Da un Governo tecnico ci si sarebbe aspettati soprattutto la riduzione dei costi della politica. Anche su questo fronte, al momento, si tace. Va rilevato, a riguardo, che l’indignazione che si è determinata nei confronti dei privilegi dei politici, e dei loro (a quanto pare) lauti stipendi è stata alimentata da una campagna mediatica che, molto spesso, ha taciuto due dati di fatto: la democrazia ha un costo, e la retribuzione dei parlamentari ha la sua ragion d’essere nel rendere accessibili quegli incarichi anche a individui provenienti da famiglie a basso reddito. Che la politica ha un costo, dunque, è un fatto ovvio. Che questo costo sia eccessivo è cosa da determinarsi, dal momento che per definire eccessivo un compenso occorre evidentemente far riferimento a qualche parametro.
Già il Governo Berlusconi aveva dato mandato alla commissione Giovannini di produrre un’indagine conoscitiva sullo stipendio dei parlamentari italiani, ritenendone equo il compenso se commisurato alla media europea. Come è noto, il mandato è stato riassegnato dal Governo Monti, al momento senza alcun esito che possa considerarsi convincente. Il problema risiede nel fatto che i parlamentari italiani, oltre a una remunerazione fissa, ricevono benefici che non sono comparabili, in termini qualitativi, con quelli dei loro colleghi europei. Sul piano giuridico, il problema ulteriore sembra risiedere nel fatto che sono soltanto le Camere (e non il Governo) a potersi pronunciare in via definitiva sulle remunerazioni di coloro che ne fanno parte, così che ci si trova nella condizione di lavoratori che, in larga misura, si autodeterminano lo stipendio.
Va chiarito che, sul piano strettamente economico, si tratta di un problema insolubile, anche laddove si intenda recepire la retorica meritocratica che è stata posta a fondamento delle politiche del lavoro degli ultimi anni, stando alla quale i salari, nella pubblica amministrazione in primo luogo, devono essere commisurati alla produttività. La produttività del lavoro è il rapporto fra ciò che viene prodotto e la quantità di lavoro che si è resa necessaria per produrlo. Non esiste alcun criterio scientifico per misurare un prodotto immateriale (come avviene per la produzione di servizi) e, dunque, non può esistere alcun criterio razionale per misurare la ‘produzione’ di un politico. Vale qui la tesi secondo la quale il modo migliore per non risolvere un problema è quello di creare una commissione. Va detto che per il Governo Monti si tratta di un doppio fallimento: l’aver perpetuato la prassi fallimentare del precedente Esecutivo e, al momento, non aver provveduto a tagliare costi della politica non direttamente imputabili allo stipendio dei Parlamentari. Se si era giunti alla conclusione pressoché unanimemente condivisa – fin dallo scorso anno – che lo Stato italiano può fare a meno delle Province, davvero non si capisce per quale ragione non si siano fatti passi avanti visibili e rilevanti in questa direzione.
Non occorreva scomodare alcuni fra i più accreditati economisti italiani per mettere a punto la quarta manovra restrittiva degli ultimi sei mesi, e per chiedere alle famiglie italiane con più basso reddito ulteriori sacrifici, senza predisporre misure di equità (o comunque posticipandole a una fase che probabilmente, con questo Governo, gli italiani non vedranno). E’ probabile che il Governo Berlusconi la avrebbe ritardata, ma è anche vero che il partito dell’ex Presidente del Consiglio la ha approvata in Parlamento. D’altra parte, nessun Governo – in democrazia, tecnico o meno che sia – può fare a meno di una maggioranza parlamentare. Non occorreva scomodare alcune delle migliori intelligenze italiane per mettere a punto le ‘raccomandazioni’ della BCE e, dunque, per precipitare l’Italia in una recessione ancora più profonda da quella nella quale sarebbe sprofondata in assenza di queste politiche. Più in generale, ad oggi, non si capisce quale sia la ‘mission’ del Governo Monti: cosa debba fare e perché.
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Più precarietà uguale più crisi
[in “Micromega” online del 16 gennaio 2012]
La drammatica crisi dell’eurozona è, in larghissima misura, una crisi indotta da politiche economiche del tutto irrazionali, fondate sulla convinzione che il perseguimento del rigore finanziario debba essere contestuale all’adozione di misure per accelerare la crescita economica. Con ogni evidenza, si tratta di un ossimoro: è davvero arduo, se non logicamente impossibile, immaginare che una ripresa significativa del tasso di crescita possa derivare da provvedimenti a costo zero. D’altra parte, l’evidenza conferma che le politiche recessive messe in atto non producono altri effetti se non l’aumento del rapporto debito pubblico/PIL, ovvero il risultato esattamente opposto rispetto a quello che ci si attende. Ciò a ragione del fatto che l’aumento della pressione fiscale (e la riduzione della spesa pubblica) riduce i consumi, la domanda e l’occupazione – così che riduce il PIL – e, al tempo stesso, riducendo l’occupazione, comprime la base imponibile, dunque il gettito fiscale, rendendo “necessarie” ulteriori misure restrittive per recuperare risorse per pagare gli interessi sui titoli del debito pubblico[1].
In questo scenario, e con riferimento al caso italiano, il dibattito ruota intorno alla necessità di mettere mano a un’ulteriore “riforma” del mercato del lavoro in nome della “modernizzazione” delle relazioni industriali con la clausola del no-tabu. Come ha chiarito il Presidente Monti, infatti, le riforme del mercato del lavoro devono essere fatte senza alcuna preclusione di sorta, assumendo che ogni diritto possa essere negoziabile.
E’ ampiamente dimostrato, sul piano teorico ed empirico, che le politiche di ‘flessibilità’ del lavoro non accrescono l’occupazione e tendono ad associarsi a una riduzione della quota dei salari sul PIL. Per dar conto della reiterazione di provvedimenti di precarizzazione del lavoro, quando questi si sono rivelati del tutto controproducenti per gli obiettivi che si dichiara di voler perseguire, e della loro accelerazione negli ultimi anni in Italia, si può partire dalla constatazione stando alla quale il principale problema strutturale dell’economia italiana consiste nella modesta crescita della produttività. L’OCSE registra che i differenziali di produttività fra l’Italia e gli altri principali Paesi membri sono aumentati nel corso dell’ultimo biennio, attestandosi al 25%. E’ opportuno considerare che la produttività cresce soprattutto a seguito dell’avanzamento tecnico. Ma, con ogni evidenza, non è questa la strada che si intende percorrere, se solo si considerano i rilevanti tagli alla ricerca scientifica messi in atto nell’ultimo triennio. Questi provvedimenti non fanno altro che accentuare la crisi, per le seguenti ragioni.
1) Per un dato assetto tecnico, la produttività del lavoro aumenta se la minaccia di licenziamento diventa più efficace e credibile. In tal senso, l’accelerazione delle politiche di precarizzazione del lavoro non serve ad accrescere l’occupazione, ma semmai ad accrescere l’intensità del lavoro, il che si rende possibile solo a condizione che esista un ampio bacino di disoccupati che renda efficace e credibile la minaccia di licenziamento (o di non rinnovo del contratto di lavoro). E, tuttavia, gli effetti della precarietà del contratto di lavoro sulla produttività sono ambigui. Sebbene, infatti, la maggiore credibilità del licenziamento derivante dalla somministrazione di contratti flessibili possa ‘disciplinare’ i lavoratori, accrescendone il rendimento, questo effetto può essere controbilanciato dalla minore motivazione che un lavoratore ha nel caso in cui percepisca come probabile il non rinnovo del contratto. Si tratta di eventualità frequenti in contesti di alta disoccupazione e di facile sostituibilità dei lavoratori (a sua volta riconducibile alla bassa dotazione di capitale umano richiesta), dal momento che – in queste condizioni – le imprese possono attingere a una platea ampia di disoccupati, disponibili ad accettare salari bassi e peggioramento delle condizioni di lavoro. In ogni caso, poiché la dinamica della produttività del lavoro dipende in massima misura dall’avanzamento tecnico, le politiche di precarizzazione del lavoro hanno l’ulteriore effetto negativo di comprimere il tasso di crescita.
E’ rilevante osservare che le politiche di precarizzazione esercitano effetti negativi anche sull’attività di ricerca del lavoro, sia perché contribuiscono a ridurre salari e occupazione, sia perché orientano la domanda di lavoro proveniente dalle imprese verso occupazioni di bassa qualità, proprio a ragione del fatto che disincentivano modalità di competizione basate sull’introduzione di innovazioni e, dunque, sul miglioramento della qualità della domanda di lavoro. La quota dei lavoratori ‘scoraggiati’ sul totale della forza-lavoro si assesta oggi, in Italia, al 3.5% ed è stata in costante aumento nel corso dell’ultimo decennio, e riguarda prevalentemente lavoratori nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni, soprattutto donne. Si tratta di individui che hanno smesso di cercare occupazione. Il fenomeno è imputabile a due circostanze: in primo luogo, alla bassa probabilità di trovare impiego (o un impiego coerente con le qualifiche acquisite), così che al crescere del tasso di disoccupazione aumenta la platea di lavoratori scoraggiati; in secondo luogo, è imputabile alla possibilità di garantirsi un reddito di sussistenza senza lavorare, possibilità che si determina nel caso in cui i consumi sono garantiti dai risparmi delle famiglie d’origine, o da redditi derivanti da occupazioni irregolari. Si tratta di un fenomeno preoccupante per due ordini di ragioni. In primo luogo, l’esistenza di un’ampia platea di lavoratori scoraggiati può segnalare il fatto che è ampia l’occupazione nell’economia sommersa, ovvero che chi smette di cercare lavoro nell’economia regolare lo fa perché ottiene reddito da attività illecite. Si può ritenere che si tratta, in questo caso, di individui con basso reddito e con basso livello di istruzione. In secondo luogo, i lavoratori scoraggiati traggono risorse per i propri consumi prevalentemente dai risparmi delle loro famiglie. Il che genera progressiva compressione dei risparmi e, nella misura in cui, l’accumulazione di risparmi è una precondizione per il finanziamento degli investimenti, ciò determina riduzione degli investimenti, della domanda aggregata e dell’occupazione. In più, poiché ad alta disoccupazione è associata bassa propensione a cercare occupazione, da ciò segue un ulteriore aumento della quota di lavoratori scoraggiati sul totale della forza-lavoro. Si può osservare che questa dinamica acuisce il problema dell’assenza di mobilità sociale in Italia, in quanto rende possibile l’inattività solo a giovani la cui sussistenza è garantita dalla ricchezza accumulata dalle famiglie d’origine. In tal senso, un elevato tasso di disoccupazione, associato a inattività volontaria, contribuisce a perpetuare le differenze di status, in un Paese – l’Italia – che, stando alle ultime rilevazioni OCSE, è, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il Paese con la minore mobilità sociale fra i Paesi principali industrializzati.
2) Le politiche di precarizzazione del lavoro, inoltre, incentivano le imprese a competere mediante compressione dei costi di produzione (salari e costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori in primis), disincentivando le innovazioni. Ciò a ragione del fatto che, potendo ridurre i prezzi mediante riduzioni del costo del lavoro, le imprese non hanno interesse a introdurre miglioramenti organizzativi e/o innovazioni di processo e di prodotto, soprattutto laddove l’introduzione di innovazioni richieda spese ingenti ed elevato indebitamento nei confronti del sistema bancario.
Si torna, così, al punto di partenza. La precarizzazione del lavoro, riducendo occupazione, salari e produttività, riduce il tasso di crescita e la base imponibile. Il che rende “necessarie” ulteriori manovre recessive, in una spirale viziosa che impoverisce soprattutto le famiglie con redditi più bassi, le aree periferiche e le piccole imprese, e che, soprattutto, diventa sempre più socialmente insostenibile.
[1] A ciò si aggiunge che l’impossibilità di riportare i ‘conti in ordine’ a colpi di maggiori tasse e minori spese spinge le agenzie di rating a declassare i Paesi considerati (sotto questo aspetto) poco ‘virtuosi’, con un curioso rimbalzo di responsabilità e delegittimazione, per il quale le agenzie emettono la loro valutazione per essere poi screditate dai Governi. Non da ultimo, a seguito del declassamento di nove Paesi europei il 13 gennaio scorso, il commissario Ue agli Affari economici e finanziari, Olli Rehn, ha espresso “rincrescimento per la decisione incoerente” presa da Standard and Poors, aggiungendo che il declassamento “questa volta non è casuale, in un momento in cui l’Eurozona sta intraprendendo azioni decisive su tutti i fronti della sua risposta alla crisi”. Tradotto: Standard and Poors non dà valutazioni obiettive, ma ci rema contro.
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Abbiamo bisogno di altra precarietà?
[“MicroMega” online del 9 febbraio 2012]
Stando alle ultime rilevazioni Eurostat, l’Italia è il primo fra i Paesi europei per numerosità di lavoratori scoraggiati, ovvero di individui che hanno smesso di cercare occupazione: circa il 3.5% della forza-lavoro si trova in questa condizione e, nella gran parte dei casi, di tratta di individui nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Il fenomeno è imputabile a due circostanze: in primo luogo, alla bassa probabilità di trovare impiego (o un impiego coerente con le qualifiche acquisite), così che al crescere del tasso di disoccupazione aumenta la platea di lavoratori scoraggiati; in secondo luogo, è imputabile alla possibilità di garantirsi un reddito di sussistenza senza lavorare, possibilità che si determina nel caso in cui i consumi sono garantiti dai risparmi delle famiglie d’origine, o da redditi derivanti da occupazioni irregolari. Si tratta di un fenomeno preoccupante per due ordini di ragioni.
1) L’esistenza di un’ampia platea di lavoratori scoraggiati può segnalare il fatto che è ampia l’occupazione nell’economia sommersa, ovvero che chi smette di cercare lavoro nell’economia regolare lo fa perché ottiene reddito da attività illecite. Si può ritenere che si tratta, in questo caso, di individui con basso reddito e con basso livello di istruzione.
2) I lavoratori scoraggiati traggono risorse per i propri consumi prevalentemente dai risparmi delle loro famiglie. Il che genera progressiva compressione dei risparmi e, nella misura in cui, l’accumulazione di risparmi è una precondizione per il finanziamento degli investimenti, ciò determina riduzione degli investimenti, della domanda aggregata e dell’occupazione. In più, poiché ad alta disoccupazione è associata bassa propensione a cercare occupazione, da ciò segue un ulteriore aumento della quota di lavoratori scoraggiati sul totale della forza-lavoro. Si può osservare che questa dinamica acuisce il problema dell’assenza di mobilità sociale in Italia, in quanto rende possibile l’inattività a giovani la cui sussistenza è garantita dalla ricchezza accumulata dalle famiglie d’origine o a lavoratori reclutati nell’economia sommersa. In tal senso, un elevato tasso di disoccupazione, associato a inattività volontaria, contribuisce a perpetuare le differenze di status, in un Paese – l’Italia – che, stando alle ultime rilevazioni OCSE, è, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il Paese con la minore mobilità sociale fra i Paesi principali industrializzati.
A ciò si può aggiungere che la ricerca del lavoro si intensifica se è elevata la probabilità di ottenere un impiego coerente con le competenze acquisite e, dunque, considerato soddisfacente.
A fronte di questo scenario, il Governo sta lavorando per l’ennesima “riforma” del mercato del lavoro, in nome della “modernizzazione” delle relazioni industriali con la clausola del no-tabu. Come ha chiarito il Presidente Monti, infatti, le riforme del mercato del lavoro devono essere fatte senza alcuna preclusione di sorta, assumendo che ogni diritto possa essere negoziabile.
In merito a quanto il Governo si appresta a fare, la sola certezza della quale al momento si dispone è che si muoverà in tempi rapidi seguendo le ‘raccomandazioni’ della BCE. La maggiore “flessibilità” alla quale si fa riferimento passa innanzitutto attraverso l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La ratio che è a fondamento di questa proposta risiede nell’idea stando alla quale è solo sapendo di poter facilmente licenziare le imprese assumono. A ciò si aggiunge che, in una fase recessiva, si rende ancora più rilevante questo intervento per scongiurare il rischio di fallimento di imprese, a ragione dei vincoli che la legislazione vigente pone alla libertà di licenziamento.
Fin dal 2008, l’OCSE ha certificato che le politiche di precarizzazione del lavoro riducono la quota dei salari sul PIL, e che, nella gran parte dei Paesi industrializzati, non hanno determinato incrementi dell’occupazione. Le politiche di precarizzazione del lavoro, inoltre, incentivano le imprese a competere mediante compressione dei costi di produzione (salari e costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori in primis), disincentivando le innovazioni. Ciò a ragione del fatto che, potendo ridurre i prezzi mediante riduzioni del costo del lavoro, le imprese non hanno interesse a introdurre miglioramenti organizzativi e/o innovazioni di processo e di prodotto, soprattutto laddove l’introduzione di innovazioni richieda spese ingenti ed elevato indebitamento nei confronti del sistema bancario.
