questi ultimi anni, che ha dimostrato che le politiche di austerità generano esclusivamente “inutili sofferenze”, come peraltro certificato dal Fondo Monetario Internazionale. Così come non si può ignorare il fatto che i nuovi Trattati Europei (in particolare, il Six-Pack) contengano alcune clausole che, di fatto, recepiscono proposte provenienti da economisti “eterodossi”: si pensi alla norma che prevede procedure di infrazione per avanzi/disavanzi eccessivi della bilancia commerciale, misura palesemente in contrasto rispetto alla tradizionale impostazione delle politiche economiche dell’Unione, che riprende un’analoga proposta formulata (senza successo) da John Maynard Keynes nella conferenza di Bretton Woods (l’”international clearing union”). Certo, si può sostenere che si tratta di un episodi marginali, che, nella fattispecie, questa norma non verrà mai attuata e che, se anche attuata, non impatterà in modo significativo sulle strategie del capitale. Peraltro, lo stesso Formenti descrive accuratamente numerosissimi casi di “controtendenze”, riferendoli a “lotte [per] la ricomposizione del proletariato globale” (p.118)2.

In definitiva, pure a fronte del fatto che il “pensiero unico” è dominante nelle Università e nei media, si può riconoscere che, nella lotta del capitale contro il lavoro, il capitale non sempre riesce a mettere sotto silenzio le voci critiche e, dunque, non sempre riesce a contenere le spinte conflittuali. Non solo. La “lotta di classe” in atto si svolge all’interno di un capitalismo “flessibile”, capace di adattarsi e di mutare (come lo stesso autore rileva, seguendo Marx – v. pp.127 ss.), che modifica le proprie strategie in relazione alla necessità di creare, contestualmente, le condizioni per la sua riproduzione e le condizioni per la sua legittimazione sociale (cf. O’ Connor, 1973). E, nel modificare le proprie strategie, esprime una domanda di idee economiche che rende il mainstream sempre più disponibile a recepire posizioni teorico-politiche di orientamento “critico”3.

Riferimenti bibliografici

Graziani, A. (2003). The monetary theory of production. Cambridge: Cambridge University Press.

O’ Connor, J. (1973). The fiscal crisis of the state. St.Martin’s Press: New York.

1 Carlo Formenti, Utopie letali, Milano, Jaka Book, 2013, pp. 255, €18,00.

2 A queste si può aggiungere la recente protesta degli studenti della “Post Crash Economics Society” che contestano ai loro docenti di insegnare una teoria economica spacciandola come la teoria economica.

3 Fra i tanti esempi a riguardo, si può citare la svolta che, negli ultimi anni, ha subìto la teoria monetaria “neoclassica”. Nei paper di Economia pre-crisi (salvo rare eccezioni), pubblicati sulle principali riviste mainstream, si dava per assunto che l’offerta di moneta è esogena, ovvero gestita discrezionalmente dalla banca centrale, e che, dunque, quest’ultima è in condizione di stabilire autonomamente la quantità di moneta-credito offerta. In articoli più recenti, per contro, viene recepita la tesi keynesiana (e di Marx del libro III del Capitale), secondo la quale l’offerta di moneta è endogena, il sistema bancario nel suo complesso non ha necessità di raccogliere preventivamente risparmi per erogare finanziamenti a imprese e famiglie, la produzione di moneta-credito (in quanto “puro simbolo”) non incontra vincoli di scarsità. Da ciò si deriva che la banca centrale può controllare il solo tasso di interesse, non la quantità di moneta, e che quest’ultima dipende dalla domanda espressa dalle imprese per il finanziamento della produzione. Da ciò deriva (o dovrebbe derivare) la maggiore efficacia delle politiche fiscali rispetto alle politiche monetarie (sul tema, si rinvia a Graziani, 2003).

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Il futuro pre-industriale dell’economia italiana

[“Keynes” blog del 26 novembre 2013]

Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione (http://ec.europa.eu/enterprise/initiatives/mission-growth/), e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 2020 1. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo. E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari)2, così come è attestato che il grado di finanziarizzazione delle imprese italiane è notevolmente più basso di quello della gran parte dei Paesi OCSE (v. Salento e Masino, 2013). Ci si trova di fronte a un puzzle che rinvia alla domanda: per quale ragione la deindustrializzazione è più accentuata in Italia a fronte del fatto che le nostre imprese mostrano minore propensione a destinare risorse, per finalità speculative, nei mercati finanziari? In altri termini, se la deindustrializzazione viene fatta dipendere dalla finanziarizzazione, ci si dovrebbe aspettare che laddove il grado di finanziarizzazione è basso, è maggiore l’accumulazione di capitale. Cosa che in Italia non succede.

