Venendo più da vicino alle traduzioni di Vittorio Pagano, c’è da dire subito che la raccolta dei “poeti maledetti” (l’estensione del vulgato “maledettismo” a tutto l’arco delle presenze è da ritenersi dettata solo da ragioni esteriori, editoriali) è la storia di un tempo lungo vissuto dal poeta salentino con i poeti da lui amati o a lungo frequentati : un tempo che è di dialogo, di formazione, di confronto, di imitazione, di osmosi, talvolta, con la propria poesia. Il sottotitolo di “versioni metriche” è, a differenza del titolo, più rispondente alla natura del lavoro : solo un impegno strenuo, immagino in certi periodi quotidiano, testardamente appassionato, può assicurare una resa metrica, cioè un rispecchiamento sonoro e ritmico, in grado di accogliere i registri gridati o meditativi, visionari o esclamativi, dolci o aspri, e insomma liricamente intensivi, e variabilissimi, che le singole scritture poetiche hanno via via, e in stagioni diverse, messo in campo. Pagano sceglie, in generale, non solo per Nerval, ma anche per alcuni testi di Baudelaire e di Mallarmé, di non rendere se non raramente il verso alessandrino – classico verso della poesia francese – col doppio settenario italiano, il quale risulterebbe troppo simile al verso martelliano, e dunque percussivo e fortemente teatrale ed eloquente (e nella nostra educazione di ascolto poetico non c’è quello che invece hanno i Francesi, cioè l’abitudine al verso teatrale della Comédie, al verso di Racine e di Moliére). E invece costruisce di volta in volta un verso lungo con accento di quinta, e con regolare cesura, in cui sia il primo sia il secondo emistichio sono variabili per misura a seconda dei testi. È, questa, un’adesione alla ragione metrica dell’originale, e allo stesso tempo è una variazione che configura nel verso lungo la presenza di due versi della tradizione italiana, per esempio un quinario e un novenario, o un senario o settenario seguito, dopo la cesura, da un novenario, o altre, sempre regolari, combinazioni sonore. A questo esercizio si aggiunge la rima, che per la scelta metrica di Pagano è elemento essenziale di una corrispondenza, essendo infatti la traduzione poetica soprattutto una corrispondenza di forme sonore. Anche se questo, all’orecchio del lettore contemporaneo, abituato al verso libero novecentesco, può risultare desueto e ottocentesco : ma appunto quella patina d’epoca, quella velatura d’un tempo poetico lontano, vuole far sentire il traduttore.
Elegante è poi la soluzione, per alcuni testi di Verlaine (ma anche talvolta per Corbière), dell’endecasillabo, con risonanze pascoliane, per esempio, ne L’ora del pastore; mentre per la notissima Canzone d’autunno, la scelta va tutta in direzione della musicalità vocalica, cioè verso una corrispondenza che porta i suoni profondi francesi in un’onda per dir così più chiara, e affida alla rima il compito precipuo di reggere il gioco delle sonorità. Mi sembra poi riuscito l’incontro più aspro, che è quello con la scoscesa e irta e tuttavia ondosa e avvolgente sintassi poetica di Mallarmé, sia nel caso di alcuni sonetti sia per quanto riguarda il verso insieme narrativo e lirico, teatrale e pensoso dell’ Erodiade, testo sul quale si è misurato anche Mario Luzi (ricordo che qualche volta, nei lontani incontri con Luzi, che molto rimpiango, il discorso è caduto sulle traduzioni di Pagano).
Sempre a proposito di Mallarmé, forse il poeta francese più arduo per un traduttore, Pagano si misura anche con l’ Après midi d’un faune : pur tenendo la rima baciata, che trasforma il tessuto della poesia in una sorta di sequenza di distici poematici, egli riesce a conservare quella suprema esitazione del poeta tra parvenza aerea e forte percezione sensoriale, tra fluttuazione fantasmatica e forte desiderio corporeo.