A ciò si può aggiungere che sebbene la maggiore credibilità del licenziamento derivante dalla somministrazione di contratti flessibili possa ‘disciplinare’ i lavoratori, accrescendone il rendimento, questo effetto può essere controbilanciato dalla minore motivazione che un lavoratore ha nel caso in cui percepisca come probabile il non rinnovo del contratto. Si tratta di eventualità frequenti in contesti di alta disoccupazione e di facile sostituibilità dei lavoratori. Quest’ultima imputabile al fatto che le nostre imprese, nella gran parte dei casi, non esprimono domanda di lavoro qualificato e, dunque, possono attingere a una platea ampia di disoccupati, disponibili ad accettare salari bassi e peggioramento delle condizioni di lavoro.
E’ rilevante osservare che le politiche di precarizzazione esercitano effetti negativi anche sull’attività di ricerca del lavoro, sia perché contribuiscono a ridurre salari e occupazione, sia perché orientano la domanda di lavoro verso occupazioni di bassa qualità, proprio a ragione del fatto che scoraggiano modalità di competizione basate sull’introduzione di innovazioni e, dunque, sul miglioramento della qualità della domanda di lavoro. In tal senso, ulteriori accelerazioni delle politiche di precarizzazione del lavoro sono inutili e, sotto molti aspetti, controproducenti. Sono inutili dal momento che la precarizzazione del lavoro non accresce l’occupazione e, riducendo i salari, comprimono i consumi e la domanda interna, riducendo i mercati di sbocco – e dunque i profitti – per le (tante) imprese italiane che non operano sui mercati internazionali. Sono controproducenti poiché – rendendo le condizioni di impiego poco gratificanti – incentivano gli inoccupati a star fermi nella loro condizione di ‘scoraggiati’ (o di lavoratori a nero). In più, poiché la dinamica della produttività del lavoro dipende in massima misura dall’avanzamento tecnico, le politiche di precarizzazione del lavoro – disincentivandolo – hanno l’ulteriore effetto negativo di comprimere il tasso di crescita.
P.S. L’infelice dichiarazione del Presidente Monti, sulla “monotonia” del posto fisso, si inquadra nella fase 2 dell’agire comunicativo di questo Esecutivo: anche i tecnici parlano. E, presa quella dichiarazione alla lettera, parlano con poca cognizione di causa (se non provocatoriamente). Innanzitutto la monotonia non è una categoria economica, il prof. Monti è un economista, è un liberale, e, per un liberale, la non-monotonia non può essere imposta ope legis. In secondo luogo, e soprattutto, chi percepisce il proprio impiego (a tempo indeterminato) monotono, può licenziarsi e cercarne un altro per lui più gratificante. Dopo tutto, per un liberale il fatto che ognuno sia il miglior giudice di sé stesso è un’acquisizione non discutibile.
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La posta in palio sul rimborso dei debiti statali
[ “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 26 febbraio 2012]
Il 2012 viene considerato da molti economisti l’”anno Maya della finanza internazionale”. E’ una definizione volutamente apocalittica che trova la sua ragion d’essere nel fatto che, quest’anno, arriveranno in pagamento simultaneo 11.550 miliardi di euro di titoli pubblici, obbligazioni private e junk bonds, di cui il 70% di origine americana e giapponese. Si tratta di importi di misura tale da configurare il caso della maggiore scadenza debitoria, su scala globale, della storia del capitalismo. E, non a caso, ai creditori dei Governi è stata offerta la possibilità di assicurarsi presso istituzioni finanziarie (fra questi: l’AIG americana, i Lloyds di Londra e Goldman Sachs), così che pagando un premio si garantisca loro, in caso di insolvenza, il risarcimento da parte degli assicuratori.
La domanda che ci si pone è: come verranno rimborsati i debiti?
In prima approssimazione, si può rispondere affermando che, di norma, i debiti si onorano attingendo ai risparmi accumulati. E’ una risposta di prima approssimazione, dal momento che ciò può essere vero per una famiglia, ma non è necessariamente la sola strada percorribile per uno Stato. Le politiche di austerità messe in atto nell’ultimo biennio particolarmente in Europa sono appunto finalizzate, attraverso riduzioni della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale, ad accumulare avanzi primari (ovvero risparmi del settore pubblico) tali da poter consentire ai singoli Stati di rimborsare i debiti alla loro naturale scadenza. La controindicazione associata a queste politiche è ben nota: la riduzione della spesa pubblica riduce l’occupazione e il PIL, riduce altresì la base imponibile, determinando un aumento del rapporto debito pubblico/PIL e generando una spirale deflazionistica che produce impoverimento delle famiglie, in particolare di quelle con redditi più bassi, e delle imprese di più piccole dimensioni, a ragione della restrizione dei mercati di sbocco. Un effetto collaterale rilevante, e spesso trascurato, riguarda il fatto che la contestuale crescita della sfera finanziaria e la contrazione della produzione nel “settore reale” incentivano l’allocazione di capitale umano nell’ambito della prima, con effetti ulteriormente destabilizzanti derivanti dalla speculazione.
Va chiarito che non è, questa, la sola strada percorribile. La restituzione del debito può essere garantita dalla Banca Centrale, in una condizione per la quale – mentre gli avanzi primari possono generarsi solo a condizione di produrre recessione, e comunque nulla garantisce che siano di ammontare tale da consentire l’intera restituzione del debito – essa è nelle condizioni di poter produrre moneta potenzialmente ad infinitum. La questione può essere chiarita nei seguenti termini. Su un piano puramente tecnico, il sistema bancario nel suo complesso può offrire moneta senza una preventiva raccolta di depositi. Ciò a ragione del fatto che la produzione di moneta è, in ultima analisi, produzione di fiducia, dal momento che la moneta effettivamente circolante è tale solo perché gli agenti economici sanno che, con quella moneta, potranno effettuare pagamenti in quanto verrà accettata. In tal senso, il costo di produzione di un’unità monetaria è pari a zero, e qualunque risorsa i cui costi di produzione sono nulli è producibile senza limiti. Per quanto più direttamente ci riguarda, la via d’uscita dalla crisi del debito italiano (ed europeo) verrebbe trovata, in questa prospettiva, nell’acquisto – da parte della BCE – di tutti i titoli in scadenza, e dall’annuncio che, nelle aste future, si comporterà nel medesimo modo. Se, come da più parti rilevato, ci si trova in una condizione molto simile a una guerra senza spargimento di sangue, può valere la metafora stando alla quale, mentre il “nemico” dispone di un numero limitato di armamenti, noi ne abbiamo in quantità potenzialmente infinita. Tradotto: mentre la BCE può stampare moneta senza limiti, gli speculatori dispongono di quantità di moneta non infinite, giacché non possono crearle ex-nihilo.
Cosa impedisce di seguire questa strada? E’ ormai chiaro che la soluzione della crisi europea è nelle mani della Cancelliera Merkel, tenace difensore dell’ortodossia monetarista, stando alla quale la BCE non può intervenire acquistando titoli. Va detto che, per Statuto, non può farlo, se non nei c.d. mercati secondari. Ma va anche detto che esiste un’eccezione tedesca: si calcola che, nelle ultime aste per il collocamento dei bund, circa il 40% dei titoli emessi è stato trattenuto per essere successivamente venduto sul mercato secondario: operazione resa possibile solamente mediante l’intervento della Bundesbank, che avrebbe sottoscritto una parte delle nuove emissioni. In altri termini, la Germania già sta operando in deroga ai Trattati che governano l’eurozona probabilmente preparando il passaggio al doppio euro (euro-nord, euro-sud).
La resistenza tedesca può trovare tre ordini di motivazioni.
1) La prima è di natura propriamente ideologica e rinvia a motivazioni storiche. L’emissione di moneta, da parte della BCE, costituirebbe, per il Governo tedesco, la pre-condizione per l’aumento del tasso di inflazione interno. In un Paese che ha sperimentato l’iperinflazione, dopo il primo conflitto mondiale, questa motivazione appare comprensibile, sebbene non razionale nell’attuale contesto macroeconomico. I timidi segnali di aumento dei prezzi, soprattutto in Italia, derivano semmai proprio dalle politiche di austerità, trattandosi di inflazione imputabile essenzialmente a un aumento delle imposte indirette.
2) La seconda motivazione attiene a considerazioni di natura strettamente politica. La Cancelliera Merkel, nel caso in cui si segua la strada dell’acquisto di titoli da parte della BCE, si troverebbe a dover spiegare agli elettori che i Paesi periferici dell’eurozona sono stati ‘salvati’ dai contribuenti tedeschi. Il che, comprensibilmente, non è uno scenario desiderabile per l’acquisizione di consenso, sebbene l’intervento della BCE può essere realizzato anche senza alcun aumento della pressione fiscale in Germania.
3) La terza motivazione attiene alla salvaguardia degli interessi del capitale tedesco. In quanto le politiche di austerità riducono la domanda interna dei Paesi periferici del continente, riducendo i mercati di sbocco e i profitti delle imprese lì collocate, l’austerità apre la strada a uno ‘shopping’ di capitale privato da parte delle imprese tedesche. A ciò si aggiunge che, ponendo come vincolo la necessità di ripagare il debito attingendo a risorse interne, le politiche di austerità aprono lo strada anche alla vendita del patrimonio pubblico nelle aree periferiche dell’eurozona. E, dovendo ripagare i debiti nel più breve tempo possibile, occorre vendere quanto prima, ponendo i Paesi deboli nella condizione di agire come contraenti deboli e dunque, in ultima analisi, obbligandoli a svendere ciò che di proprietà pubblica a loro ancora resta.
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Il Governo Monti, le banche e la libertà d’impresa
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 marzo 2012]
A seguito della crisi del 2007-2008, si è generato un diffuso consenso sul fatto che – attribuendo la crisi esclusivamente all’eccessiva deregolamentazione dei mercati finanziari e del sistema bancario – sarebbe stata necessaria una maggiore regolamentazione degli stessi. Gli accordi internazionali del biennio 2009-2010 sono andati esattamente in questa direzione e, per quanto attiene al caso italiano e nei tempi più recenti, il Governo Monti intende muoversi lungo questa linea. Il più recente provvedimento in materia – inserito nel decreto sulle liberalizzazioni – azzera le commissioni sugli affidamenti bancari. Come è noto, il provvedimento ha dato luogo alle dimissioni dell’intero comitato di Presidenza dell’Associazione Bancaria Italiana, che le ha motivate facendo rilevare che questa disposizione limiterebbe la libertà d’impresa, ridurrebbe gli utili e avrebbe ricadute negative sull’occupazione nel settore bancario.
E’ opportuno preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco: è ben difficile ritenere questo provvedimento un provvedimento di liberalizzazione, dal momento che – di fatto – si muove semmai nella direzione (contraria) della regolamentazione dei prezzi e delle tariffe, introducendo nuovi vincoli per gli Istituti di credito. Per molti aspetti, si tratta di un’inattesa svolta ‘dirigistica’ nella gestione della politica economica di questo Esecutivo, e non sono ben chiari gli effetti che ci si attende da queste misure. In ogni caso, si possono prefigurare due scenari.
1) Il costo del credito potrebbe aumentare o potrebbero ridursi gli impieghi. Ciò a ragione del fatto che le banche possono reagire alla riduzione degli introiti derivanti dal taglio delle commissioni aumentando le tariffe per altri servizi. Oppure, nel caso in cui ciò non si renda conveniente, potrebbero reagire aumentando i tassi di interesse sui finanziamenti a imprese e famiglie.
2) Il costo del credito potrebbe ridursi, ma senza effetti significativi sulla crescita. Infatti, mentre, in linea generale, ci si può attendere che la riduzione del costo del credito incentivi gli investimenti, occorre precisare che questo effetto può generarsi solo a condizione che le aspettative imprenditoriali siano ottimistiche e che, dunque, gli imprenditori siano intenzionati a investire. Ciò, a sua volta, può accadere solo se le imprese si aspettano un aumento della domanda per i beni e servizi che producono. Come scriveva Keynes, “si può portare un cavallo alla fonte, ma non lo si può obbligare a bere”, rilevando il fatto che, in assenza di volontà di investire, la riduzione del costo del credito può rivelarsi sostanzialmente inutile.
Anche su questo fronte, la linea di politica economica perseguita da questo Governo non agisce sulle cause strutturali della crisi e, per questa ragione, anche questo provvedimento rischia di essere del tutto inefficace per gli obiettivi che si propone. E’ ben noto, e su questo vi è accordo pressoché unanime, cheil problema dell’economia italiana consiste nel suo basso tasso di crescita, stimato allo 0% nel 2011 e con valore presumibilmente negativo nel 2012. La recessione è imputabile alla caduta della domanda aggregata, e dunque dei consumi e degli investimenti, a sua volta in larga misura indotta dalle politiche di austerità messe in atto nell’ultimo triennio, con continua riduzione della spesa pubblica, aumenti dell’imposizione fiscale, crescente precarizzazione del lavoro. L’OCSE registra che i salari reali in Italia – con un valore medio di circa 20.000 dollari annui – sono nettamente più bassi della media dei Paesi industrializzati. Su trenta Paesi presi in considerazione, l’Italia si colloca al 23esimo posto, nettamente al di sotto della media OCSE (circa 25.000 dollari), della UE a 15 (quasi 27.000 dollari) e della UE a 19 (circa 24.000 dollari).
In questo scenario, è del tutto evidente che le imprese non hanno alcun incentivo a investire, dal momento che – in un contesto di contrazione dei salari e di conseguente calo dei consumi – non troverebbero adeguati mercati di sbocco. Il che riguarderebbe soprattutto le (molte) imprese italiane che operano esclusivamente sul mercato interno. Dunque, anche nella condizione più favorevole (le misure adottate riducono il costo del credito), non vi è da attendersi una ripresa della crescita economica trainata dall’aumento degli investimenti. Ovviamente ciò non potrebbe accadere, a maggior ragione, nel caso in cui le misure adottate producano restrizione del credito. Si è, dunque, di fronte a una misura la cui ratio è davvero difficile da individuare. Ciò anche in considerazione del fatto che una recente analisi condotta da Standard and Poors, resa pubblica a seguito a seguito della diffusione delle conclusioni degli “stress test” realizzati dall’Autorità europea delle banche per provare la solidità patrimoniale degli istituti di credito, ha evidenziato che le prospettive dei dividendi 2012 dei cinque maggiori istituti di credito italiani presenti nel listino di Milano e sottoposte agli “stress test”, sono al ribasso. La domanda che occorre porsi è: a chi giova l’adozione di misure che penalizzano il sistema bancario, in una fase recessiva (dove occorrerebbe semmai stimolare l’erogazione di credito) e in una fase nella quale gli utili delle banche sono in riduzione? Alcuni autorevoli commentatori hanno fatto osservare che si tratterebbe esclusivamente di un attacco “populistico” al sistema bancario, sollecitato da alcune componenti della maggioranza che sorregge questo Governo. Occorre considerare che il Governo ha annunciato che non si opporrà a eventuali modifiche della norma, adducendo come motivazione il rispetto della sovranità del Parlamento. E’ dunque probabile che la norma verrà modificata, con un duplice vantaggio tutto politico per il Presidente Monti: aver dimostrato di aver provato a distribuire più equamente i sacrifici – chiedendoli anche alle banche – e, al tempo stesso, aver dimostrato che questo Governo non è “l’Esecutivo dei banchieri”. Adducendo infine la responsabilità della mancata approvazione della norma alla Politica. Se ciò fosse vero, resta da chiedersi cosa c’è di tecnico nell’operazione che si sta compiendo.
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Il “paradosso italiano”
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 17 marzo 2012]
Il CNRS francese lo definisce il “paradosso italiano”. Riguarda il fatto che, a fronte degli scarsissimi finanziamenti pubblici e privati alla ricerca scientifica, il numero (e la qualità) delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori italiani è significativamente alto. Si calcola che – nel periodo compreso fra il 2004 e il 2006 – il finanziamento pubblico alle Università italiane è stato circa pari all’1.13% del PIL, contro l’1.84% della media europea e che il finanziamento da parte di imprese private è stato pressoché irrilevante. In Italia, sono occupati nel settore della ricerca poco più di 3 lavoratori su mille occupati; in Francia lavorano 8 ricercatori su mille occupati. Fra il 1998 e il 2008, i ricercatori italiani, nel loro complesso, hanno prodotto quasi 380mila pubblicazioni, ponendo il nostro sistema della ricerca all’ottava posizione nel mondo e alla quarta posizione in Europa. I ricercatori italiani più produttivi sono collocati nelle aree delle scienze mediche, matematiche e fisiche, e, in questi settori, nel periodo considerato, le pubblicazioni italiane sono state fra quelle maggiormente citate su scala internazionale. E’ sufficiente questo dato per privare di fondamento la campagna mediatica di delegittimazione dell’Università pubblica italiana che ha preceduto e seguito la c.d. riforma Gelmini, finalizzata a restituire l’immagine di un sistema formativo e della ricerca “malato”: luogo di nepotismo, baronie, privilegi e scarsa produttività.