E’ convinzione diffusa che la deindustrializzazione in Italia dipenda essenzialmente dagli eccessivi oneri burocratici, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, dalla presenza della criminalità organizzata, dalla lentezza delle procedure giudiziarie, aggiungendo che questi problemi sono maggiormente accentuati nel Mezzogiorno e che ciò spiegherebbe la sostanziale desertificazione produttiva italiana e, ancor più, delle regioni del Sud. Si tratta di una tesi che, sebbene colga parte del fenomeno, non riesce a dar conto del perché, a fronte del fatto che questi problemi sono strutturali, essi abbiano causato la drammatica caduta degli investimenti – in Italia e nel Mezzogiorno – solo nel corso degli ultimi anni.

Questa tesi è, tuttavia, rilevante dal momento che legittima la presunta necessità di interventi di semplificazione e delle c.d. riforme strutturali: liberalizzazioni e ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, in primo luogo. La logica che è alla base di provvedimenti di liberalizzazioni consiste nella convinzione stando alla quale la concorrenza stimola l’innovazione. E’ bene chiarire che si tratta di una convinzione molto discutibile: i principali flussi di innovazione registratisi negli ultimi decenni (ci si riferisce, in particolare, alle innovazioni nel settore informatico) sono derivati da investimenti effettuati in mercati oligopolistici o monopolistici, spesso – ed è soprattutto il caso degli Stati Uniti – attraverso trasferimenti pubblici al settore militare, nel quale l’attività di ricerca è più intensa. Inoltre, il dogma per il quale tutto ciò che è pubblico è inefficiente sconsiglia l’attuazione di politiche industriali e porta a ritenere efficaci interventi finalizzati a incentivare le “vocazioni naturali” del territorio: turismo e agricoltura, innanzitutto3.

Contrariamente all’opinione dominante, si può affermare che la caduta della produzione industriale dipende essenzialmente da cause che rinviano a scelte di politica economica.

1) La deindustrializzazione italiana, e ancor più meridionale, è in larghissima misura imputabile alle politiche di austerità (e all’assenza di politiche industriali)(http://lnx.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2013/rapporto_2013_sintesi_stampa.pdf). E’ significativo, a riguardo, il fatto che, diversamente da quanto è accaduto nei principali Paesi dell’eurozona (Francia e Germania in primis), in Italia gli interventi dello Stato a favore delle imprese sono stati significativamente ridotti, più che dimezzandosi nel periodo compreso fra il 2006 e il 2011. Più in generale, come è stato rilevato (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-09-28/italia-austera-austera-082317.shtml?uuid=AbNN7XdI&fromSearch), in Italia le politiche di austerità sono state più intense di quelle attuate in molti altri Paesi dell’eurozona, e perfino più accentuate rispetto a quanto disposto dai Trattati europei. Poiché la gran parte dell’imprenditoria italiana, soprattutto in fasi recessive, sopravvive grazie a sussidi pubblici, la loro riduzione – in regime di crisi – ha ovviamente contribuito a produrre un massiccio incremento del numero di fallimenti o, nella migliore delle ipotesi, un drastico calo dei profitti, soprattutto delle imprese localizzate nelle aree meno sviluppate del Paese, e, a seguire, una rilevante contrazione degli investimenti. Ciò a ragione del fatto che il Mezzogiorno ha una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco internazionalizzate e con bassa propensione all’innovazione. Poiché si tratta di imprese che operano essenzialmente su mercati locali, la riduzione della spesa pubblica – riducendone i mercati di sbocco – ha ridotto i loro profitti.

2) La deindustrializzazione italiana è anche imputabile alla restrizione del credito e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, al razionamento del credito. A riguardo occorre sgombrare il campo da un equivoco. E’ convinzione diffusa che il razionamento del credito dipenda dalla sottocapitalizzazione degli istituti di credito. Si tratta di una convinzione che, per quanto riguarda l’Italia, è falsificata sul piano empirico, dal momento che – come attestato dalla Banca d’Italia – il nostro sistema creditizio è sostanzialmente solido (http://keynesblog.com/2013/08/09/politiche-monetarie-espansive-e-restizione-del-credito/). Si può, per contro, sostenere che la restrizione del credito dipende dalla caduta della domanda aggregata, secondo un circolo vizioso che si articola nei seguenti passaggi. La riduzione della spesa pubblica genera riduzione delle dimensioni aziendali e la riduzione delle dimensioni aziendali disincentiva l’erogazione di credito da parte delle banche. A ciò si aggiunge che la riduzione dei profitti, in quanto peggiora le aspettative imprenditoriali, riduce anche la domanda di credito da parte delle imprese (v. Forges Davanzati e Patalano, 2013). E’ ben noto, infatti, che le banche (in particolare le banche italiane), nel decidere se concedere o meno finanziamenti alle imprese, tengono conto delle loro dimensioni, attribuendo a imprese di grandi dimensioni bassa probabilità di fallimento e, per converso, elevata rischiosità per i finanziamenti erogati alle piccole imprese.

In questo scenario, non è sorprendente il fatto che – legittimata dalla “teoria del ritorno alla terra” – l’economia italiana stia regredendo a un’economia agricola, prefigurando un futuro pre-industriale.

