Dialogando con Aldo Vallone 2. Giovanni Pascoli

di Augusto Benemeglio

Non solo lacrime

1. Lacrime ad usum infantis

Uno dice Pascoli e pensa alla cavallina storna, al grembiule nero e al colletto bianco, alla notte di san Lorenzo, col  tremolio di stelle, o di uno stelo sotto una farfalla, alle illusioni finite in fretta e al ronzio di un’ape attorno al fiore, ai campi che svaniscono nell’onda sonora delle campane, ai silenzi, ai pezzetti di nulla e allo stormire di cipressi, alle voci e ai canti assorbiti nella malinconia  del paesaggio, la piuma che esita o che palpita  leggera nel nido abbandonato,  il vento che piange nella campagna  solitaria,  alla panchetta e alla tessitrice che piange, ai versi come spartiti musicali e alle sere magiche e tenere, con i temporali che muoiono in dolce singulto, ai vespri odorosi di fieno; uno dice Pascoli e pensa a una serie di gadget dell’anima e della nostra lontana infanzia, tutte cose che saranno pure prodotte – come afferma Sanguineti – da una sorta di “macchinetta sadica di produzione liriche per lacrime ad usum infantis”, ma che tuttavia ti arrivano per le scorciatoie del cuore, come avviene per tutte le cose romantiche.

Uno dice Pascoli e rivede Aldo Vallone da Galatina, una sera d’estate di tanti anni fa sulla terrazza dell’Anmi di Gallipoli, con il clarinetto tutto mozartiano della nostalgia che suona in lontananza, chissà dove, dietro il mare. Rieccolo il grande critico letterario salentino che ora mi sorride di nuovo e mi dice con quella sua autorevolezza mite e bonaria: “Guardi che tutti i poeti italiani contemporanei, non solo i crepuscolari, devono qualcosa a Pascoli (Ungaretti, Betocchi ,Gatto, Saba e perfino Montale) per quel procedimento stilistico che si definisce nel caricare di un senso cosmico, di male cosmico, illuminante, un umile oggetto.  Pascoli non è un piagnone, come viene dipinto, è uno che sta sul limite di un dramma altissimo, n’è anzi la voce o la coscienza più proba e veritiera. Il suo – più che privato – è un dramma di civiltà e di cultura, tanto più sofferto e cupo quanto più ingenuo e intemperante si mostrò il poeta nell’assumerlo”.

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