Un’operazione, questa, funzionale a legittimare una decurtazione del fondo di finanziamento ordinario che dai 702 milioni di euro nel 2010 ha raggiunto, nel 2011, gli 835 milioni, come prescritto nel decreto-legge sul “diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”. E, pure a fronte dell’ulteriore riduzione di fondi, la produttività dei ricercatori italiani non si è ridotta. A ciò si può aggiungere che l’obiettivo della “riforma” di valorizzare il merito, sulla base dei meccanismi di selezione operanti nel mondo anglosassone è un obiettivo molto discutibile. Anche a prescindere dal fatto che le Università americane ottengono finanziamenti pubblici e privati mediamente superiori di circa il 20% a quelli assegnati alle strutture di ricerca italiane, va rilevato – su fonte R.O.A.R.S. – che, nel complesso, la produttività media dei ricercatori americani non è molto maggiore di quella degli italiani. In più – cosa di non poco conto – il sistema formativo statunitense non favorisce (semmai blocca) la mobilità sociale. Su questo aspetto, Italia e USA hanno caratteristiche comuni, essendo il grado di mobilità sociale sostanzialmente identico nei due Paesi.
Viene fatto osservare che il paradosso è, almeno in parte, di agevole spiegazione. Prescindendo dalla numerosità di pubblicazioni, si rileva che i top scientists italiani lavorano prevalentemente all’estero e l’elevata qualità della ricerca è in larga misura imputabile al loro impegno, e si sottolinea il fatto che l’Italia non attrae ricercatori. Il problema della “fuga dei cervelli” è un problema rilevante e non recente, ed è, di norma, motivato in considerazione dell’assenza di meccanismi di incentivazione a beneficio dei più meritevoli e delle pratiche “nepotistiche” e “baronali” vigenti nei nostri Atenei.
Va rilevato che la riforma non agisce né sulle pratiche baronali né sulla fuga (e il rientro) di cervelli, potendo semmai accentuare i problemi. Ciò per le seguenti ragioni.
a) La L.240/2010 istituisce la figura del ricercatore a tempo determinato (RTD). Il RTD è reclutato con concorso locale, bandito in regime di autonomia dalle singole sedi. E’ impegnato su un progetto di ricerca del suo supervisore (professore ordinario o associato). La probabilità del rinnovo del contratto è strettamente dipendente dal rispetto delle clausole ‘implicite’ dettate dal professore che ha bandito il posto, e che ne segue l’attività di ricerca. E’ cioè palese che la sua carriera dipende interamente dal rapporto (inevitabilmente) di subordinazione che instaura con il suo ‘datore di lavoro’, ovvero con il “barone” di riferimento. Per onestà intellettuale, chi sostiene questa ‘riforma’ dovrebbe ammettere che, almeno per quanto riguarda questa disposizione, la L. 240/2010 non fa guerra al baronaggio: lo rende semmai ancora più facilmente praticabile.
b) L’obiettivo reale della “riforma” – neppure troppo nascosto – consiste nell’imporre al sistema formativo e della ricerca italiana una (sana?) cura dimagrante. La L.240/2010 è fondata sull’ossessivo richiamo al fatto che la sua attuazione deve avvenire “senza ulteriori aggravi per la finanza pubblica”. A ciò si aggiunge il blocco del reclutamento (diretta conseguenza del taglio dei finanziamenti) e, a latere, il blocco degli stipendi dei dipendenti delle Università fino al 2013. La domanda che occorre porsi è la seguente: in una condizione nella quale, nella migliore delle ipotesi, un giovane italiano possa essere reclutato con contratto a tempo determinato, con stipendio ai minimi livelli, con pochissimi fondi per la ricerca, in sostanziale assenza di libertà di ricerca, è per lui razionale intraprendere la carriera universitaria in Italia? E, per converso, è appetibile un simile percorso per giovani ricercatori non italiani? Non dovrebbero esserci dubbi in merito al fatto che si tratta di una condizione peggiore rispetto alle condizioni di impiego pre-“riforma” (contratti a tempo indeterminato, maggiori fondi per la ricerca, stipendi più elevati). E, dunque, non dovrebbero esserci dubbi in merito al fatto che questa disposizione non può che accentuare la “fuga di cervelli” e ridurre la capacità di attrazione di ricercatori dall’estero.
Non a caso, come registrato dall’ISTAT, il fenomeno è già in
allarmante aumento. Nell’ultimo biennio, su 18mila dottori di ricerca italiani,
poco meno di 1.300 (il 7%) sono emigrati all’estero, con maggiore incidenza di
giovani prima residenti al Nord.
Interessante rilevare che l’incidenza della mobilità verso altri Paesi cresce
all’aumentare del livello d’istruzione dei genitori, stabilendo, così, che la
mobilità sociale in Italia è ai livelli minimi. In più, la “fuga di cervelli”
non riguarda solo Paesi esteri: frequente è anche lo spostamento dalle regioni
meridionali a quelle del Nord, con saldo negativo di circa il 20%. Del tutto
marginale è l’”importazione” di ricercatori nel periodo considerato.
Se le politiche formative sono funzionali agli interessi del mondo imprenditoriale (come attesta il plauso che Confindustria ha sempre accordato al Ministro Gelmini), questi risultati non destano sorpresa. Il taglio dei finanziamenti si spiega agevolmente con il fatto che il nostro sistema produttivo, fatto in larga misura da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, scarsamente internazionalizzate, non ha bisogno né di lavoro altamente qualificato, né di innovazioni. In tal senso, la formazione e la ricerca sono un puro costo. Ciò è tanto più vero nel Mezzogiorno, data la fragilità del suo sistema produttivo. In più, le Università meridionali sono penalizzate nella distribuzione dei fondi pubblici, a seguito della disposizione che li riduce (per tutti) ma li riduce in modo ‘lineare’, non tenendo conto delle c.d. variabili di contesto (tasso di disoccupazione, PIL pro-capite). A ciò si aggiunge che le Università meridionali, dato il contesto nel quale operano, ben difficilmente possono ottenere fondi da imprese private, e molto difficilmente possono ulteriormente accrescere le contribuzioni studentesche. Con ogni evidenza, una sede universitaria non ha gli strumenti per incidere né sul tasso di disoccupazione né sul PIL pro-capite del territorio nel quale è collocata. Dunque, non è suo ‘demerito’ essere localizzata in una regione periferica. Da cui: se, come ossessivamente ripetuto, la “riforma” è finalizzata a introdurre criteri meritocratici, non è chiara la logica per la quale le Università del Sud sono penalizzate indipendentemente dal ‘merito’ di chi lì lavora.
A ben vedere, le politiche formative impostate secondo una logica “di mercato” inevitabilmente accentuano le divergenze regionali (in Italia, e fra l’Italia e i Paesi centrali dello sviluppo capitalistico), generando trasferimenti di produttività nelle aree più ricche (e conseguente impoverimento delle aree più povere) e prefigurando uno scenario – peraltro già sotto i nostri occhi – di un Paese a doppia velocità con Università a doppia velocità.
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Lavorare di più? No, l’obiettivo è creare più lavoro
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 marzo 2012]
Il Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha esortato il Governo a prendere provvedimenti per “far lavorare di più”. E il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha aggiunto che ciò si rende necessario perché l’Italia “è un Paese anziano”. Anche ammettendo (cosa alquanto discutibile) che la ripresa della crescita economica passi per un aumento delle ore lavorate, va ricordato che il decreto battezzato “Salva Italia” contiene una “riforma” del sistema pensionistico che già va in questa direzione, ed è difficile pensare che Draghi e Visco ritengano che sia troppo poco. Occorre ricordare che, per impulso del Ministro Fornero, dal primo gennaio 2012 l’età pensionabile è già salita a 62 anni e sarà ulteriormente elevata a 63 anni e 6 mesi nel 2014, a 65 anni nel 2016 e a 66 a partire dal 2018. Il che, in sostanza, significa che, a partire dall’anno prossimo anno nel quale si cominceranno ad elevare tutti i parametri anagrafici sulla base della speranza di vita, il minimo di contributi richiesto per il pensionamento anticipato sarà di 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne. Due considerazioni si rendono necessarie a riguardo. In primo luogo, in una condizione di elevata disoccupazione giovanile, questo dispositivo implica che molti giovani oggi probabilmente non riusciranno a ottenere la pensione, o comunque riceveranno importi di entità minima. In secondo luogo, la “riforma” Fornero agisce in un’ottica di lungo periodo e, dunque, non può costituire un meccanismo che agisce, nell’immediato, sull’incremento della produzione.
Ovviamente il modo di far lavorare di più consiste nel ridurre il tasso di disoccupazione, ma non sembra che i recenti provvedimenti del Governo (inclusi quelli contenuti nel decreto “Cresci Italia”) siano adeguati per questo obiettivo. Anzi, sotto molti aspetti, si tratta di provvedimenti destinati ad accrescere ulteriormente il tasso di disoccupazione. Ciò a ragione del fatto che la disoccupazione di massa (e soprattutto giovanile) in Italia, così come nel resto d’Europa, dipende da bassa domanda aggregata e, posta la questione in questi termini, per accrescere l’occupazione occorrerebbero misure che facciano crescere in primo luogo consumi e investimenti. L’aumento della pressione fiscale, sia diretta che indiretta, agisce in direzione contraria, sia perché riduce il reddito disponibile e dunque i consumi, sia perché (soprattutto mediante l’aumento della tassazione indiretta) comprime le retribuzioni in termini reali. Le pressioni inflazionistiche che l’economia italiana sta registrando da qualche mese dipendono essenzialmente dall’incremento della pressione fiscale, configurando uno scenario di stagflazione, con contestuale presenza di elevata disoccupazione e alta inflazione.
Per “far lavorare di più” gli italiani restano, dunque, due sole opzioni: aumentare gli straordinari e accrescere la partecipazione femminile nel mercato del lavoro. La prima opzione appare sconsigliabile e neppure vantaggiosa per le imprese. E’ sconsigliabile dal momento che, in un’economia stazionaria, l’aumento delle ore lavorate degli occupati non può che tradursi in minore domanda di lavoro da parte delle imprese. Ed è un’opzione che non è vantaggiosa neppure per le imprese, dal momento che, con eccesso di capacità produttiva, ciò che ad esse interessa, in questa fase, è veder crescere i mercati di sbocco e avere più facile accesso al credito. Più in generale, l’aumento dell’orario di lavoro ha però una fondamentale contro-indicazione, poiché è statisticamente correlato all’aumento degli infortuni. Ancor più in un Paese nel quale – come ci dice l’Eurostat – si lavora più della media europea e, a fronte di questo, gli infortuni sul lavoro sono al di sopra della media dei Paesi industrializzati.
Per quanto attiene alla partecipazione femminile nel mercato del lavoro occorre preliminarmente ricordare che il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 indicava tra gli obiettivi da conseguire negli anni immediatamente successivi un tasso di occupazione femminile pari al 60%, con obiettivo intermedio per il 2005 del 57%. L’Istat certifica che, in Italia, il tasso di occupazione femminile è pari al 46.6% (superiore solo a quello di Malta), e che vi sono sensibili differenze per quanto attiene alla distribuzione geografica del fenomeno: nel Nord-Est il tasso di occupazione femminile si attesta intorno al 57%, nel Mezzogiorno è del 31,1%. Risulta anche molto elevato il tasso di inattività femminile: le donne inattive nel mondo del lavoro tra i 15 ed i 64 anni ammontano a una percentuale del 48,6% sul totale della forza-lavoro, a fronte del 25,4% maschile. Anche in questo caso, si registra una situazione disomogenea su scala nazionale: al Nord l’inattività femminile è collocata al 39,6%, al Centro al 44%, nel Mezzogiorno al 62,3%. Ciò che emerge con maggiore evidenza è che le donne lavorano meno proprio nelle aree del Paese dove è maggiormente concentrata la povertà. Naturalmente, questa constatazione sconta il fatto che le rilevazioni ufficiali non tengono conto, giacché, per sua natura, non possono farlo, delle dimensioni dell’economia sommersa, anche queste maggiori nelle regioni meridionali
Accrescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro è impresa ardua, per due ragioni. Il basso tasso di occupazione femminile è in larga misura imputabile al più generale problema della conciliazione dei tempi di cura e lavoro. Questo significa da un lato, la difficoltà del coniugare la cura domestica e l’attività lavorativa, e dall’altro la carenza di servizi che consentano di rendere possibile lo svolgimento delle due attività. Posta la questione in questi termini, dovrebbe derivarne – per quanto attiene alle misure di intervento correttive – che il problema ammetterebbe soluzione solo a condizione che siano disponibili sul territorio maggiori (e migliori) servizi alle famiglie. E’ opportuno chiarire che la carenza di servizi spiega solo parte del fenomeno, che si può far dipendere soprattutto dalle pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro. La discriminazione è quel fenomeno per il quale l’impresa non assume o accorda un trattamento retributivo o non retributivo peggiore a individui che appartengono a determinati gruppi, indipendentemente da valutazioni che attengono all’effettiva loro produttività. Si consideri, a riguardo, che – a parità di mansione e qualificazione – le donne guadagnano, in media, il 20% in meno dei loro colleghi maschi. Poiché la discriminazione origina da pre-giudizi dei datori di lavoro (ovvero da giudizi formulati prima dell’accertamento dell’effettiva produttività dei lavoratori assunti) e il pre-giudizio è, di norma, derivante dalla bassa scolarizzazione, sembrerebbe opportuno porre la preliminare questione dei legami che sussistono fra la ‘qualità’ della nostra imprenditoria e le condizioni di lavoro in Italia. Il fatto che circa il 70% degli imprenditori italiani non è in possesso di un titolo di studio di scuola superiore non può essere considerato un dato trascurabile.
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L’immobilismo dietro i fallimenti delle imprese
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 aprile 2012]
Qualche anno fa si parlava di declino italiano, a segnalare il basso tasso di crescita della nostra economia e la sostanziale incapacità delle nostre imprese di far fronte alla concorrenza internazionale. In assenza di politiche industriali in grado di modificare questa condizione, e a seguito delle misure di austerità messe in atto – in particolare – nell’ultimo triennio, non c’è da stupirsi di fronte a un’evidenza empirica che segnala ormai una vera e propria desertificazione produttiva dell’intero Paese. Alcuni dati possono aiutare a comprendere la dimensione del fenomeno.
Su fonte Unioncamere, si registra che nel 2011 sono stati censiti più di 12 mila fallimenti, con un aumento del 7,4% rispetto alle oltre 11 mila procedure del 2010 (che, a sua volta, aveva fatto segnare un +19,8% rispetto all’anno precedente). Fra 2009 e 2011, si contano 33 mila fallimenti. I fallimenti sono aumentati in tutte le forme giuridiche, con una crescita maggiore per le società di capitali (+8,6% rispetto al 2010), rispetto a quanto si registra nelle altre forme giuridiche (+4,7%). Pur rimanendo il macrosettore con la maggiore frequenza dei fallimenti, l’industria è l’unico comparto che nel 2011 evidenzia un’inversione di tendenza, dopo due anni di crescita della mortalità delle imprese del settore: i fallimenti – in questo comparto – si sono ridotti del 6,3% rispetto al 2010.
Dati relativamente positivi si registrano per la meccanica, la chimica, il settore dei beni di lusso, la siderurgia. A fronte di ciò, è proseguito nel 2011 l’aumento dei fallimenti nel settore delle costruzioni (+7,8% rispetto al 2010) e nel terziario (+10%). Nell’ambito dei servizi, soffrono soprattutto le imprese che operano nel campo della logistica e dei trasporti, nell’informazione e intrattenimento e nella distribuzione. Per quanto attiene alla distribuzione geografica della mortalità delle imprese, si registra che l’area che ne ha maggiormente sofferto è il Nord-Ovest, con un aumento (+8,4% tra 2011 e 2010) che ha riguardato tutte le regioni dell’area: +3,9% in Piemonte, +8,4% in Liguria, +9,8% in Lombardia e +11,1% in Valle d’Aosta. La provincia di Milano è quella con una maggiore incidenza di fallimenti nel 2011. Quasi un terzo dei 33 mila fallimenti dell’ultimo biennio ha riguardato imprese con sede nel Nord Ovest (più di 10 mila), un quarto imprese meridionali (8.358), il 22% nel Centro Italia (7.284) e il restante 21% nel Nord Est, con licenziamenti nell’ordine delle 300mila unità.