NOTE

1 Si stima, a riguardo, che, la numerosità di fallimenti aziendali, nell’ultimo triennio, non ha precedenti nella storia dell’economia italiana. Nel corso del primo trimestre del 2013, sono stati avviate circa 3.500 pratiche di fallimento, circa il 12% in più rispetto al 2012. Dal 2009, le aziende italiane fallite sono oltre 45.000. Aciò si può aggiungere che ciò che resta del settore industriale italiano è, in larga misura, di proprietà straniera: si pensi ai casi di Star, Carapelli, Bertolli e Riso Scotti ora di proprietà spagnola, di Gancia di proprietà russa, di Parmalat, Galvani, Locatelli e Invernizzi acquisite da imprese francesi, di LoroPiana, Gucci, Bulgari e Fendi anch’esse francesi, di Baci Perugina e Buitoni, oggi di proprietà Nestlè (Svizzera) e Fiorucci (Spagna).

2 Il grado di finanziarizzazione viene convenzionalmente quantificato dal rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un Paese rispetto al corrispondente valore del PIL degli stessi anni.

3 Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassitassi di crescita (http://www.rcfea.org/RePEc/pdf/wp41_09.pdf).

Riferimenti bibliografici

Forges Davanzati, G. and Patalano, R. (2013), Credit supply, credit demand and unemployment. A PostKeynesian-Institutional approach, 17th Conference of the research network Macroeconomics and Macroeconomic Policies (FMM) “The job crisis: causes, cures, constraints” – Berlin.

Salento, A. e Masino, G.(2013). La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro. Roma: Carocci.

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La riduzione del disavanzo riduce il PIL

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 27 novembre 2013]

Sono circa 10 milioni le famiglie italiane che si collocano al di sotto della soglia di povertà, come quantificata dall’ISTAT. Si tratta di una soglia di disagio sociale talmente ampia da non avere riscontri nella storia recente dell’economia italiana e che fotografa un Paese molto simile, per questi aspetti, all’Italia del secondo dopoguerra. Tutti gli indicatori macroeconomici disponibili indicano inequivocabilmente che l’Italia è un Paese in caduta libera.

A fronte di questa drammatica evidenza, va rilevato che il Governo è sostanzialmente inerte e che ben poche proposte che possano significativamente invertire la rotta sono nell’agenda politica. Il “crampo mentale” che attanaglia i nostri Ministri consiste nel ritenere prioritario il rispetto del vincolo europeo che fissa un massimo del rapporto deficit/PIL al 3%. E, nel ritenerlo prioritario, si ritiene – come conseguenza falsa – che lo si possa unicamente rispettare riducendo la spesa pubblica e aumentando la pressione fiscale.

Il “crampo mentale” consiste nel ritenere la spesa pubblica esclusivamente una voce di costo per il bilancio dello Stato, a fronte del fatto che essa è uno strumento essenziale per accrescere l’occupazione e il tasso di crescita, nel breve come nel lungo periodo. In altri termini – anche nel rispetto del vincolo posto dalla Commissione Europea – si può ritenere che, in larga misura, la spesa pubblica si autofinanzia. Ciò a ragione della palese evidenza stando alla quale al crescere della spesa pubblica, aumentando occupazione e salari, aumenta la base imponibile e, dunque, le entrate fiscali. Posta la questione in termini diversi, poiché ciò che ci si chiede di fare è ridurre il rapporto disavanzo/PIL, non solo non necessariamente bisogna ridurre il numeratore (il disavanzo), ma la riduzione del disavanzo riduce il PIL e, sotto date condizioni, fa aumentare quel rapporto.

A ciò va aggiunto che, sul piano strettamente tecnico, l’ossessione per un elevato deficit pubblico non ha alcuna ragion d’essere. Il “crampo mentale” che si attiva in questo caso consiste nella (falsa) equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato. Mentre nel primo caso esiste evidentemente un limite di sostenibilità all’indebitamento, questo limite – sul piano propriamente tecnico – non esiste per lo Stato. Una famiglia non può che ripagare i suoi debiti attingendo al proprio reddito; lo Stato può ripagarlo per altri canali, ovvero non necessariamente deve rimborsare i propri creditori aumentando le tasse. Può finanziarsi emettendo titoli del debito pubblico e “monetizzando” il debito, ovvero vendendo titoli alla banca centrale. Il fatto che la BCE, per statuto, non possa acquistare titoli di Stato dei Paesi membri dell’Unione attiene a una decisione politica e, per questa ragione, non può essere considerato un esempio dell’impossibilità tecnica di finanziare la spesa pubblica mediante la cessione di titoli alla banca centrale.

Su queste basi, si può stabilire che non esistono criteri “scientifici”, dunque oggettivi e unanimemente condivisi, in merito ai criteri di sostenibilità del deficit e del debito pubblico. Si consideri, a puro titolo esemplificativo, che, a fronte del fatto che il debito pubblico italiano rispetto al PIL è dell’ordine del 130% ed è ritenuto eccessivo, il rapporto debito pubblico/PIL giapponese supera il 240%, che il Giappone è un’economia in crescita e che non sperimenta rilevanti pressioni inflazionistiche.