Quanto a Baudelaire, la resa di Pagano è di frontale rispecchiamento rimico e ritmico. Conosco da vicino – per essermi a lungo misurato anch’io, e per tutti i Fiori del male – di quale natura e quante siano le difficoltà di una traduzione che affronti quella meravigliosa opera. Intorno alle versioni baudelairiane di Pagano ebbi occasione di scrivere alcune righe, diversi anni fa, sul “Pensionante dei Saraceni”, rispondendo a una richiesta di Antonio Verri, che mi giungeva proprio mentre ero già da qualche tempo impegnato nella traduzione del poeta francese, ma anche nella sua interpretazione. Riprendo qualcuna di quelle considerazioni, aggiungendo qualche altra piccola nota. Alcune scelte metriche di Pagano avvalorano una relazione tra la Commedia dantesca e i Fiori del male poco osservata dalla critica e sulla quale mi è accaduto di lavorare, soprattutto per quanto riguarda il tema dell’allegoria e dell’angelo : la scelta, ad esempio, di rendere le quartine di Don Juan aux enfers (Don Giovanni all’inferno) in terzine reinterzate, soluzione estesa al secondo dei poèmes dedicato a Femmes damnées (Donne dannate), dimostra una particolare attenzione a questa presenza dantesca nella poetica baudelairiana. Introducendo questa Antologia, Pagano, infatti, vede Baudelaire “tra un paradiso artificiale e un inferno vero”, e della sua poesia dice: “poesia come coscienza spaventosa ed esaltante dell’irrimediabile, come calvario da soffrirsi perché il male prorompa in fiori”. La traduzione fa sentire il passaggio del tumulto interiore nella forma : e si potrebbe dire che la poetica del tradurre per Pagano consiste nel dare un ritmo, una misura, una forma all’eccesso. Queste scelte metriche e insieme di poetica traduttoria, se così vogliamo dire, hanno sullo sfondo, naturalmente, una memoria letteraria, memoria che si affaccia nel cuore stesso del tradurre. Ecco, ad esempio, come nel rendere in endecasillabi il sonetto famoso La vita anteriore riaffiori, nell’ultimo verso della seconda quartina, una qualche ombra tassesca, ma accompagnata da modi propri di un certo ermetismo novecentesco : “coi franti nei miei occhi occidui smalti”.
Anche in altri casi Pagano contrae l’alessandrino nell’endecasillabo (per esempio in Reversibilità), riuscendo a conservare l’andamento in certo modo narrativo del testo francese. Altrove, come in Una carogna, alternando, come in un distico, un verso che, in doppio settenario, imita l’alessandrino, e un verso endecasillabo, riesce a dare al movimento affabulatorio un effetto di cantabilità frenata. L’andamento insieme elegiaco e spezzato, onirico ma anche cadenzato, del bellissimo poème L’invitation au voyage (L’invito al viaggio) è reso attraverso la prevalenza degli enjambements e mantenendo il verso breve e le alternanze ritmiche. Fedeltà metrica, tuttavia, che proprio a causa della misura breve rende difficile la resa di quell’incantato e vago e trasparente senso della lontananza e dell’altrove che è nell’originale. Lo stesso vincolo di fedeltà metrica attutisce e stempera il contrasto, nella poesia L’Irrimediabile, tra l’azzurro e la caduta. Mentre nel grande poème dedicato dal poeta al Viaggio il testo è raccolto e ospitato in una lingua che ne modula i ritmi narrativi e sembra riempire d’aria i diversi movimenti della rappresentazione.
Per Pagano il tradurre è, insieme, un forte gesto d’amore rivolto alla grande poesia e un assiduo e strenuo esercizio che, svolgendosi nello stesso laboratorio della propria poesia, si fa scommessa e ragione di vita, azzardo e passione.
[Prefazione a Vittorio Pagano, Antologia dei poeti maledetti, Besa Muci Editore, Nardò 2020]