La gran parte di questo fenomeno è spiegabile alla luce di una duplice constatazione. In primo luogo, gli Esecutivi che si sono succeduti negli ultimi anni sono stati completamente inerti per quanto attiene all’attuazione di misure (anche minimali) di politica industriale. In altri termini, nulla si è fatto per rendere meno fragili le nostre imprese, ovvero per agevolarne il ‘salto tecnologico’ e per accrescerne le dimensioni. L’assenza di queste politiche sembra aver pesato soprattutto sulle (poche) imprese esposte sui mercati internazionali, che – data la bassa produttività dei fattori produttivi conseguente allo scarso (o inesistente) flusso di innovazioni – si sono trovate nella condizione di competere con costi di produzione più alti rispetto a imprese concorrenti di altri Paesi. In secondo luogo, le politiche di austerità – ovvero di riduzioni della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale – restringendo i mercati di sbocco interni, hanno colpito, in particolare, le (molte) imprese che operano esclusivamente su mercati locali. Ed è questo il caso soprattutto delle imprese meridionali.
Occorre rilevare, a riguardo, che questi dati segnalano un arretramento del Nord del Paese rispetto agli anni che hanno preceduto la crisi, e, tuttavia, danno anche conto di un ulteriore arretramento dell’economia meridionale, che, come certificato a più riprese da SVIMEZ, registra un tasso di crescita inferiore a quello del resto del Paese per il decimo anno consecutivo.
E’ noto che, fra i molteplici fattori di debolezza del tessuto produttivo del Mezzogiorno, un fattore decisivo è costituito dal razionamento del credito. Non è un problema che emerge oggi, e, tuttavia, è un problema che oggi si aggrava, per la seguente ragione.
La riduzione dei mercati di sbocco (e la maggiore tassazione) hanno ridotto i margini di profitto delle imprese meridionali. Poiché le banche erogano finanziamenti sulla base delle garanzie che le imprese sono in grado di offrire, la riduzione dei profitti rende, per le banche, sempre meno conveniente concedere credito. Il che genera la seguente spirale perversa. Al ridursi della spesa pubblica si riducono i profitti; il che comporta minore possibilità di accesso al credito e, dunque, riduzione degli investimenti e del tasso di crescita, con ulteriori compressione dei profitti e ulteriori fallimenti.
In questo scenario, il Governo sta tenacemente perseguendo obiettivi (in primis, la “riforma” del mercato del lavoro e le liberalizzazioni) del tutto estranei a quelli che, con la stessa tenacia, dovrebbe perseguire: agire, contestualmente, sull’aumento della domanda interna – stimolando i consumi – e sull’assetto tecnologico delle nostre imprese, incentivando l’adozione di tecnologie innovative e contrastando il fenomeno del ‘nanismo imprenditoriale’. La crescita economica – per quanto la teoria economica ci insegna – può essere trainata da flussi di innovazione e/o da politiche (fiscali e monetarie) espansive. Nel decreto “Cresci Italia” c’è ben poco, se non nulla, a riguardo e, tuttavia, esso è presentato appunto come un pacchetto di misure per la crescita. E’ davvero possibile che il prof. Monti confidi nell’aumento del numero di taxi per la ripresa della crescita economica in Italia?
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Lavoro pubblico e riforma
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” dell’8 aprile 2012]
A Confindustria non è bastata l’abolizione dell’articolo 18 per i lavoratori del settore privato. La ‘flessibilità in uscita’ (ovvero la maggiore facilità del licenziamento) la si vuole estendere anche al settore pubblico. Un autorevole commentatore del Sole-24 ore ha recentemente tenuto a precisare che “Logica vorrebbe che per la pubblica amministrazione valgano le stesse regole ipotizzate per i lavoratori delle imprese private”. In prima battuta, sembrerebbe un’affermazione appunto logica.
Va tuttavia chiarito che, a dispetto di quanto comunemente si ritiene (e, soprattutto, di quanto le associazioni datoriali hanno interesse a far credere), la disciplina del licenziamento di lavoratori nella Pubblica Amministrazione è già stata ‘semplificata’ dalla cosiddetta Legge Brunetta del 2009 e, ancor più, dalla legge 183/2011, che dispone che il licenziamento può avvenire in tutti i casi nei quali le amministrazioni “hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria”. Dunque, sul piano normativo, non è possibile sostenere che i licenziamenti nel pubblico impiego siano più difficili che nel settore privato.
Occorre precisare che le misure di precarizzazione del lavoro, come certificato dall’OCSE fin dal Rapporto del 2008, non accrescono l’occupazione e tendono a generare significative riduzioni della quota dei salari sul PIL. E’ difficile pensare che il Presidente Monti e il Ministro Fornero, economisti di professione, non siano a conoscenza di questa evidenza. A ben vedere, la precarietà del lavoro ha il solo effetto di rendere più credibile la minaccia di licenziamento, agendo come un dispositivo di ‘disciplina’, e, dunque, di accrescere il rendimento dei lavoratori occupati, consentendo riduzioni dei salari. Ed è questo effetto che maggiormente interessa gran parte delle nostre imprese, poco innovative, di piccole dimensioni, con margini di profitto bassi e capaci di competere su scala internazionale solo mediante compressione dei costi di produzione (salari e costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, in primo luogo). Vi è di più. Le politiche di precarizzazione del lavoro (nel settore privato) sono anche funzionali all’aspettativa – da parte del Governo – che, movendosi in questa direzione, l’Italia riesca ad attrarre investimenti e a evitare delocalizzazioni. Ma, anche su questo aspetto, l’evidenza empirica disponibile non segnala alcuna correlazione significativa fra riduzione delle tutele dei lavoratori e aumento degli investimenti privati.
Nel settore pubblico, in Italia, lavorano circa 3,5 milioni di individui, dei quali circa 3 milioni con contratti a tempo determinato e l’occupazione nelle pubbliche amministrazioni costituisce circa il 15% dell’occupazione complessiva. L’architettura normativa che, quasi inevitabilmente, porterà a un sostanziale ‘dimagrimento’ della Pubblica Amministrazione ha il suo nucleo nel Patto di Stabilità interno, e la legge 183/2011 ne è il naturale corollario. Come è noto, il Patto di Stabilità pone vincoli stringenti alle amministrazioni pubbliche in merito al rispetto del pareggio del loro bilancio. Il che significa che le amministrazioni che sono tenute a rispettarlo possono spendere per l’erogazione di beni e servizi pubblici nei limiti di quanto raccolgono attraverso tassazione e tributi. E’ quindi del tutto evidente che, nelle aree del Paese nel quale il prodotto interno lordo è più basso (e, quindi, nel Mezzogiorno in primo luogo), essendo più basso il gettito fiscale, il Patto di Stabilità interno costituisce un vincolo più difficilmente sostenibile rispetto alle aree più ricche del Paese. Il che, peraltro, è già nei fatti, e lo si verifica semplicemente confrontando la quantità e la qualità di beni e servizi pubblici fra Nord e Sud.
In questo scenario, l’introduzione di norme che, oltre che consentire, incentivino le Pubbliche Amministrazioni a licenziare comporta il solo effetto di accrescere ulteriormente i divari regionali, potendosi ragionevolmente prevedere i seguenti effetti. 1. L’aumento della disoccupazione riduce la base imponibile e, a parità di aliquota di imposta, riduce il gettito; 2. La riduzione del gettito fiscale comporta minore (e peggiore) erogazione di beni e servizi pubblici, dal momento che la loro produzione deve essere finanziata appunto attraverso la tassazione; 3. La riduzione dell’occupazione nel settore pubblico contribuisce ad amplificare questo effetto dal momento che a minore occupazione corrisponde minore produzione. Si osservi che questa spirale viziosa sarebbe tanto più intensa nel Mezzogiorno, dal momento che è in quest’area che è collocata la gran parte del pubblico impiego, e, dunque, sarebbero maggiormente penalizzati (in quanto a minore dotazione di beni e servizi offerti dall’operatore pubblico) i cittadini e le imprese residenti al Sud.
Anche ammettendo, come gran parte dei commentatori ritiene, che il settore pubblico non sia altro che un luogo nel quale si raccolgono “fannulloni”, occorrerebbe chiedersi se sia preferibile maggiore disoccupazione (e minore erogazione di beni e servizi pubblici, soprattutto al Sud) o maggiore occupazione, anche se scarsamente produttiva. Giacché di questo conflitto di obiettivi si tratta: rendere più facili i licenziamenti nel pubblico impiego non comporta – soprattutto in un’economia a crescita zero – maggiore incentivo ad assumere. I licenziamenti nel pubblico impiego potrebbero essere, infatti, unicamente motivati dall’imposizione dei vincoli derivanti dal Patto di stabilità interno, che sono, per loro natura, il prodotto di una decisione politica: in tal senso, questi vincoli rientrano nella categoria della coercizione e non della volontarietà che caratterizza gli scambi sul mercato. D’altra parte, il settore pubblico non persegue obiettivi di profitto e non agisce in un contesto concorrenziale, così che, in linea di principio, non ha senso equiparare lavoratori del settore privato e lavoratori del settore pubblico. I primi sono licenziabili per scelte di operatori economici (le imprese private) che perseguono l’obiettivo del profitto; i secondi potrebbero essere licenziabili per scelte di operatori economici (le pubbliche amministrazioni) che non perseguono questo obiettivo, ma che devono attenersi a vincoli che derivano da scelte politiche e, in quanto tali, discrezionali e, dunque, discutibili.
Vi sono dunque buone ragioni per ritenere che l’operazione che si vuole compiere non è finalizzata né a rendere più equo il mercato del lavoro, né a rendere più efficiente la Pubblica Amministrazione, bensì a ‘snellire’ ulteriormente lo Stato Sociale, stando al principio – tutto ideologico – secondo il quale ogni diritto è negoziabile e, quando si tratta di ‘riformare’ il mercato del lavoro, non sono ammissibili tabù.
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Il cortocircuito banche-crescita
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 1° maggio 2012]
Circa il 51% delle micro imprese italiane che si sono rivolte ad una banca negli ultimi tre mesi ha denunciato un aumento delle difficoltà di accesso al credito, sia per quanto attiene alla mancata erogazione, sia per quanto attiene agli (elevati) interessi applicati sui finanziamenti. E’ quanto emerge da un’indagine della CGIA di Mestre. E’ interessante rilevare che, stando a questa stessa indagine, le piccole imprese che hanno denunciato maggiori difficoltà sono localizzate nel Nord-Est. Ciò smentisce, almeno parzialmente, il convincimento diffuso secondo il quale il razionamento del credito deriva dall’elevato rischio connesso all’erogazione di finanziamenti, a sua volta imputabile al contesto socio-economico nel quale opera l’impresa e, segnatamente, alla presenza di criminalità organizzata. Questa convinzione porta a ritenere che, contrariamente all’evidenza, sono le imprese meridionali – in quanto localizzate in aree con elevata presenza di criminalità organizzata – a scontare tassi di interesse più alti e/o a vedersi ridotti i finanziamenti bancari. Su questo punto occorre porre due precisazioni. In primo luogo, come diffusamente attestato, la criminalità organizzata – purtroppo – è ormai un fenomeno nazionale, e non vi è dubbio sul fatto che la sua esistenza contribuisca a disincentivare l’erogazione di credito dal momento che accresce la rischiosità degli investimenti. In secondo luogo, la restrizione del credito è essenzialmente causata dalle piccole dimensioni aziendali, dal momento che imprese di piccole dimensioni sono (almeno presuntivamente) più facilmente soggette a fallimento, così come, per converso, le grandi imprese vengono ritenute “troppo grandi per fallire”.
La restrizione del credito è uno dei principali fattori che contribuisce ad accentuare l’intensità della crisi, per le seguenti ragioni.
1) In primo luogo, la restrizione del credito si manifesta sotto forma di maggiore difficoltà nell’erogazione di mutui. E’ vero, da un lato, che la “prima crisi” (2007-2008) è stata precisamente generata dalla bolla immobiliare derivante dall’erogazione di credito al consumo anche a individui privi di garanzie reali e, tuttavia, occorre riconoscere innanzitutto che ciò è accaduto negli Stati Uniti e solo in minima parte in Italia e che, soprattutto, nelle condizioni attuali, la contrazione del credito al consumo frena la crescita della domanda interna, agendo soprattutto sul settore immobiliare e contribuendo a determinare caduta dell’occupazione e fallimenti di imprese in quel settore e nel suo ampio indotto.
2) In secondo luogo, la stretta sui finanziamenti alle imprese rischia di generare i medesimi effetti (fallimento di imprese e aumento del tasso di disoccupazione) soprattutto in un’economia – quella italiana – nella quale è prevalente la presenza di imprese di piccole o piccolissime dimensioni. A seguire, ciò può rendere possibile o incentiva (come, peraltro, già sta accadendo) fenomeni di acquisizione da parte di imprese di più grandi dimensioni, di norma collocate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. Vi è qui un duplice problema. Da un lato, vi è il problema della conservazione – se non del potenziamento – della nostra struttura produttiva: problema che origina dalla sostanziale assenza di politiche industriali, che data almeno nell’ultimo ventennio, volte al rafforzamento delle imprese italiane, alla loro crescita dimensionale, alla loro propensione all’innovazione e alla loro collocazione competitiva nei mercati internazionali. Dall’altro, va rilevato che i fenomeni di acquisizione accrescono il potere di monopolio delle imprese di grandi dimensioni, che possono utilizzarlo (e, di norma, lo fanno) per ottenere profitti non mediante l’aumento della produzione, ma mediante l’aumento dei prezzi. Da ciò segue la compressione del potere d’acquisto delle famiglie.
Occorre riconoscere che la riduzione dei finanziamenti da parte delle banche ha un suo fondamento di razionalità. Il fondamento di razionalità, almeno nel caso italiano, si rileva nel fatto che al ridursi dei profitti delle nostre imprese, si riducono le garanzie che queste possono offrire ai loro creditori e, di conseguenza, l’accesso al credito non può che diventare sempre più difficile o sempre più oneroso. Né, nelle condizioni attuali, si può ragionevolmente ritenere che gli investimenti siano finanziabili attraverso altri canali, ovvero mediante il ricorso ai mercati finanziari e/o all’autofinanziamento. Il primo canale è di fatto marginale in quanto accessibile solo alle poche imprese quotate in Borsa, in una condizione nella quale la gran parte delle imprese italiane, in particolare le imprese meridionali e le imprese di piccole dimensioni, non possono o non sono in condizione di emettere titoli e di renderne conveniente l’acquisto. In secondo luogo, un’economia – quella italiana – popolata da imprese di piccole dimensioni è un’economia che è strutturalmente dipendente dalle dinamiche del mercato del credito, dal momento che, ottenendo bassi profitti, le nostre imprese non possono che attingere a pochi fondi interni così da generare – in assenza di flussi di liquidità addizionali – aumenti irrilevanti di investimenti. Da questo punto di vista, non sembrano efficaci gli interventi ‘punitivi’ che il Governo ha cercato di mettere a punto contro il sistema bancario, provocando le dimissioni in massa dei vertici dell’ABI. Sarebbero più efficaci, almeno in un’ottica di medio-lungo periodo, e per l’obiettivo di ripristinare le condizioni per la ripresa della crescita economica in Italia, politiche industriali che consentano alle imprese italiane – e maggior ragione a quelle meridionali – di fuoriuscire dalla gabbia del loro nanismo.
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Gli ostacoli alla crescita
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 maggio 2012]
L’Italia, assieme alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, è il Paese OCSE più “feudale”, se con questo termine si intende connotare un assetto istituzionale nel quale è massimo il grado di immobilità sociale. In sostanza, chi nasce da una famiglia di operai è destinato a diventare operaio, così come chi nasce da una famiglia di imprenditori è destinato a diventare imprenditore, salvo eccezioni che – come rileva l’ISFOL – tendono a diventare sempre più rare.
Chi cerca lavoro, e ci si riferisce soprattutto ai giovani nella fascia d’età compresa fra i 25 e i 35 anni, lo fa essenzialmente attraverso il ricorso ad agenzie private, a fronte del fatto che – soprattutto per la carenza di fondi e la riduzione dell’intervento pubblico in economia – la partecipazione a concorsi pubblici costituisce un percorso del tutto marginale per l’accesso al mercato del lavoro: nel 1997, un individuo su tre otteneva un impiego con concorso pubblico, ad oggi la percentuale si é ridotta a meno del 6% degli inoccupati. L’ISFOL registra un considerevole aumento del ricorso alla cosiddetta intermediazione informale (“amici, parenti e conoscenti”), pressoché uniformemente distribuito sul territorio nazionale.