Da ciò si deduce che il vincolo europeo del 3% deficit/PIL ha natura esclusivamente politica, che il 3% non risponde a nessun criterio scientificamente accettabile, e che questo vincolo risponde alla sola ratio per la quale è solo rendendo artificialmente scarse le risorse che si induce i governi a farne un uso efficiente. Si tratta di una tesi palesemente falsa, per queste ragioni.

1) Con riferimento al caso italiano, non vi è alcuna evidenza che mostra che al ridursi della spesa pubblica si riducono corruzione, evasione fiscale, spesa pubblica ‘improduttiva’. Le spending reviewsi sono tradotte nella riduzione dei finanziamenti pubblici a settori della pubblica amministrazione più facilmente aggredibili sul piano politico, perché dotati di minore potere contrattuale, aprendo spazi al capitale privato (si pensi ai tagli al servizio sanitario e al sistema formativo). Non è derivata, dai tagli alla spesa, maggiore efficienza.

2) L’evidenza empirica dell’ultimo biennio mostra inequivocabilmente che non è l’aumento del debito pubblico a generare “attacchi speculativi” (ovvero la vendita in massa di titoli di Stato). L’ossessione per lo spread – il differenziale di rendimento fra i nostri titoli e quelli tedeschi – si è rivelata appunto un’ossessione, e un’ossessione pericolosa. Su questa ossessione si sono basate le politiche di austerità, che hanno generato solo risultati con segno meno: meno occupazione, meno crescita, minore stabilità dei conti pubblici.

3) Contrariamente al senso comune (che non sempre si identifica col buon senso), è ampiamente dimostrato che l’aumento della spesa pubblica non ha effetti inflazionistici. L’inflazione deriva, di norma, da conflitti distributivi e, in tal senso, ha cause “reali”, non monetarie: nei tempi più recenti, rilevanti pressioni inflazionistiche sono derivate innanzitutto dall’aumento dei prezzi delle materie prime importate, del tutto indipendentemente dalla quantità di moneta stampata e messa in circolazione dalla banca centrale. In più, l’inflazione, in quanto tale, non è sempre un problema: in “dosi moderate”, può generare effetti espansivi, se non altro perché accresce i profitti monetari delle imprese e, di conseguenza, incentiva gli investimenti. E’ ormai chiaro a molti economisti che, per porre le condizioni per uscire dalla recessione (restando in Europa), occorrono semplicemente due tratti di penna: cancellare il vincolo del 3% del deficit pubblico in rapporto al PIL, rendendolo meno stringente, e cassare la norma che vieta la monetizzazione del debito da parte della BCE.

Tratti di penna che difficilmente verranno tracciati perché – come ebbe a dire Joschka Fischer, ex Ministro tedesco per gli affari esteri – “nessuno può fare politica contro i mercati”. Nel ciclo politico che stiamo vivendo, queste riforme lederebbero gli interessi dell’industria tedesca (il cui dinamismo può restare tale solo a condizione di rendere povere le “periferie” d’Europa) e quelli della rendita finanziaria. E, a quanto pare, oggi nessuno può fare politica contro questi interessi.

 Si stima, a riguardo, che, la numerosità di fallimenti aziendali, nell’ultimo triennio, non ha precedenti nella storia dell’economia italiana. Nel corso del primo trimestre del 2013, sono stati avviate circa 3.500 pratiche di fallimento, circa il 12% in più rispetto al 2012. Dal 2009, le aziende italiane fallite sono oltre 45.000. A ciò si può aggiungere che ciò che resta del settore industriale italiano è, in larga misura, di proprietà straniera: si pensi ai casi di Star, Carapelli, Bertolli e Riso Scotti ora di proprietà spagnola, di Gancia di proprietà russa, di Parmalat, Galvani, Locatelli e Invernizzi acquisite da imprese francesi, di LoroPiana, Gucci, Bulgari e Fendi anch’esse francesi, di Baci Perugina e Buitoni, oggi di proprietà Nestlè (Svizzera) e Fiorucci (Spagna).

 Il grado di finanziarizzazione viene convenzionalmente quantificato dal rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un Paese rispetto al corrispondente valore del PIL degli stessi anni.

 Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassi tassi di crescita (http://www.rcfea.org/RePEc/pdf/wp41_09.pdf).

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Gli effetti perversi della privatizzazione del welfare

[in “MicroMega” online del 7 dicembre 2013]

L’Italia è un Paese corporativo, con una incidenza eccessiva del settore pubblico: un Paese nel quale il “merito” non viene premiato e che, per questa ragione, non riesce a riprendere un percorso di crescita economica. Un settore pubblico sovradimensionato è la principale causa del declino dell’economia italiana. E’ questa l’opinione dominante, ed è sulla base di questa convinzione che si è attuato – e si sta attuando – il progressivo smantellamento delle residue reti di protezione sociale derivanti dal residuo di welfare rimasto in Italia. In parte l’obiettivo è stato raggiunto: nell’ultimo Rapporto Eurostat, si legge che il blocco del turnover nel pubblico impiego, combinato con una consistente ondata di pensionamenti, ha prodotto, nel solo 2012, una riduzione del numero di dipendenti pubblici nell’ordine del 4%. La riduzione della spesa corrente nel settore pubblico è un fenomeno che si accentua progressivamente a decorrere dall’inizio degli anni Duemila (v. Fig.1).

