di Cosimo Scarcella
A Quintino Scozzi, appassionato ricercatore e studioso della storia di Melissano, la spinta decisiva ad affrettare i tempi e a intensificare gli sforzi nel portare a termine tanti dei suoi lavori fu data da un avvenimento tanto paradossale quanto grave, in quanto artefice ne era proprio la pubblica Amministrazione Comunale del momento [dei beni culturali difensore per suo compito naturale e protettore per suo dovere istituzionale], avallata dalla «massima indifferenzadella popolazione [ugualmente colpevole e complice, perché noncurante delle proprie memorie], presa da ben altri interessi e soprattutto ignara del valore storico e artistico dell’antico monumento»[1]. Infatti, intorno al 1950 Quintino Scozzi aveva dovuto assistere – ancor giovane e disarmato – all’abbattimento del trecentesco Castello appartenuto agli Amendolia e dopo qualche decennio a Orso Minutolo, per giungere nel 1723 nelle mani dei Conti Caracciolo. Pertanto, unica testimonianza superstite delle origini del trecentesco Casale di Melessano rimaneva la cinquecentesca chiesa parrocchiale dedicata al protettore Sant’Antonio da Padova. Questa in seguito alla permuta decisa dalla Curia Vescovile di Nardò, nel novembre 1978 era divenuta proprietà del Comune di Melissano, il quale subito ne decretava – tra l’assoluta indifferenza dei cittadini[2] – la demolizione, onde ricavare spazi per parcheggi. Quintino Scozzi, ormai uomo maturo e di un’apprezzabile cultura, si muove presso tutte le Autorità competenti, – Soprintendente alle Belle Arti di Bari, Vescovo di Nardò, Prefetto di Lecce, Sindaco, Parroco e Cittadinanza di Melissano – perché fosse evitato quell’oltraggio incivile e dissacratorio, e il 28 febbraio 1979 pubblica una Lettera Aperta, nella quale dichiara le motivazioni del suo gesto: «Mosso – scrive – da un sentimento fatto di rispetto, di pietà e di venerazione, chiesi e chiedo ancora oggi alle Autorità competenti che l’antica chiesa sia recuperata in tutta la sua interezza – in omaggio al passato al futuro, alla vita dell’arte – al culto dei fedeli così come i padri l’affidarono ai loro figli. […]. Si provveda, dunque, al restauro, col contributo di quanti hanno a cuore i monumenti onusti di antichità e palpitanti di vita secolare»[3]. I contenuti della lagnanza dettagliatamente documentata e l’afflato umano e religioso della perorazione conclusiva sono incontestabile documento di raro senso civico e di profondo religioso rispetto delle proprie radici morali ed etiche: «Quella chiesa – conclude lo Scozzi – che in passato generazioni di melessanesi per educarli al bene e avvertirli che tutto viene, tutto passa , tutto ritorna a Dio; quella chiesa accolse i vagiti dei neonati, le preghiere dei credenti, le speranze dei giovani, la letizia degli sposi, i lamenti dei sofferenti; quella chiesa, infine, in cui giacciono scheletri di lontani predecessori in un’atmosfera ovattata di arcano silenzio, possa riprendere il suo antico fulgore per continuare ad accogliere i figli dei figli in solenne, affettuoso, materno amplesso»[4]. L’antico monumento fu salvato e già da un quarto di secolo è divenuto la sede decorosa ed efficiente del Centro Culturale a lui intitolato, come è stato pubblicato su questo stesso Giornale[5]. Prima dell’inizio dei lavori per il restauro del monumento Scozzi non mancò di tracciarne la storia e di descriverne l’esistente, comprese le cinque splendide pale d’altare, di cui ora non è rimasta traccia[6].