E’ singolare osservare che questo fenomeno si è prodotto, o comunque ha subìto una straordinaria accelerazione, proprio negli anni nei quali si è maggiormente parlato di meritocrazia e proprio negli anni nei quali le politiche del lavoro attuate si sono mosse (almeno nella retorica che le ha accompagnate) precisamente in questa direzione. Il che fa capire che di retorica si è trattato, e che queste politiche con il merito (comunque lo si voglia definire) hanno e hanno avuto ben poco a che fare.
Alcuni autorevoli commentatori hanno rilevato che il fenomeno è interamente imputabile a fattori di natura ‘culturale’: la raccomandazione, a loro avviso, susciterebbe in Italia sentimenti di invidia più che di indignazione. Si tratta di una interpretazione poco convincente, per due ordini di ragioni. In primo luogo, se di fattore ‘culturale’ si tratta – e, dunque, di un fattore che può modificarsi solo in un arco temporale molto lungo – non si capisce per quale ragione la tolleranza nei confronti delle raccomandazioni sia aumentata in questi ultimi anni, e, conseguentemente, non si spiega perché sia aumentato il ricorso ai canali informali per la ricerca del lavoro. In secondo luogo, questa interpretazione non dà conto del fatto che l’immobilità sociale in Italia è pari a quella che l’OCSE registra per gli USA e la Gran Bretagna.
A ben vedere, il fenomeno ha cause diverse, che attengono principalmente al fatto che la disoccupazione giovanile in Italia supera il 30%. In questo scenario, la probabilità di trovare lavoro (con una mansione coerente con le competenze acquisite) si riduce anche per i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati. Si riduce, conseguentemente, l’incentivo – da parte loro – a cercare lavoro mediante canali formali, offrendosi sul mercato del lavoro in assenza di ‘protezioni’ familiari o amicali. E poiché la possibilità di ricorrere a intermediazioni informali non è ovviamente equamente distribuita, l’esito pressoché inevitabile è che trovano lavoro – e soprattutto lo trovano con elevate retribuzioni e di più alta qualità – solo coloro che di tali intermediazioni possono usufruire. Ciò anche a ragione del fatto ovvio che i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati, di norma, hanno più facile accesso all’Università e alle sedi universitarie considerate più prestigiose. E’ anche rilevante considerare che l’imposta di successione, in Italia, è ad oggi ai suoi minimi storici, essendo stata al 27% fino al 2000 e addirittura azzerata dal secondo Governo Berlusconi (2001-2006).
Si genera, così, un circolo vizioso. Sapendo (o apprendendo) che, in Italia, si trova lavoro prevalentemente in questo modo, coloro che non dispongono di ‘protezioni’ familiari o amicali possono reagire o collocandosi nell’economia sommersa, o ritirandosi dal mercato del lavoro (dando luogo, come è in atto, a una esponenziale crescita del fenomeno del lavoratore scoraggiato) o anche saranno disincentivati nell’acquisizione di istruzione. A fronte di ciò, le imprese si troveranno a poter assumere lavoratori “protetti” e altamente istruiti e lavoratori non protetti e poco istruiti, agendo su un mercato del lavoro duale che è tale solo per le differenti condizioni di reddito e di status fra lavoratori. Preferendo le imprese assumere i primi, l’ulteriore demotivazione di coloro che non dispongono di canali informali per l’accesso al mercato del lavoro non può che essere un esito inevitabile. Così che, in assenza di interventi esterni, si genera una condizione di “profezie che si auto-verificano”: le imprese riterranno, a ragione, di aver assunto i lavoratori più produttivi proprio perché le loro decisioni hanno spontaneamente determinato la minore produttività dei non assunti. I lavoratori poco protetti e poco istruiti tenderanno a diventare sempre meno protetti e sempre meno istruiti, accentuando il dualismo del mercato del lavoro italiano e bloccando ulteriormente la mobilità sociale.
In questo scenario, l’economia sommersa svolge una importante funzione di ammortizzatore sociale, prevalentemente (ma non solo) nel Mezzogiorno. Studi recenti hanno dimostrato che i giovani meridionali sono, in media, disposti a lavorare per un salario superiore a quello richiesto dai loro colleghi del Centro-Nord (il cosiddetto paradosso del salario di riserva). Questo fenomeno appare direttamente correlato con il blocco della mobilità sociale e l’aumento delle attività irregolari, dal momento che, essendo il reddito pro-capite al Sud notevolmente più basso del Centro-Nord, il paradosso in questione non può che trovare spiegazione nel fatto che molti lavoratori meridionali dispongono di redditi (illeciti) che consentono loro di accettare impieghi regolari solo se molto ben retribuiti.
Il “protezionismo familiare”, la trasmissione ereditaria di potere, status e reddito rendono la società italiana sempre più immobile, e le prospettive di crescita della nostra economia sempre più remote.
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Perché l’austerità incentiva la criminalità
[“MicroMega online” del 18 maggio 2012]
Dopo un lungo silenzio, il Piano per il Sud voluto dal Ministro Barca riaccende i riflettori sulla mai risolta “questione meridionale”[1]. I problemi dell’economia meridionale si sono notevolmente accentuati a seguito della crisi in corso e delle politiche di austerità che hanno significativamente contribuito ad aggravarli. Fra questi, quello che dovrebbe destare maggiore preoccupazione (e sul quale si sono spese troppe poche parole, e nulla, fin qui, si è fatto) riguarda l’espansione dell’economia irregolare e, ancor più, dell’economia criminale. L’ufficio studi di Unimpresa ha recentemente rilevato che la criminalità organizzata dispone di circa 150 miliardi di euro da riciclare. Un capitale monetario di ingenti proporzioni che trova due destinazioni: prestiti a usura a imprese e famiglie. Si stima, a riguardo, che – per l’Italia nel suo complesso – il sovra indebitamento delle famiglie in Italia, a marzo 2012, è aumentato del 219,9% rispetto allo stesso mese del 2011 e che, in larga misura, questo aumento deriva dalla crescita – stimata nell’ordine del 150% – dei prestiti usurai. A ciò si aggiunge che il debito medio delle famiglie italiane si aggira intorno ai 43.000 euro e che il debito medio delle piccole imprese è di poco inferiore ai 64.000 euro. Le conseguenze di questo fenomeno sono facilmente prevedibili, dal momento che, di norma, il debito con tassi di interesse usurai diventa progressivamente insostenibile, generando il fallimento di imprese (e l’insolvenza delle famiglie), e la loro acquisizione da parte della criminalità organizzata.
Il fenomeno, quando è stato analizzato, è stato imputato quasi esclusivamente alla restrizione del credito, quest’ultimo visto come causa ultima del problema, spesso adducendo un argomento di natura etica per darne una motivazione facilmente divulgabile: le banche sarebbero eccessivamente ‘avare’ e avrebbero beneficiato di finanziamenti pubblici senza produrre alcun beneficio per la crescita economica[2]. Si tratta di una tesi molto opinabile per due ragioni. In primo luogo, le banche non sono affatto avare ma, più semplicemente, registrano (come le imprese) consistenti cali dei profitti: si stima, a riguardo, che le sofferenze nette delle banche italiane hanno raggiunto, nel marzo 2012, l’importo complessivo di 35.5 miliardi di euro, con un incremento di oltre il 50% nel corso dell’ultimo anno. L’aumento delle sofferenze bancarie deriva in larga misura dalla riduzione del valore dei titoli di Stato detenuti da Istituti di credito italiani[3]. In secondo luogo, si può argomentare che la restrizione del credito – per l’economia italiana – è un problema anche connesso alle politiche di austerità, che – peraltro – aggrediscono maggiormente l’economia meridionale e le fasce più deboli della popolazione lì residente.
Va ricordato, a riguardo, che le politiche fiscali restrittive praticate negli ultimi anni hanno penalizzato maggiormente il Mezzogiorno. Su fonte SVIMEZ, si calcola che i trasferimenti pubblici si assestano a circa 356 euro pro-capite nei comuni del Centro-Nord, a fronte dei 330 nei comuni meridionali. A ciò si aggiunge il fatto che, in termini pro-capite, le entrate tributarie sono raddoppiate nei comuni del Centro-Nord e triplicate nei comuni del Mezzogiorno, nel periodo compreso fra il 1991 e il 2010. Ciò a dire che i cittadini meridionali, a dispetto della vulgata,ricevono meno fondi dallo Stato e pagano più imposte rispetto ai residenti nelle aree più ricche del Paese. I nessi esistenti fra politiche di austerità e restrizione del credito, con particolare riferimento al Mezzogiorno, rinviano a un duplice meccanismo.
a) La struttura produttiva meridionale è costituita da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, scarsamente internazionalizzate, che vendono essenzialmente in mercati locali o che operano su subfornitura, producendo beni intermedi utilizzati da imprese collocate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. Le politiche di austerità, sotto forma di contrazione della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale, in quanto riducono i redditi disponibili, riducono, conseguentemente, i consumi, con conseguente riduzione dei margini di profitto. La riduzione delle risorse per l’autofinanziamento della produzione contribuisce a ridurre le dimensioni medie aziendali, o a determinarne il fallimento, così che le politiche di austerità accentuano il problema del nanismo imprenditoriale. Si osservi che le dimensioni d’impresa costituiscono un fattore rilevante per l’accesso al credito, nel senso che le imprese di più piccole dimensioni – in quanto ritenute più esposte al rischio di fallimento – tendono a essere razionate, e, conseguentemente, ciò incentiva il ricorso a prestiti usurai.
b) Le politiche di austerità, in quanto riducono la domanda aggregata e accrescono la disoccupazione (con particolare riferimento alla disoccupazione giovanile), contribuiscono all’erosione dei risparmi e, dunque, alla riduzione dei depositi bancari, accentuando – anche per questa via – la restrizione del credito.
A ciò si può aggiungere una considerazione di carattere generale. A fronte delle molteplici motivazioni che guidano le scelte di finanziamento da parte del sistema bancario, occorre considerare che le banche erogano credito anche tenendo conto delle aspettative in ordine ai profitti che le imprese potranno ottenere e che, a loro volta, le imprese chiedono finanziamenti bancari sulla base delle proprie aspettative di profitto[4]. A parità di costi di produzione, si può ritenere che la contrazione della spesa pubblica e l’aumento dell’imposizione fiscale – dal momento che riducono i ricavi attesi – peggiorano le aspettative, non solo delle imprese ma anche delle banche. Così che quanto più si riduce la spesa pubblica tanto più il sistema bancario è indotto a comportarsi in modo ‘non accomodante’[5], riducendo i finanziamenti e attivando, per questa via, una spirale perversa che va dalle politiche fiscali restrittive alla riduzione dei finanziamenti a imprese e famiglie, al calo della domanda, della produzione e dell’occupazione. Si è qui in presenza di un circolo vizioso: la riduzione della domanda aggregata incentiva la restrizione del credito bancario, così come la restrizione del credito bancario – riducendo gli investimenti – riduce la domanda aggregata. In tal senso, si può stabilire che le politiche di austerità sono causa ed effetto della contrazione dell’offerta di credito bancario e che, in assenza di misure di contrasto all’economia irregolare, a questo fa seguito la sua espansione.
Questo meccanismo segnala un’ulteriore contraddizione delle politiche di austerità: non soltanto, infatti, il perseguimento del rigore finanziario non riesce a raggiungere l’obiettivo che si prefigge (la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL)[6], ma, poiché alimenta la crescita delle attività irregolari (e, dunque, l’evasione fiscale), riduce il gettito fiscale, rendendo ancora più problematico il raggiungimento dell’obiettivo della stabilità dei conti pubblici. La contraddizione è qui ulteriormente amplificata dal fatto che, poiché le infiltrazioni criminali sono irreversibili (a meno di incisive politiche di contrasto[7]), l’austerità agisce anche come disincentivo all’attrazione di investimenti nel Mezzogiorno. Tutto ciò al netto dei costi umani e sociali associati all’espansione della criminalità organizzata.
[1] In estrema sintesi, il Piano del Ministro per la Coesione Territoriale prevede l’utilizzo di fondi UE per un duplice obiettivo: rafforzare la competitività delle imprese meridionali, mediante incentivi all’adozione di processi innovativi ed erogare maggiori servizi sociali (soprattutto mediante le organizzazioni non-profit) a beneficio dei cittadini meridionali che versano in condizioni di massima indigenza.
[2] Si aggiunge, a riguardo, una motivazione (pseudo) scientifica, secondo la quale la banche otterrebbero profitti mediante operazioni di signoraggio: ovvero, e sinteticamente, offrendo moneta a un valore superiore al suo costo di produzione. Non è questa la sede per una critica a questa tesi. In linea generale, e su questi temi, appare condivisibile la tesi di Hyman Minsky “il sistema bancario è una forza distruttiva che tende a produrre e amplificare l’instabilità, ma è, al tempo stesso, un fattore essenziale per il finanziamento degli investimenti e per la crescita economica”. H.P.Minsky, Stabilizing an unstable economy. New Haven: Yale University Press, 1986, p.224.
[3] Secondo l’ABI, ciò dipenderebbe anche dall’eccessiva regolamentazione delle attività bancarie imposta dagli accordi di Basilea 3. Per un approfondimento, si veda http://www.bis.org/bcbs/basel3_it.htm.
[4] Per un approfondimento sul tema, si rinvia a M.Wolfson, A Post Keynesian theory of credit rationing, “Journal of Post Keynesian Economics”, 18 (3), pp.443-470.
[5] Cfr. http://cemf.u-bourgogne.fr/z-outils/documents/communications%202007/Alain%20PARGUEZ%202007.pdf
[6] Ciò per le ragioni esposte, fin dal 2010, in www.letteradeglieconomisti.it.
[7] Politiche che ovviamente necessitano di essere finanziate, in un contesto nel quale l’obiettivo della riduzione della spesa rende scarse le risorse disponibili per questo obiettivo.
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L’altra verità sul debito
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 31 maggio 2012]
“Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e, per questa ragione, i tagli della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale sono ora inevitabili. E’ quanto reiteratamente ripetono il Presidente del Consiglio, i nostri ministri e i commentatori che ne sostengono la linea di politica economica. Si tratta di un messaggio facilmente comunicabile, dal momento che associa (in modo fallace) il bilancio di una famiglia con il bilancio dello Stato. Si tratta di un’associazione fallace, dal momento che, mentre per una famiglia esiste un limite oltre il quale risulta insostenibile l’indebitamento (limite dato dall’impossibilità di ripagare il debito, con le conseguenze giudiziarie che ne derivano) ciò non accade per uno Stato, dal momento che il suo debito può espandersi ad infinitum, a condizione di trovare chi ne acquista i titoli. In un assetto istituzionale nel quale è data alla Banca Centrale questa possibilità (il che non è nell’attuale legislazione europea), potendo la Banca Centrale produrre moneta senza vincoli di scarsità, il debito pubblico può crescere appunto senza incontrare limiti.
Vivere al di sopra delle nostre possibilità, nell’accezione che viene data a questa tesi, significa aver tenuto per troppi anni elevata la spesa pubblica e bassa la tassazione. Il naturale corollario di ciò consiste nell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, così come voluto dalla Cancelliera Merkel. Occorre preliminarmente rilevare che la Germania, nel 2009, si è data l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2016 e quello dei bilanci federali entro il 2020, mentre l’Italia dovrà conseguire questo risultato entro il 2013. La motivazione ufficiale che obbliga l’Italia a più rapide e incisive misure di austerità è quella ossessivamente ripetuta nel corso dell’ultimo biennio: l’Italia ha un debito pubblico eccessivamente elevato, così che rischia di non riuscire a collocare i propri titoli di Stato sui mercati finanziari, con conseguente necessità di venderli con rendimenti più alti, dando luogo a un aumento dello spread rispetto ai bund tedeschi e all’eventualità del fallimento.
Alcuni dati (su fonte EUROSTAT) possono essere sufficienti per destituire di fondamenta la tesi governativa. Nel periodo 2001-2009, la spesa pubblica in percentuale al PIL Italia è stata sostanzialmente in linea con la media europea: il 48% fra il 2001 e il 2007, a fronte di una media UE del 46.5%, il 48% nel 2008 a fronte di una media europea di circa il 47% e il 51.9% del 2009 contro una media europea di circa il 50%. E’ interessante rilevare che, nel periodo preso in considerazione, la Francia ha sempre speso più dell’Italia (il 52% del PIL nel 2001-2007, il 52.8% del 2008, il 55.6% del 2009), e che la spesa pubblica in Germania, nel medesimo intervallo temporale, è stata mediamente inferiore a quella italiana di solo un punto percentuale in rapporto al PIL. Le entrate derivanti da tassazione, nell’ultimo decennio, sono state sempre maggiori in Italia rispetto alla media europea. In altri termini, nell’ultimo decennio, la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL non è stata significativamente maggiore della spesa pubblica europea, mentre l’imposizione fiscale è stata notevolmente più alta. Da ciò si può dedurre che, quantomeno nell’ultimo decennio, tutti i Paesi europei hanno vissuto “al di sopra delle loro possibilità”.