Figura 1: Variazioni cumulate della spesa complessiva per retribuzioni (massa), delle retribuzioni medie pro-capite (media) e del personale in servizio (occupati). Base 100=2001 (Fonte: ARAN)

L’attacco al settore pubblico – giacché di attacco si tratta – è sostenuto da motivazioni di dubbia validità.

1) Il settore pubblico è considerato, per sua stessa natura, “improduttivo”. I dipendenti pubblici sono, quasi per definizione, fannulloni che godono di garanzie eccessive, tutelati da organizzazioni sindacali “corporative”, dove la connotazione “corporativo” è ipso facto associata a un giudizio di valore di segno negativo, essendo la negazione della “meritocrazia”. Il senatore Ichino si è espresso, a riguardo, a chiare lettere: “perché nessuno propone di liberare gli uffici dai fannulloni, che nel settore privato sarebbero già stati licenziati da un pezzo?” (http://www.pietroichino.it/?p=24).

In questa visione, il mercato del lavoro assume una configurazione duale: da un lato, i dipendenti pubblici con eccesso di protezioni; dall’altro i dipendenti del settore privato meno protetti e, per questa ragione, più produttivi. Giacché l’inamovibilità non incentiva l’impegno, che è, per contro, incentivato solo da credibili minacce di non rinnovo del contratto. Il conflitto viene, così, traslato in senso “orizzontale”, spostandosi dal conflitto capitale-lavoro (relegato nell’archeologia marxista) al conflitto fra lavoratori.

E tuttavia, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’ISTAT registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari. In più, si registra che l’Italia, per quanto attiene all’incidenza degli occupati nel settore pubblico, sul totale degli occupati, è nella media dei Paesi OCSE e che, dunque, il nostro settore pubblico non può considerarsi sovradimensionato. (http://www.aranagenzia.it/araninforma/index.php/marzo-2013/164-focus/572-focus-3). Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione (http://keynesblog.com/2013/06/21/ma-e-proprio-vero-che-gli-italiani-lavorano-poco-e-male/), e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene i) che la produttività del lavoro è misurabile; ii) che lo è anche nei servizi e che è bassa nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale.

2) Se il settore pubblico genera solo sprechi e inefficienze, e se si ritiene non derogabile il rispetto del vincolo del bilancio pubblico, è evidente che i risparmi dello Stato non possono che derivare innanzitutto dalla riduzione dei trasferimenti al settore pubblico. Le spending review sono lo strumento che si utilizza per raggiungere questo obiettivo, ovvero operazioni finalizzate a “razionalizzare” (si legga ridurre) la spesa pubblica. Lo sono apparentemente perché non si tratta di ridurre la spesa pubblica “improduttiva”, ma semmai di ridurre i trasferimenti ai segmenti della pubblica amministrazione con minore potere contrattuale nella sfera politica e, dunque, con minore possibilità di contrastare i tagli, indipendentemente dalla loro produttività.

Quali sono gli effetti di queste misure? Come certificato dall’INPS, il primo (ovvio) effetto prodotto è la riduzione delle entrate fiscali. Si tratta di un effetto ovvio e, dunque, ampiamente prevedibile, dal momento che dalla riduzione dell’occupazione nel settore pubblico (e dal blocco degli stipendi) non ci si poteva certamente aspettare di raccogliere un gettito in aumento. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.

A fronte dell’opinione dominante, si può sostenere che la cura dimagrante imposta al settore pubblico non risponde a criteri di efficienza, né all’obiettivo di generare avanzi primari. Lo scopo primario è fornire quote di mercato al capitale privato in settori protetti dalla concorrenza: tipicamente formazione e sanità. Non essendo competitive sui mercati internazionali, e scontando una continua restrizione dei mercati di sbocco interni, le nostre imprese hanno necessità di riposizionarsi in mercati “nuovi”, che la politica si occupa di aprire mediante misure di snellimento del settore pubblico. Occorre chiarire che la privatizzazione del welfare non solo non contribuisce a generare crescita (trattandosi della cessione di attività dal pubblico al privato, in condizioni monopolistiche) ma contribuisce semmai a peggiorare ulteriormente la distribuzione del reddito, a ragione del fatto che i prezzi e le tariffe praticate da imprese private in mercati monopolistici sono più alti rispetto a quelli che si otterrebbero se gli stessi servizi fossero erogati da imprese pubbliche.

Si è, così, in presenza di un’operazione di redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale, che passa attraverso la privatizzazione del welfare e che si legittima con il luogo comune secondo il quale il settore pubblico italiano è sovradimensionato, improduttivo, paradiso dei nullafacenti.