A riguardo, è opportuno chiarire due aspetti. Il primo. L’obiettivo del pareggio di bilancio comporta necessariamente ulteriori aumenti della pressione fiscale (già, oggi, ai massimi storici dal secondo dopoguerra) e ulteriori decurtazioni della spesa pubblica. Ovvero: ulteriore impoverimento della gran parte delle famiglie italiane. Può essere sufficiente ricordare che, a marzo, il tasso di disoccupazionerilevato dall’Istat è cresciuto dello 0,2%, collocandosi al 9,8%, e che la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 36%. Il secondo. Il fallimento di uno Stato consiste tecnicamente nella impossibilità di ripagare i debiti contratti. La gran parte dei titoli del debito pubblico italiani è nelle mani di operatori stranieri e di Istituzioni finanziarie (anche italiane), così che l’eventuale defaultpotrebbe non determinare danni per la gran parte dei risparmiatori italiani. Si osservi che ciò si è realizzato in Islanda, dove, nel silenzio assoluto dei media, si è verificata una rivoluzione dal basso, il cui significato – in primo luogo politico – non andrebbe sottovalutato: le proteste di piazza a Reykjavìk hanno prodotto l’effetto eclatante di far dimettere il governo in carica e di indurre a nazionalizzare le principali banche commerciali, senza ripagare il debito sovrano. E’ bene precisare che, tuttavia, per l’Italia, potrebbe trattarsi di una misura niente affatto indolore: l’Islanda ha il privilegio di essere un Paese di piccole dimensioni, con abbondante disponibilità di risorse (materie prime, in primo luogo), caratteristiche che l’Italia non ha. E’ anche opportuno chiarire che un’eventuale opzione di fallimento potrebbe avere serissimi effetti collaterali, a partire da ulteriori possibili attacchi speculativi, dalla restrizione del credito e, per conseguenza, potrebbero prodursi ulteriori riduzioni del tasso di crescita, dell’occupazione e dei salari. La gran parte dei movimenti di protesta ha fatto propria la linea del “diritto al default” come via di uscita dalla crisi. Se la prospettiva che ci attende consiste in ulteriori insostenibili misure di austerità, occorrerebbe cominciare a prendere questa opzione sul serio, valutandone costi e benefici rispetto a ogni altra possibile e ragionevole opzione.
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Il fallimento dell’austerity
[in “MicroMega” online dell’8 giugno 2012]
“Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e, per questa ragione, i tagli della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale sono ora inevitabili. E’ quanto reiteratamente ripetono il Presidente del Consiglio, i nostri ministri e i commentatori che ne sostengono la linea di politica economica. Si tratta di un messaggio facilmente comunicabile, dal momento che associa (in modo fallace) il bilancio di una famiglia con il bilancio dello Stato, e, al tempo stesso, del solo messaggio che può essere veicolato nel presente fragilissimo assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. In altri termini, si può ragionevolmente sostenere che le misure di austerità – e i “sacrifici” a queste connessi – sono inefficaci per l’obiettivo che si propongono[1], sono deleteri ai fini della coesione sociale[2] e che, tuttavia, sono inevitabili nell’attuale configurazione dell’Eurozona.
1) L’equiparazione del bilancio familiare con il bilancio di uno Stato è un’equiparazione fallace, dal momento che, mentre per una famiglia esiste un limite oltre il quale risulta insostenibile l’indebitamento (limite dato dall’impossibilità di ripagare il debito, con le sanzioni che ne derivano) ciò non accade per uno Stato, dal momento che il suo debito può espandersi ad infinitum, data l’ovvia condizione di trovare chi ne acquista i titoli In un assetto istituzionale nel quale sia data alla Banca Centrale questa possibilità (il che non è nell’attuale legislazione europea), potendo la Banca Centrale produrre moneta senza vincoli di scarsità[3], il debito pubblico può crescere appunto senza incontrare limiti. Come riconosciuto da molti autorevoli economisti, non è possibile stabilire un limite di sostenibilità del debito pubblico, ovvero, sul piano strettamente teorico, il limite di sostenibilità del debito pubblico non può che derivare da scelte di ordine politico, dunque estranee a un calcolo puramente economico[4]. Semplificando: mentre esiste un tribunale che sanziona l’inadempienza di una famiglia, non esiste un tribunale che sanziona l’inadempienza (ammesso che di questo si tratti) di uno Stato.
Vivere al di sopra delle nostre possibilità, nell’accezione che viene data a questa tesi, significa aver tenuto per troppi anni elevata la spesa pubblica e bassa la tassazione. Il naturale corollario di ciò consiste nell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, così come voluto dalla Cancelliera Merkel. Occorre preliminarmente rilevare che la Germania, nel 2009, si è data l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2016 e quello dei bilanci federali entro il 2020, mentre l’Italia dovrà conseguire questo risultato entro il 2013. La motivazione ufficiale che obbliga l’Italia a più rapide e incisive misure di austerità è quella ossessivamente ripetuta nel corso dell’ultimo biennio: l’Italia ha un debito pubblico eccessivamente elevato, così che rischia di non riuscire a collocare i propri titoli di Stato sui mercati finanziari, con conseguente necessità di venderli con rendimenti più alti, dando luogo a un aumento dello spread rispetto ai bund tedeschi e all’eventualità del fallimento. Alcuni dati (su fonte EUROSTAT) possono essere sufficienti per destituire di fondamenta la tesi governativa. Nel periodo 2001-2009, la spesa pubblica in percentuale al PIL Italia è stata sostanzialmente in linea con la media europea: il 48% fra il 2001 e il 2007, a fronte di una media UE del 46.5%, il 48% nel 2008 a fronte di una media europea di circa il 47% e il 51.9% del 2009 contro una media europea di circa il 50%. E’ interessante rilevare che, nel periodo preso in considerazione, la Francia ha sempre speso più dell’Italia (il 52% del PIL nel 2001-2007, il 52.8% del 2008, il 55.6% del 2009), e che la spesa pubblica in Germania, nel medesimo intervallo temporale, è stata mediamente inferiore a quella italiana di solo un punto percentuale in rapporto al PIL. Le entrate derivanti da tassazione, nell’ultimo decennio, sono state sempre maggiori in Italia rispetto alla media europea. In altri termini, nell’ultimo decennio, la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL non è stata significativamente maggiore della spesa pubblica europea, mentre l’imposizione fiscale è stata notevolmente più alta. Da ciò si può dedurre che, quantomeno nell’ultimo decennio, l’Italia ha vissuto “al di sopra delle loro possibilità” meno di quanto hanno fatto i principali partner europei. E, a fronte di questo, ci viene chiesta un’ulteriore accelerazione nella direzione del rigore di bilancio.
2) Le politiche di austerità sono sostanzialmente inevitabili nell’attuale assetto istituzionale europeo, la cui crisi si snoda intorno a un triplice conflitto distributivo: il conflitto intercapitalistico interno all’UE (fra aree centrali e aree periferiche, con conseguente crescente impoverimento assoluto e relativo di queste ultime), il conflitto intercapitalistico fra Germania e Stati Uniti, che fa perno sull’obiettivo della Germania di accrescere le quote di mercato delle sue imprese nei mercati internazionali (il che richiede l’attuazione di politiche fiscali espansive nei Paesi extra-UE e il deprezzamento del tasso di cambio euro-dollaro) e, non da ultimo, il conflitto capitale-rendita finanziaria, che si manifesta sotto forma di attacchi speculativi a danno principalmente dei Paesi con bassi tassi di crescita e persistenti disavanzi dei conti con l’estero, dal momento che bassi tassi di crescita ed elevato indebitamento con l’estero sono indicatori di bassa competitività di un Paese e di elevato rischio di insolvenza (v., fra gli altri, http://temi.repubblica.it/micromega-online/come-salvare-leuro/). Incidentalmente, occorre rilevare che non vi è nessuna evidenza che segnala che la speculazione è correlata a elevati debiti pubblici: può essere qui sufficiente ricordare, a titolo esemplificativo, che nella primavera 2010, in occasione del primo attacco speculativo sui titoli greci, la Grecia aveva un rapporto debito/PIL di soli due punti percentuali superiore a quello italiano; che l’attacco speculativo all’Argentina, nei primi anni Duemila, si verificò in una condizione nella quale l’Argentina aveva un rapporto debito/PIL di poco superiore al 40% e che, ad oggi, il debito pubblico in rapporto al PIL in Giappone – Paese immune da attacchi speculativi – supera il 220%. L’inevitabilità delle politiche di austerità non deriva dal fatto che solo così facendo si riduce il rapporto debito pubblico/PIL e si minimizza, conseguentemente, il rischio di vendita in massa di titoli del debito pubblico. Questa è la vulgata, basata su una falsa premessa (e, per conseguenza, su una conclusione falsa), giacché le politiche di austerità semmai accrescono (o comunque non riducono) il rapporto debito/PIL. L’inevitabilità delle politiche di austerità deriva semmai dall’assetto gerarchico venutosi progressivamente a consolidare in Europa, così che la politica dell’Unione è decisa di fatto dal Governo tedesco, sulla base degli interessi materiali che difende (essenzialmente quelli delle imprese esportatrici tedesche). Se così si pone la questione, risulta inutile chiedere alla signora Merkel di adottare una linea di politica economica meno rigida: si tratta di una richiesta non ricevibile giacché contraria agli interessi della base elettorale che sostiene il Governo tedesco. L’esperienza di questi ultimi mesi ha chiaramente dimostrato che essa si scontra con l’”ostinazione” del Governo tedesco e che, anche quando viene accolta, si traduce in misure una tantum, spesso insufficienti,e che soprattutto non aggrediscono i problemi strutturali dell’Unione. Problemi strutturali che, come evidenziato da numerosi economisti, risiedono nella mancata integrazione politica europea, e che potrebbero trovare soluzione nell’istituzione di un unico bilancio federale e nell’attribuzione alla BCE del ruolo di prestatore di ultima istanza. Con ogni evidenza, si tratta di un processo niente affatto agevole[5], che, tuttavia, potrebbe rendersi possibile i) laddove il rischio di deflagrazione dell’Eurozona – e del venir meno del mercato comune – diventi talmente alto da indurre il Governo tedesco a rivedere la propria strategia ii) o nel caso in cui il prefigurare la fuoriuscita dall’euro soprattutto da parte di Paesi che contribuiscono in modo significativo al PIL dell’eurozona, importatori di beni tedeschi venga utilizzato come strumento di persuasione per rinegoziare le condizioni di permanenza nell’Unione. E’ significativo rilevare che, nelle ultime elezioni del Parlamento europeo, i partiti “progressisti” italiani presentarono programmi che si muovevano sostanzialmente in questa direzione[6]. Resta da chiedersi se questi programmi sono ritenuti ancora attuali e, soprattutto, per quali ragioni sono stati disattesi.
[1] Su questo aspetto si rinvia a www.letteradeglieconomisti.it e, più di recente, a http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-follia-secondo-einstein/?printpage=undefined.
[2] V. http://temi.repubblica.it/micromega-online/perche-lausterita-incentiva-la-criminalita/?printpage=undefined.
[3] Il tema della creazione bancaria di mezzi di pagamento è diffusamente trattato, in particolare, da A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press 2003.
[4] Si vedano, in particolare, L.L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% defict/GDP Maasstricht ‘parameter’, “The Cambridge Journal of Economics”, 1998, vol.VIII, pp.103-116; P.Krugman, End this depression, now!, Norton and Co. 2012
[5] Sulle difficoltà di raggiungere questo obiettivo, con particolare riferimento al federalismo europeo, si segnala il dibattito fra Sergio Cesaratto e Guido Montani ospitato dalla rivista www.economiaepolitica.it lo scorso anno: http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/la-germania-litalia-e-leuropa/
[6] Si veda http://www.peacelink.it/europace/a/29588.html
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Rivedere la spesa pubblica
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 13 giugno 2012]
“Il rigore porterà gradualmente a una crescita sostenibile e al lavoro”. E’ una delle ultime dichiarazioni del Presidente Monti, che sembra far riferimento a un qualche meccanismo automatico in grado di portare l’economia italiana dalla recessione alla ripresa. Aggiungendo che non è opportuno ripescare le “vecchie” ricette keynesiane di aumento della spesa pubblica in disavanzo, da lui considerate del tutto inefficaci. Il Ministro Passera ha poi tenuto a chiarire che, per fuoriuscire dalla recessione, non si può fare affidamento su “grandi idee”, ma occorre affidarsi alla sommatoria di provvedimenti solo apparentemente marginali. La domanda che occorre porsi è: qual è la teoria posta a fondamento di queste dichiarazioni? E’ una domanda rilevante, dal momento che sulla base di queste (e altre) dichiarazioni del Presidente del Consiglio pare che si debbano escludere interventi sui tre principali fattori che la teoria economica riconosce come essenziali per l’aumento del PIL: la spesa pubblica in disavanzo, l’attivazione di flussi di innovazioni, l’aumento della dotazione di capitale umano, ovvero di conoscenze generali e tecniche delle quali i lavoratori dispongono. La prima opzione viene esclusa, per così dire, per principio. In nessuna dichiarazione ufficiale, il Presidente del Consiglio o i suoi ministri hanno spiegato per quale ragione le politiche di espansione della spesa pubblica sono oggi inefficaci. Si badi che l’obiezione, solo apparentemente ovvia, secondo la quale l’aumento della spesa pubblica fa crescere il rapporto debito pubblico/PIL è molto opinabile. L’aumento della spesa pubblica ha effetti positivi sull’occupazione e, dunque, sul PIL, così che – sotto date condizioni – tanto più lo Stato spende tanto meno deve indebitarsi. Ciò soprattutto a ragione del fatto che l’aumento della spesa pubblica, accrescendo l’occupazione e i salari, aumenta la base imponibile e, anche a parità di aliquota media di imposta, accresce il gettito fiscale. La seconda opzione (l’incentivo alle innovazioni), così come la terza (l’aumento del capitale umano), è anch’essa esclusa dal momento che l’attuale Esecutivo, anche su questi temi, si muove in piena continuità con gli indirizzi di politica economica del Governo Berlusconi, riducendo (o comunque non aumentando) i finanziamenti alle Università e ai centri di ricerca, sancendo, in tal modo, l’inutilità della ricerca scientifica.
La scommessa di Monti, per quanto si può capire, è giungere alla ripresa dell’economia italiana mediante l’accelerazione delle politiche di liberalizzazioni, secondo un nesso stando al quale maggiore concorrenza equivale a maggiore crescita. Si tratta di una tesi discutibile, per due ordini di ragioni.
1) Il Governo ha già provato, con il decreto sulle liberalizzazioni, a introdurre incentivi per rendere i mercati più competitivi, con risultati pressoché nulli data l’opposizione politica (giusta o ingiusta che sia, qui poco importa) dei settori sui quali si intendeva agire. Si sono modificati i rapporti di forza fra il Governo e le forze sociali che oppongono resistenza a queste misure? Si ritiene praticabile e necessario un secondo tentativo? Non sembra che, sul piano puramente politico, qualcosa sia cambiato o cambierà a breve. Più in generale, si può considerare che un Esecutivo che si è presentato come ‘tecnico’ ha, fin qui, commesso errori propriamente ‘tecnici’ che inducono a ritenere che si stia muovendo per “tentativi ed errori”. E fra i tanti errori, appunto ‘tecnici’, può essere sufficiente richiamare il caso dei cosiddetti esodati. La Ministra Fornero è un’economista che deve la sua reputazione scientifica essenzialmente a studi sul funzionamento del mercato del lavoro. Divenuta Ministro, produce una “riforma pensionistica” che dà luogo a un esito paradossale: a fronte del fatto che, ogni anno, decine di migliaia di lavoratori si pensionano a 50 anni, con l’innalzamento dell’età pensionabile, centinaia di migliaia di lavoratori restano senza stipendio né pensione. La Ministra annuncia che gli “esodati” sono 65 mila, e che, per questi sono disponibili risorse sufficienti per pagare le loro pensioni, salvo poi scoprire che sono 350 mila.