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 Il blocco degli stipendi nel pubblico impiego, motivato con l’esigenza di attuare politiche di austerità, spiega la rilevante flessione della spesa complessiva per retribuzioni nel settore pubblico a partire dal 2008-2009.

 E sono licenziabili in forza della natura privatistica del contratto di lavoro (http://www.astrid-online.it/Riforma-de1/Valutazion/Studi–ric/MEF_n–2-2008—La-produttivit–nel-settore-pubblico.pdf). Si può osservare che l’aumento delle assunzioni con contratti precari nel settore pubblico dipende dai vincoli finanziari sempre più stringenti per gli Enti pubblici.

 Ci si riferisce ai vincoli posti in sede europea relativi al rapporto disavanzo pubblico/PIL e debito pubblico/PIL. E’ opportuno chiarire che si tratta di vincoli che non rispondono ad alcun criterio scientifico. Sul tema, si rinvia a L.L.Pasinetti (1998). “The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’”. Cambridge Journal of Economics, 22: 103-116.

 Sul tema si rinvia a E.S. Levrero e A.Stirati (2005), Distribuzione del reddito e prezzi relativi in Italia: 1970-2002, “Politica Economica”, 3: 401-434. E si può aggiungere che il peggioramento della distribuzione del reddito derivante dalla riduzione dei salari reali (diretti e indiretti) può semmai ulteriormente contribuire ad accentuare la recessione, tramite la riduzione della domanda interna in termini reali.

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L’ingiustizia fiscale e la recessione

[“MicroMega” online del 18 dicembre 2013]

Fin dal Rapporto Growing unequal del 2008, l’OCSE ha documentato la crescente diseguaglianza distributiva nella gran parte dei Paesi industrializzati (http://www.oecd.org/els/soc/41524135.pdf). Dal 2008 a oggi, e con particolare riferimento all’Italia, la diseguaglianza distributiva è costantemente aumentata (http://www.sinistrainrete.info/politica-economica/1443-stefano-perri-locse-e-la-diseguaglianza-a-che-punto-e-la-notte.html). A fronte della molteplicità delle cause del fenomeno, non appare irrilevante considerare il profilo sempre meno progressivo che ha assunto l’imposizione fiscale in Italia: detto diversamente, in termini percentuali si è notevolmente assottigliata la differenza fra le imposte pagate dalle famiglie con reddito elevato e quelle pagate dalle famiglie con basso reddito. In tal senso, la questione fiscale, in Italia, non attiene tanto agli oneri eccessivi che, in termini assoluti, gravano su imprese e famiglie, ma alla sua distribuzione in base al reddito disponibile.

E’ rilevante osservare che il grado di progressività delle imposte, in Italia, si è continuamente ridotto a partire dalla prima metà degli anni ottanta, in virtù di una sequenza di “riforme” che hanno fatto sì che all’aumentare del reddito imponibile l’imposta da pagare aumenti proporzionalmente sempre meno.

La massima accelerazione di questo processo si è avuta con il secondo Governo Berlusconi. La “riforma” attuata in quegli anni ha pesantemente accentuato il profilo di iniquità del sistema tributario, consentendo ai contribuenti più ricchi di pagare meno tasse dei contribuenti più poveri, e, di fatto, riportando il sistema tributario indietro di oltre un secolo, ovvero rendendolo sostanzialmente regressivo. L’ossimoro delle “riforme fiscali regressive” ha tratto la sua legittimazione ‘scientifica’ dalla tesi secondo la quale è solo riducendo la pressione fiscale sui lavoratori più produttivi (identificati con i lavoratori più ricchi) che si incentiva l’aumento della produzione. L’idea è apparentemente ovvia: se la tassazione – all’estremo – è del 100%, ciò significa che tutto il reddito disponibile ottenuto lavorando viene requisito dallo Stato, con il risultato di disincentivare l’impegno lavorativo. Che viene tanto più disincentivato quanto maggiore è la quota del prodotto del lavoro che deve essere destinata al pagamento delle tasse. Questa tesi viene presentata come rispondente non solo a un obiettivo di efficienza ma anche a un obiettivo di equità. Se, infatti, la detassazione dei redditi più alti accresce il prodotto interno lordo, in quanto la “torta” aumenta, è possibile ridistribuirne parte a favore dei lavoratori meno produttivi e, per questo, maggiormente tassati. Si osservi che questa logica impone di considerare il raggiungimento di obiettivi di efficienza prioritario rispetto a obiettivi di equità. Questi ultimi, peraltro, potrebbero non essere mai raggiunti, giacché la scelta di operare politiche redistributive – in quanto scelta esclusivamente politica – risponde a un puro criterio “caritatevole”, che può farsi valere solo quando la “torta” ha raggiunto dimensioni sufficienti da poter consentire di darne briciole a chi non ha collaborato a produrla. E a decidere quando l’ampiezza della “torta” è sufficiente non sono certamente coloro che aspettano di ottenerne una parte.