2) Sul piano strettamente economico, si può supporre che l’obiettivo di generare maggiore concorrenza presupponga processi di privatizzazione: i quali, peraltro, sono diffusamente sollecitati dall’Unione Europea e pienamente recepiti nel programma del Governo italiano. Va rilevato, a riguardo, che, per l’esperienza compiuta in Italia almeno nell’ultimo trentennio, l’evidenza empirica disponibile segnala – in modo incontrovertibile – che le privatizzazioni non si associano a un aumento della produzione e tantomeno a un miglioramento della sua qualità. Il solo effetto certo è che i processi di privatizzazione tendono a produrre esiti inflazionistici. Ciò accade a ragione del fatto che, mentre un’impresa pubblica non persegue istituzionalmente l’obiettivo del massimo profitto, potendo anche operare in perdita, un’impresa privata ricarica sui costi di produzione il margine di profitto considerato normale, date le condizioni di mercato nelle quali opera. Anche assumendo (il che è tutto da dimostrare) che l’impresa pubblica sia più inefficiente dell’impresa privata, e che dunque produca con costi di produzione superiori, il ricarico del profitto sui costi di produzione fa sì che i prezzi siano più alti nel caso in cui la produzione sia gestita da imprese private rispetto al caso in cui sia gestita dall’operatore pubblico.
In una condizione nella quale alla continua caduta del prodotto interno lordo si associano incrementi dei prezzi (i prezzi dei beni alimentari sono aumentati del 4.7% nell’ultimo anno) si può stabilire che, almeno in questa fase, l’economia italiana non ha affatto bisogno di privatizzazioni e che, a fronte dei convincimenti del prof. Monti, ci sarebbe semmai urgenza di un maggiore e più incisivo intervento pubblico. Nel dibattito sull’articolo 18, Monti ha ripetutamente dichiarato che le “riforme” vanno fatte senza preclusioni ideologiche: non è il caso di mettere da parte preclusioni ideologiche anche quando si discute del rapporto fra Stato e mercato?
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Spendere per la ripresa
[“Il Nuovo Quotidiano di Puglia” del 17 giugno 2012]
Dovrebbe essere ormai evidente che le politiche di austerità – che il Governo Monti persegue con la massima tenacia – sono inefficaci per l’obiettivo stesso che si propongono, dal momento che proprio a fronte delle massicce riduzioni della spesa pubblica e (soprattutto) del notevole incremento della pressione fiscale, il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato, passando dal 107% del 2007 al 121% del 2011. E neppure queste politiche riescono a ridurre il differenziale fra rendimenti dei titoli del debito pubblico italiani e quelli dei titoli pubblici tedeschi. L’andamento dello spread fra buoni del Tesoro italiani e Bund tedeschi, nel periodo settembre-metà novembre 2011, che ha raggiunto i massimi livelli e ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi, è sostanzialmente uguale, per arco temporale, punti base e andamento, a quello fatto registrare nel periodo compreso fra marzo e maggio 2012 (da 290-291 punti base a 467-469), con un picco di 490 punti base agli inizi di giugno. Le politiche di austerità accentuano, di fatto, la recessione in corso, con effetti di amplificazione dei divari regionali. L’ultimo rapporto della Camera di commercio di Lecce è emblematico in tal senso, laddove si attesta un significativo aumento del tasso di disoccupazione e una contrazione del tasso di crescita di entità superiore alla media nazionale. E’ bene chiarire che questo scenario è molto simile a quello che si registra nella gran parte delle regioni meridionali. Le politiche di austerità accrescono i divari regionali per le seguenti ragioni.
In primo luogo, le imprese meridionali (e salentine) operano prevalentemente su mercati di sbocco locali. La riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce i redditi disponibili e dunque i consumi, riduce conseguentemente i profitti di queste imprese, determinandone il fallimento o incentivando i licenziamenti. In secondo luogo, le imprese meridionali (e salentine) sono di piccole dimensioni, poco internazionalizzate e, salvo rarissime eccezioni, poco innovative. La riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce i mercati di sbocco, accentua il problema del ‘nanismo’ imprenditoriale della gran parte delle imprese localizzate nel Mezzogiorno. Occorre osservare che la riduzione delle dimensioni aziendali costituisce un problema per l’operare di un duplice effetto: al ridursi delle dimensioni d’impresa, si riduce la possibilità di sfruttare economie di scala (con conseguente riduzione dei costi derivante dall’aumento della produzione) e, soprattutto, si riduce il potere contrattuale delle imprese nei confronti del sistema bancario. Non a caso, uno dei principali problemi segnalati dalla Camera di commercio di Lecce riguarda la restrizione del credito.
E’ opportuno, su questo aspetto, sgombrare il campo da un equivoco. La restrizione del credito non dipende affatto da una presunta ‘avidità’ delle banche che, a fronte degli aiuti pubblici ricevuti per ripianare i propri bilanci, rifiutano di assumersi il rischio del finanziamento della produzione e degli investimenti. La restrizione del credito è, per contro, l’effetto di un comportamento razionale (in merito al quale risultano del tutto inutili o fuorvianti i giudizi di valore) che si configura, a sua volta, come un ulteriore effetto perverso delle politiche di austerità. La scelta delle banche di finanziare o meno un progetto di investimento, quantomeno nell’assetto istituzionale italiano, dipende dalla profittabilità attesa dell’investimento stesso e dalle garanzie reali che le imprese possono offrire, nel caso in cui l’investimento non generi profitti tali da consentire alle imprese il rimborso del credito ricevuto. Le imprese di piccole dimensioni sono normalmente ‘razionate’ proprio a ragione del fatto che dispongono di poche garanzie reali, mentre, per contro, le imprese di più grandi dimensioni vengono ritenute “troppo grandi per fallire”. Dal momento che le politiche di austerità contribuiscono a ridurre le dimensioni medie delle imprese meridionali, è del tutto evidente che le banche reagiscono riducendo l’offerta di credito, generando una spirale viziosa che va dalla riduzione dei finanziamenti alla riduzione degli investimenti alla caduta del PIL e del tasso di occupazione.
L’economia salentina sconta questi problemi in misura maggiore rispetto ad altre aree del Mezzogiorno e della Puglia (il PIL pro-capite a Lecce risulta inferiore a quello di Bari e di Taranto) soprattutto a ragione del fatto che le scelte politiche compiute in sede locale negli anni scorsi si sono basate sulla convinzione che un modello di sviluppo che valorizzi le ‘vocazioni naturali’ del territorio (turismo, agricoltura) sia l’unico possibile modello di sviluppo per il Salento. Questa convinzione è stata per molti anni sostenuta da un approccio ‘filosofico’ ai temi della crescita economica, stando al quale il “pensiero meridiano” (e il connesso elogio della lentezza) avrebbe costituito il fattore principale della (presunta) migliore qualità della vita nei territori a bassa industrializzazione. Si è trattato di una scelta politica molto discutibile. Anche se innegabilmente i settori tradizionali contribuiscono – e hanno contribuito – alla crescita economica dell’area, va osservato che l’ostilità delle classi dirigenti locali, negli anni passati (e ancora oggi), verso l’attuazione di politiche industriali finalizzate a potenziare la struttura produttiva locale si è rivelata miope. Nel Rapporto della Camera di Commercio si legge che il PIL provinciale si è ridotto, nel corso dell’ultimo anno, di oltre 5 punti percentuali, nonostante un aumento del 30% delle esportazioni. Le esportazioni hanno riguardato i settori della meccanica, dell’elettronica, della metallurgia e della farmacia: ovvero settori che richiedono investimenti in nuove tecnologie e in ricerca e sviluppo. Sarebbe necessario riflettere su questi dati e interrogarsi sulle motivazioni che hanno spinto la gran parte del sistema industriale locale a ignorare l’esistenza in loco di centri di ricerca nei quali si producono invenzioni il cui impatto sulla crescita dell’economia locale potrebbe essere estremamente significativo. Come scriveva uno dei maggiori meridionalisti del Novecento, Francesco Saverio Nitti, il Mezzogiorno “o sarà industriale, o non sarà”.
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Austerità ed economia criminale
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 giugno 2012]
Dopo un lungo silenzio, il Piano per il Sud voluto dal Ministro Barca riaccende i riflettori sulla mai risolta “questione meridionale”. I problemi dell’economia meridionale si sono notevolmente accentuati a seguito della crisi in corso e delle politiche di austerità che hanno significativamente contribuito ad aggravarli. Fra questi, quello che dovrebbe destare maggiore preoccupazione (e sul quale si sono spese troppe poche parole, e nulla, fin qui, si è fatto) riguarda l’espansione dell’economia irregolare e, ancor più, dell’economia criminale. L’ufficio studi di Unimpresa ha recentemente rilevato che la criminalità organizzata dispone di circa 150 miliardi di euro da riciclare. Un capitale monetario di ingenti proporzioni che trova due destinazioni: prestiti a usura a imprese e famiglie. Si stima, a riguardo, che – per l’Italia nel suo complesso – il sovra indebitamento delle famiglie in Italia, a marzo 2012, è aumentato del 219,9% rispetto allo stesso mese del 2011 e che, in larga misura, questo aumento deriva dalla crescita – stimata nell’ordine del 150% – dei prestiti usurai.
A ciò si aggiunge che il debito medio delle famiglie italiane si aggira intorno ai 43.000 euro e che il debito medio delle piccole imprese è di poco inferiore ai 64.000 euro. Le conseguenze di questo fenomeno sono facilmente prevedibili, dal momento che, di norma, il debito con tassi di interesse usurai diventa progressivamente insostenibile, generando il fallimento di imprese (e l’insolvenza delle famiglie), e la loro acquisizione da parte della criminalità organizzata. Il fenomeno, quando è stato analizzato, è stato imputato quasi esclusivamente alla restrizione del credito, quest’ultimo visto come causa ultima del problema, spesso adducendo un argomento di natura etica per darne una motivazione facilmente divulgabile: le banche sarebbero eccessivamente ‘avare’ e avrebbero beneficiato di finanziamenti pubblici senza produrre alcun beneficio per la crescita economica. Si tratta di una tesi molto opinabile per due ragioni. In primo luogo, le banche non sono affatto avare ma, più semplicemente, registrano (come le imprese) consistenti cali dei profitti: si stima, a riguardo, che le sofferenze nette delle banche italiane hanno raggiunto, nel marzo 2012, l’importo complessivo di 35.5 miliardi di euro, con un incremento di oltre il 50% nel corso dell’ultimo anno. L’aumento delle sofferenze bancarie deriva in larga misura dalla riduzione del valore dei titoli di Stato detenuti da Istituti di credito italiani. In secondo luogo, si può argomentare che la restrizione del credito – per l’economia italiana – è un problema anche connesso alle politiche di austerità, che – peraltro – aggrediscono maggiormente l’economia meridionale e le fasce più deboli della popolazione lì residente.
Va ricordato, a riguardo, che le politiche fiscali restrittive praticate negli ultimi anni hanno penalizzato maggiormente il Mezzogiorno. Su fonte SVIMEZ, si calcola che i trasferimenti pubblici si assestano a circa 356 euro pro-capite nei comuni del Centro-Nord, a fronte dei 330 nei comuni meridionali. A ciò si aggiunge il fatto che, in termini pro-capite, le entrate tributarie sono raddoppiate nei comuni del Centro-Nord e triplicate nei comuni del Mezzogiorno, nel periodo compreso fra il 1991 e il 2010. Ciò a dire che i cittadini meridionali, a dispetto della vulgata, ricevono meno fondi dallo Stato e pagano più imposte rispetto ai residenti nelle aree più ricche del Paese. I nessi esistenti fra politiche di austerità e restrizione del credito, con particolare riferimento al Mezzogiorno, rinviano a un duplice meccanismo.
a) La struttura produttiva meridionale è costituita da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, scarsamente internazionalizzate, che vendono essenzialmente in mercati locali o che operano su subfornitura, producendo beni intermedi utilizzati da imprese collocate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. Le politiche di austerità, sotto forma di contrazione della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale, in quanto riducono i redditi disponibili, riducono, conseguentemente, i consumi, con conseguente riduzione dei margini di profitto. La riduzione delle risorse per l’autofinanziamento della produzione contribuisce a ridurre le dimensioni medie aziendali, o a determinarne il fallimento, così che le politiche di austerità accentuano il problema del nanismo imprenditoriale. Si osservi che le dimensioni d’impresa costituiscono un fattore rilevante per l’accesso al credito, nel senso che le imprese di più piccole dimensioni – in quanto ritenute più esposte al rischio di fallimento – tendono a essere razionate, e, conseguentemente, ciò incentiva il ricorso a prestiti usurai.
b) Le politiche di austerità, in quanto riducono la domanda aggregata e accrescono la disoccupazione (con particolare riferimento alla disoccupazione giovanile), contribuiscono all’erosione dei risparmi e, dunque, alla riduzione dei depositi bancari, accentuando – anche per questa via – la restrizione del credito.
A ciò si può aggiungere una considerazione di carattere generale. A fronte delle molteplici motivazioni che guidano le scelte di finanziamento da parte del sistema bancario, occorre considerare che le banche erogano credito anche tenendo conto delle aspettative in ordine ai profitti che le imprese potranno ottenere e che, a loro volta, le imprese chiedono finanziamenti bancari sulla base delle proprie aspettative di profitto. A parità di costi di produzione, si può ritenere che la contrazione della spesa pubblica e l’aumento dell’imposizione fiscale – dal momento che riducono i ricavi attesi – peggiorano le aspettative, non solo delle imprese ma anche delle banche. Così che quanto più si riduce la spesa pubblica tanto più il sistema bancario è indotto a comportarsi in modo ‘non accomodante’, riducendo i finanziamenti e attivando, per questa via, una spirale perversa che va dalle politiche fiscali restrittive alla riduzione dei finanziamenti a imprese e famiglie, al calo della domanda, della produzione e dell’occupazione. Si è qui in presenza di un circolo vizioso: la riduzione della domanda aggregata incentiva la restrizione del credito bancario, così come la restrizione del credito bancario – riducendo gli investimenti – riduce la domanda aggregata. In tal senso, si può stabilire che le politiche di austerità sono causa ed effetto della contrazione dell’offerta di credito bancario e che, in assenza di misure di contrasto all’economia irregolare, a questo fa seguito la sua espansione.
Questo meccanismo segnala un’ulteriore contraddizione delle politiche di austerità: non soltanto, infatti, il perseguimento del rigore finanziario non riesce a raggiungere l’obiettivo che si prefigge (la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL), ma, poiché alimenta la crescita delle attività irregolari (e, dunque, l’evasione fiscale), riduce il gettito fiscale, rendendo ancora più problematico il raggiungimento dell’obiettivo della stabilità dei conti pubblici. La contraddizione è qui ulteriormente amplificata dal fatto che, poiché le infiltrazioni criminali sono irreversibili (a meno di incisive politiche di contrasto), l’austerità agisce anche come disincentivo all’attrazione di investimenti nel Mezzogiorno. Tutto ciò al netto dei costi umani e sociali associati all’espansione della criminalità organizzata.
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I falsi tecnicismi della spending review (I)
[“MicroMega” online del 29 giugno 2012]
Aristotele concepiva l’Economia come “governo della casa”. Nell’ideare la c.d. spending review (revisione della spesa), il Governo deve evidentemente aver attinto al pensiero aristotelico, indossando i panni di un buon padre di famiglia impegnato a far quadrare i conti. Sul sito della Presidenza del Consiglio si legge che: “con la spending review il Governo è intervenuto analizzando le voci di spesa delle pubbliche amministrazioni, per evitare inefficienze, eliminare sprechi e ottenere risorse da destinare allo sviluppo e alla crescita. La razionalizzazione e il contenimento dei costi sono infatti fondamentali per garantire, da un lato il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, dall’altro l’ammodernamento dello Stato e il rilancio del circuito economico”, e che, nel complesso, la spesa pubblica cosiddetta rivedibile (leggi: tagli) ammonta a quasi 300 miliardi di euro. Nello stesso documento, viene precisato che questo importo “potrebbe servire, per esempio, a evitare l’aumento di due punti dell’IVA previsto per gli ultimi tre mesi del 2012”. I tagli verranno effettuati anche tendendo conto delle numerosissime mail spedite da cittadini italiani, che si sono avvalsi dell’opzione “esprimi la tua opinione”, segnalando sprechi e inefficienze.
Fra queste, si cita il caso di un ospedale nel quale verrebbero tenuti accesi i riscaldamenti anche nel periodo estivo: caso piuttosto inverosimile, sebbene ancora da verificare, dal momento che ragionevolmente sarebbe nell’interesse di tutti coloro che lì lavorano chiedere che i riscaldamenti vengano spenti. A prescindere dall’incidentale “per esempio” al quale il Governo fa riferimento (non essendo noto a cosa si sia pensato in alternativa all’aumento dell’IVA), occorre innanzitutto rilevare – in linea generale – che è assai arduo ritenere che con 300 miliardi di minori spese si possa generare sviluppo e crescita, soprattutto considerando che questi risparmi verranno utilizzati per accrescere l’avanzo primario, potenziando – come si legge ancora nel comunicato governativo – “la linea di risparmio seguita dal Governo nei primi mesi di attività”. Il documento, nella sezione di analisi, parte da un assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania.