E’ necessario chiarire che la ripartizione del carico fiscale risente significativamente del potere contrattuale che imprese e lavoratori hanno nella sfera politica. In un contesto di elevata disoccupazione e di crescente precarizzazione, appare del tutto evidente che non solo i lavoratori hanno un basso potere contrattuale nel mercato del lavoro (il che implica una dinamica al ribasso dei salari), ma hanno anche un basso potere di negoziazione in ordine alla distribuzione dell’onere fiscale. In più, soprattutto in condizioni nelle quali esiste un’ampia platea di imprese che è in condizione di delocalizzare le proprie produzioni, è del tutto ovvio che i maggiori oneri fiscali ricadano sul lavoro dipendente e siano poco gravosi per il capitale. E’ il c.d. sciopero del capitale: la minaccia di delocalizzazione spinge il Governo a creare un ambiente favorevole alla permanenza delle imprese nel Paese, dal momento che dai loro maggiori investimenti ci attende un aumento del reddito pro-capite e un aumento della probabilità di rielezione.

A ben vedere, la tesi dominante secondo la quale è la diseguaglianza distributiva a trainare la crescita è falsificata sia sul piano teorico, sia sul piano empirico.

1) Sul piano teorico, essa si fonda sull’idea in base alla quale è produttivo chi è ricco, rinviando a una logica per la quale chi è ricco oggi lo è perché ha lavorato in modo più produttivo rispetto a chi ha oggi un reddito più basso. Si può obiettare che non vi è alcun nesso necessario fra produttività e ricchezza, potendo, ad esempio, la ricchezza disponibile oggi dipendere da lasciti ereditari. Si può anche obiettare che il nesso che viene istituito (maggiore produttività = maggiori retribuzione) può, al più, ritenersi accettabile all’interno di un particolare framework teorico – di segno neoclassico – che, proprio in quanto è uno dei possibili orientamenti teorici in campo, non è generalizzabile, ed è peraltro molto problematico per la sostanziale impossibilità di fornire una misurazione della produttività del lavoro. La produttività del lavoro è data, per definizione, dal rapporto fra la quantità di beni e servizi prodotta e il numero di lavoratori occupati. L’impossibilità di misurazione discende da due dati di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma, essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori all’interno del processo produttivo. In secondo luogo, le economie contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile, se non quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini monetari. In terzo luogo, è praticamente impossibile ‘isolare’ il contributo del singolo lavoratore dalla dotazione di capitale della quale dispone, così che non è possibile imputare al singolo lavoratore il suo specifico contributo alla produzione. Da ciò discende che, per entrambi i casi, non è possibile fornire una misurazione fisica della sua produttività.

2) E’ ampiamente documentato che la crisi in corso dipende, in ultima analisi, proprio dalla crescente diseguaglianza distributiva su scala globale e che la recessione accresce la polarizzazione dei redditi, come evidenziato nell’ultimo Rapporto OCSE.

L’aumento della tassazione, in Italia, è stato realizzato prevalentemente con un aumento delle imposte indirette, che, in quanto pagate su beni e servizi, sono per loro natura regressive, ovvero vengono pagate in egual misura (a parità di quantità acquistate) da individui con alto e con basso reddito. Questa strategie è palesemente in conflitto con l’obiettivo dichiarato di generare crescita economica, per due ragioni. In primo luogo, la tassazione riduce la domanda interna e, per questa via, contribuisce ad accentuare la recessione. In secondo luogo, e soprattutto, poiché le famiglie con redditi bassi hanno maggiore propensione al consumo, l’aumento della tassazione a loro danno riduce i consumi più di quanto si ridurrebbero se venissero tassati i redditi elevati, con effetti di segno negativo sulla dinamica della domanda aggregata, sull’occupazione e sul tasso di crescita.

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 V. S.Bowles and H.Gintis, (1986). Democracy and capitalism. Property, community and the contradictions of modern social thought. New York: Routledge.

 Non è questa la sede per dar conto delle relazioni che intercorrono fra diseguaglianze distributive e crisi economiche. La letteratura sul tema è estremamente ampia. Può essere qui sufficiente il rinvio a http://temi.repubblica.it/micromega-online/micromega-32013-almanacco-di-economia-il-ritorno-delleguaglianza-il-sommario-del-nuovo-numero-in-edicola-e-su-ipad-da-giovedi-21-marzo/

 Nel quale si legge che, per effetto della crisi globale, “il 10% più ricco della popolazione, nei Paesi OCSE, guadagna 9.5 volte in più rispetto a quanto guadagnava il 10% più povero della popolazione nel 2010”.

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Il mercato del lavoro in Italia e la disoccupazione

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 dicembre 2013]

Il drammatico e inarrestabile aumento del tasso di disoccupazione in Italia – e in particolare della disoccupazione giovanile (che supera, in alcune regioni, il 50%) – è difficilmente spiegabile utilizzando le categorie proprie della teoria economica dominante. Categorie in base alle quali il tasso di disoccupazione può essere ridotto solo a condizione di rendere più “flessibile” il mercato del lavoro, ovvero solo a condizione di dare maggiore libertà alle imprese in ordine alle loro scelte di assunzione e licenziamento. Con ogni evidenza, a distanza di dieci anni dall’approvazione della c.d. legge Biagi, la questione non si pone affatto in questi termini. L’OCSE ha ripetutamente certificato che, fra i Paesi industrializzati, l’Italia è quello che offre meno tutele ai lavoratori, sia occupati sia disoccupati, e che quanto più si riducono le tutele dei lavoratori, tanto più si riducono i salari e tanto più si riduce il numero di occupati. L’effetto è ovviamente amplificato in fasi recessive, nelle quali, a seguito della caduta della domanda, le imprese sono incentivate a licenziare e, data la normativa vigente, non incontrano alcun limite normativo nel farlo.

Anche la tesi dominante secondo la quale la precarizzazione del lavoro accresce gli investimenti e genera attrazione di investimenti è clamorosamente smentita dai fatti. I provvedimenti di deregolamentazione del mercato del lavoro non hanno prodotto questi effetti: gli investimenti fissi lordi in Italia ha fatto registrare una dinamica di segno sempre negativo nel corso degli ultimi anni; l’Agenzia per l’attrazione degli investimenti (Invitalia) tra il 2008 e il 2011 ha registrato perdite da circa 3 a quasi 6 milioni di euro. Per contro, in un contesto di elevata disoccupazione, la precarizzazione del lavoro ha contribuito semmai a generare nuove ondate migratorie dall’Italia (e, ancor più, dal Mezzogiorno) ai Paesi centrali dello sviluppo capitalistico. Con l’esito di porre le condizioni per l’aumento degli investimenti nelle regioni che hanno attratto flussi migratori, in virtù del fatto le nuove migrazioni riguardano prevalentemente giovani con elevata scolarizzazione, dunque forza-lavoro molto produttiva, la cui migrazione si associa a un trasferimento di produttività dalle aree periferiche alle aree centrali.

E’, poi, difficile attendersi che un’economia popolata da imprese che somministrano prevalentemente contratti a tempo determinato, con retribuzioni ai limiti della sussistenza, possa percorrere un sentiero di crescita, per queste ragioni.

1) Le imprese che somministrano contratti precari lo fanno comprimendo nella massima misura i salari. Il che accade per l’ovvia ragione stando alla quale chi è costretto ad accettare un contratto precario non può che farlo in quanto ha un potere contrattuale notevolmente inferiore rispetto al datore di lavoro. E poiché il potere contrattuale dei lavoratori si riduce al crescere del tasso di disoccupazione, ne deriva che quanto maggiore è il tasso di disoccupazione tanto più le imprese possono ricorrere a contratti flessibili. La compressione delle retribuzioni, a sua volta, genera calo dei consumi, della domanda aggregata e dell’occupazione, indebolendo ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori e consentendo alle imprese di ridurre ulteriormente i salari. Si tratta di un circolo vizioso che, con ogni evidenza, non può fermarsi se non a condizione di rendere più rigido il mercato del lavoro.

2) La precarizzazione del lavoro, anche in quanto associata a bassi salari, è una delle cause della ripresa dei flussi migratori, ed è anche una delle cause dell’aumento della numerosità dei c.d. lavoratori scoraggiati, ovvero della platea di potenziali lavoratori che – dato il continuo peggioramento delle condizioni di lavoro, e dato il fatto che l’attività di ricerca di lavoro è costosa – hanno smesso di cercare lavoro. In tal senso, al crescere del grado di precarietà si riduce l’offerta di lavoro (soprattutto di lavoro altamente qualificato) e, a seguire, riducendosi l’offerta di lavoro si produce meno.

3) La precarizzazione del lavoro riduce la produttività. Ciò accade soprattutto in condizioni nelle quali – come tipicamente accade in fasi recessive – i lavoratori sanno che la probabilità di rinnovo del contratto è estremamente bassa. In queste condizioni, prevale un effetto di “scoraggiamento”: si lavora poco e male, dal momento che, se anche si lavorasse molto e bene, si sconterebbe comunque il mancato rinnovo del contratto. Questo effetto si amplifica in assetti organizzativi nei quali la produttività del lavoro dipende dalla cooperazione in team fra lavoratori. Infatti, la precarizzazione del lavoro produce concorrenza fra lavoratori e induce, semmai, a instaurare rapporti individuali cooperativi con chi gestisce l’impresa.

Posta la questione in questi termini, si deduce che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro amplificano la recessione, sia perché comprimono la domanda interna, sia perché riducono la dinamica della produttività del lavoro.

Sembra ormai che il Governo Letta abbia compreso che le politiche di austerità generano solo effetti negativi e che per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL occorre porre le condizioni per la ripresa della crescita. Mentre l’aumento della spesa pubblica (il principale strumento di cui si dispone per aumentare la domanda aggregata) è e resta un tabu, giacché si ritiene che produca aumenti del debito pubblico, non dovrebbe aver senso continuare a considerare un tabu l’adozione di provvedimenti che rendano meno flessibile il mercato del lavoro. Se non altro, perché si tratterebbe di provvedimenti a costo zero.

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