Il documento ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una tesi opinabile, per due ragioni.
1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE, in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male.
2. Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica e non dal rapporto spesa/PIL, che è l’indicatore al quale – per i vincoli europei – occorre far riferimento ai fini del rispetto del vincolo del bilancio pubblico. D’altra parte, l’andamento del valore assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva – su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Può essere sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori sociali.
La spending review interviene soprattutto sulle spese della pubblica amministrazione e sulle spese sanitarie. Si stima, a riguardo, che, entro il 31 dicembre 2012, verranno soppresse circa 11mila sedi ospedaliere. L’obiettivo appare chiaro, anche considerando alcune significative dichiarazioni dei Ministri di questo Governo (come è noto, “anche gli statali siano licenziabili” è il leitmotiv del Ministro Fornero): ridurre (ulteriormente) i presunti privilegi dei lavoratori del settore pubblico, come fine in sé e come strumento per depotenziare (ulteriormente) il Welfare, e contenere le spese per la sanità pubblica, riducendo la quantità e la qualità dei servizi offerti, così da lasciar spazio a imprese private anche in questo settore. Su quest’ultimo aspetto, le conseguenze sono facilmente prevedibili: poiché le spese delle famiglie per servizi sanitari sono ovviamente considerate di primaria importanza, la riduzione dell’offerta pubblica – e la conseguente necessità di pagare i servizi sanitari – non può che tradursi in una (ulteriore) decurtazione dei redditi, soprattutto dei redditi più bassi e soprattutto nelle aree del Paese – Mezzogiorno in primo luogo – dove i salari medi sono più bassi. Così come la “razionalizzazione” della spesa delle pubbliche amministrazioni può facilmente tradursi in un (ulteriore) peggioramento della qualità dei servizi offerti, se non si accoglie l’eroica tesi – peraltro tutta da dimostrare – secondo la quale è solo rendendo le risorse sempre più scarse che si incentiva a farne un uso efficiente. Sulla questione della licenziabilità dei dipendenti pubblici, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco. Il Testo Unico del 2001 ha sostanzialmente “privatizzato” il rapporto di lavoro nella Pubblica Amministrazione, rendendo esplicitamente possibili i licenziamenti collettivi e non escludendo i licenziamenti individuali. Dunque, la normativa vigente già prevede la possibilità di licenziare dipendenti pubblici. Seguendo la linea Fornero, occorrerebbe fare un passo in più, ovvero incentivare le amministrazioni pubbliche a licenziare. A che fine? La sola ratio economica che può porsi alla base di questa proposta consiste nell’imporre – come nel settore privato – un dispositivo di ‘disciplina’ che incentivi i dipendenti pubblici a erogare maggiore produttività[1]. Il problema, in questo caso, è che, a differenza del settore privato, non è chiaro chi e sulla base di quali criteri dovrebbe licenziare. Al di là della percezione diffusa secondo la quale molti settori della Pubblica Amministrazione funzionano male, il punto teorico che occorre sottolineare riguarda la difficoltà (se non l’impossibilità) di costruire criteri razionali – o anche solo ragionevoli – che orientino le decisioni di licenziamento nel settore pubblico[2].
Vista in quest’ottica, la spending review ha ben poco a che vedere con un’operazione tecnicamente neutrale finalizzata a ridurre gli sprechi. Si tratta di un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del Welfare State che si intende legittimare con l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.
[1] Ma, anche ammesso che questo effetto si verifichi, l’effetto collaterale potrebbe consistere in un calo dei consumi da parte dei lavoratori pubblici, posti in una condizione di maggiore incertezza in ordine al loro reddito futuro e, comunque, anche a fronte dei licenziamenti, ai disoccupati va corrisposto un sussidio, con effetti incerti sul risparmio dello Stato.
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I falsi tecnicismi della Spending review (II)
[“Il Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 luglio 2012]
“Spreco” è forse il termine più ricorrente nel dibattito politico italiano degli ultimi anni, eppure il suo esatto significato è piuttosto oscuro. Non si tratta, in questo caso, di avventurarsi in una disquisizione linguistica, ma di interrogarsi sugli effetti che l’uso di questo termine ha sulle principali scelte di politica economica. Il recente provvedimento sulla c.d. spending review (revisione di spesa) intende legittimarsi precisamente intorno a questa parola d’ordine, dato l’assunto (tutto da dimostrare) che tutto ciò che è pubblico è fonte di spreco, inefficienza, corruzione. La chiusura di ospedali, il licenziamento di funzionari pubblici, la decurtazione di fondi per la ricerca, la soppressione o l’accorpamento di Enti considerati inutili, la riduzione del numero di Province asseconda appunto il progetto dichiarato di riduzione degli sprechi. Il fine dichiarato è rendere la pubblica amministrazione più efficiente: il risultato consiste nell’ulteriore drammatica manovra di contrazione della spesa pubblica, con inevitabile aumento della disoccupazione e minore quantità (e qualità) di beni e servizi offerti dallo Stato, ovvero riduzione del potere d’acquisto delle famiglie. Si calcola che le misure adottate generano un effetto di decurtazione della spesa pari a 4,5 miliardi di euro per 2012, 10,5 miliardi per il 2013 e 11 miliardi per il 2014, con particolare riguardo ai tagli dei servizi sanitari (circa 13 miliardi di euro). Il tutto senza ridurre l’aumento dell’IVA, che verrà posticipato e che ammonterà a circa 4 miliardi di euro, in una condizione nella quale – in assenza di queste misure – il tasso di crescita previsto per il 2013 era di segno negativo, nell’ordine del meno 2-2.5%. Giorgio Squinzi, Presidente di Confindustria, ha definito questa manovra macelleria sociale. Difficile dargli torto.
Va rilevato che il provvedimento di revisione di spesa parte da un assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania.
Il documento ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una tesi opinabile, per due ragioni.
1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE, in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male.
2. Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica. L’andamento del valore assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva – su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Può essere sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori sociali.
La propaganda governativa fa gioco sullo stato di emergenza e, in larga misura, lo crea, diffondendo il timore di attacchi speculativi determinati da un eccessivo debito pubblico e il conseguente possibile fallimento dello Stato italiano. Occorre preliminarmente rilevare che un elevato debito pubblico non costituisce in sé un problema, se è data alla banca Centrale la possibilità di acquistare titoli di Stato non acquistati da privati. In altri termini, la teoria economica, ad oggi, non è in grado di stabilire il limite di sostenibilità del debito pubblico, se non rinviandolo a fattori extra-economici che, per loro natura, attengono alla sfera delle decisioni politiche. Non si spiegherebbe diversamente per quale ragione, a titolo esemplificativo, l’economia giapponese non ha un problema di eccesso di debito pubblico con un rapporto debito/PIL che supera il 220% (a fronte del 120% italiano).
E’ stato ampiamente sperimentato che le politiche di austerità (riduzioni della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale) sono del tutto inefficaci per l’obiettivo che si propongono, dal momento che, riducendo l’occupazione e la base imponibile, aumentano semmai il rapporto debito/PIL (passato dal 107% del 2007 a oltre il 120% di oggi). A fronte di questo scenario, il prof. Monti, in polemica con il Presidente di Confindustria, ritiene che sono le critiche all’operato del suo Governo a influenzare o determinare l’andamento del differenziale dei tassi di interesse fra titoli italiani e bund tedeschi. Si tratta di una tesi piuttosto sorprendente, soprattutto per le implicazioni profondamente illiberali che ne deriverebbero. Se il Presidente del Consiglio la ritiene vera, dovrebbe, per conseguenza, limitare (o abolire, o anche solo sospendere) il diritto di critica. Sarebbe un ulteriore sacrificio necessario per mettere i conti pubblici ‘in ordine’? Lo stesso prof. Monti, in precedenti dichiarazioni, ha dato risposta: la “credibilità” internazionale del Governo dipenderebbe, per contro, proprio dalla sua impopolarità (tesi esattamente contraria a quella utilizzata in polemica con il Presidente di Confindustria). E’ chiedere troppo al Presidente del Consiglio di chiarire ai cittadini italiani cosa esattamente pensa a riguardo, soprattutto per far capire loro per quale reale ragione devono fare sacrifici?
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Cosa fa (e dove sbaglia) il governo per i giovani precari e istruiti
[in MicroMega online del 27 luglio 2012]
Mentre si moltiplicano le voci che danno per imminente la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea, è partita la c.d. fase 2 della politica economica del Governo (la fase delle politiche per la crescita), attraverso il “Decreto Sviluppo” recentemente approvato. Uno dei tasselli più rilevanti riguarda le misure di contrasto alla disoccupazione intellettuale, laddove di dispone che: “a tutte le imprese, indipendentemente dalla forma giuridica, dalle dimensioni aziendali, dal settore economico in cui operano, nonché dal regime contabile adottato, è concesso un contributo sotto forma di credito d’imposta del 35%, con un limite massimo pari a 200 mila euro annui ad impresa, del costo aziendale sostenuto per le assunzioni a tempo indeterminato di: a) personale in possesso di un dottorato di ricerca universitario conseguito presso una università italiana o estera se riconosciuta equipollente in base alla legislazione vigente in materia; b) personale in possesso di laurea magistrale in discipline di ambito tecnico o scientifico”.
Questa norma nasce dall’urgenza di provare a porre rimedio al drammatico aumento della disoccupazione giovanile (al 37% su fonte ISTAT), soprattutto riguardante giovani con elevato livello di istruzione. Il Rapporto Almalaurea del 2012 fotografa, a riguardo, uno scenario allarmante. A un anno dal conseguimento della laurea, il reddito medio è di circa 1100 euro al mese (il 13% in meno rispetto a dieci anni fa), e, dopo dieci anni di lavoro post-laurea, si assesta a soli 1600 euro al mese Il tasso di occupazione a un anno dal conseguimento del titolo, fra gli studenti laureati in un corso di laurea triennale nel 2010, è del 68,6%, con una flessione di 9 punti percentuali rispetto a quattro anni fa, ed è di circa il 56% per chi ha conseguito una laurea specialistica. Nell’UE a 27, l’Italia è l’unico Paese nel quale si è ridotta l’incidenza delle professioni più qualificate sul totale degli occupati, facendo registrare – anche su questo aspetto – un rilevante incremento delle divergenze all’interno dell’Eurozona, che Almalaurea data almeno a partire dal 2004, come si evince dalla fig.1.
Si registra anche che una quota significativa di diplomati si iscrive in Università estere (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-continuita-gelmini-monti/).
La norma del Decreto Sviluppo che intende contrastare queste tendenze solleva non poche perplessità, le quali, in larga misura, derivano dal tentativo di coniugare rigore e crescita e da un’impostazione di politica economica interamente declinata dal lato dell’offerta. Ciò per le seguenti ragioni:
a) Le imprese italiane (e ancor più meridionali), salvo rare eccezioni, sono imprese di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e poco innovative. In tal senso, non esprimono domanda di lavoro qualificato (http://www.roars.it/online/?p=9255). In questo contesto, la disposizione in questione è molto rischiosa: poiché alle nostre imprese non interessa assumere dottori di ricerca (ma certamente interessa ottenere crediti d’imposta), cosa assicura che gli assunti non vengano utilizzati per mansioni inferiori a quelle delle quali dispongono? Ovvero, cosa assicura che questa norma non incentivi la sottoccupazione intellettuale, regalando fondi pubblici alle imprese? In assenza di dispositivi di controllo (che evidentemente avrebbero costi estremamente elevati), ci si può, infatti, ragionevolmente attendere che le imprese assumano personale altamente qualificato, per ottenere sgravi fiscali, per poi destinarlo a svolgere mansioni di qualità inferiore rispetto a quelle per le quali è stato formato, con effetti nulli sul tasso di crescita della produttività.
b) Come più volte ribadito dal Presidente di Confindustria, le imprese italiane hanno bisogno di un ampliamento dei mercati di sbocco interni, oltre che di maggiore facilità di accesso al credito. In altri termini (ed è anche per questo motivo che Giorgio Squinzi ha bocciato la riforma del mercato del lavoro del Ministro Fornero), poiché la normativa sulla flessibilità del lavoro, prodotta nel corso dell’ultimo ventennio, ha assicurato alle imprese una rilevante crescita del potere contrattuale nei confronti dei lavoratori, l’imprenditoria italiana non necessita, nelle condizioni attuali, di disposizioni che le consentano ulteriori riduzioni dei salari (e maggiore ‘flessibilità’), ma semmai di provvedimenti che accrescano la domanda interna, dal momento che la crescita della domanda interna comporta maggiori vendite e maggiori ricavi. Con ogni evidenza, il Decreto Sviluppo soffre di questa contraddizione: da un lato, la crescita economica – anche per le associazioni datoriali – non può essere generata né dalla spending review, né da ulteriori “riforme” del mercato del lavoro e tantomeno da riduzioni dei fondi destinati alla ricerca, dall’altro le politiche di austerità si muovono nella direzione esattamente contraria.
c) Il Decreto Sviluppo pare muoversi anche in direzione opposta rispetto alle politiche formative di questo (e del precedente) Governo, dal momento che, incentivando assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori altamente qualificati, incentiva, per conseguenza, il conseguimento di lauree magistrali e dottorati di ricerca. Come è noto, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha recentemente promosso un questionario sul valore legale del titolo di studio, con l’obiettivo – che è parso subito evidente (http://www.roars.it/online/?p=7567) – di procedere alla sua abolizione. Ci trova, di fatto, di fronte a un curiosum per il quale due Ministri di uno stesso Governo, pressoché contemporaneamente, si adoperino – l’uno – perché siano assunti laureati e – l’altro – perché la laurea non abbia più valore legale.
Vi sono, in sostanza, buone ragioni per ritenere che le politiche di contrasto alla disoccupazione intellettuale perseguite con crediti d’imposta siano inefficaci, e che incorrano nel rischio di disperdere risorse pubbliche senza alcun risultato apprezzabile di crescita della produttività. E vi sono buone ragioni per ritenere che ciò che, per contro, andrebbe fatto è semmai cominciare ad avviare politiche industriali che contrastino il nanismo imprenditoriale e che, anche tramite l’aggregazione di imprese, incentivino l’innovazione. In tal senso, il problema (correttamente) individuato nel Decreto Sviluppo – ovvero, la preoccupante crescita della disoccupazione intellettuale – trova soluzione non nell’incentivo ad assumere lavoratori qualificati (dal momento che, nelle condizioni date, ciò potrebbe interessare un numero esiguo di imprese), ma nella riqualificazione della domanda di lavoro espressa dalle imprese.
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L’ILVA e il “ricatto occupazionale” del Mezzogiorno
[in “MicroMega” online del 29 agosto 2012]
La vicenda ILVA mette in luce i più evidenti limiti della gestione della politica economica italiana: l’incapacità di programmare interventi di lungo termine, essendo il problema della non sostenibilità ambientale degli stabilimenti tarantini ben noto da tempo; la pressoché totale incapacità di far fronte al conflitto di obiettivi fra la salvaguardia di posti di lavoro e la tutela della salute e dell’ambiente; l’incapacità di far fronte all’emergenza senza generare conflitti istituzionali. E soprattutto si tratta di una vicenda che ben evidenzia il fatto che, da almeno due decenni, la politica economica in Italia – intenzionalmente o meno – favorisce l’accentuarsi degli squilibri regionali.
Il rischio di chiusura dell’ILVA è, ad oggi, assai probabile a seguito della recente pronuncia del GIP di Taranto, Patrizia Todisco, secondo la quale la produzione delle acciaierie tarantine va immediatamente fermata, perché causa dell’emergenza sanitaria e ambientale che investe la città di Taranto e un’ampia area circostante.
Una indagine dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, resa pubblica lo scorso anno, ha evidenziato, nell’area considerata, un eccesso di mortalità tra il 10 e il 15%, un eccesso di circa il 30% per tumore del polmone, un eccesso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie respiratorie acute, un aumento del 10% nella mortalità per tutte le malattie dell’apparato respiratorio, un eccesso del 15% tra gli uomini e 40% nelle donne della mortalità per malattie dell’apparato digerente e un incremento di circa il 5% dei decessi per malattie del sistema circolatorio soprattutto tra gli uomini. Peraltro, che lo stabilimento siderurgico di Taranto fosse uno dei più inquinanti d’Europa lo si sapeva da quasi venti anni. Da quando, cioè, la società del gruppo Riva, con la privatizzazione dell’azienda avvenuta nel 1995, rilevò gli impianti dell’Italsider, con l’obbligo di metterli in sicurezza e di eliminare gli scarichi inquinanti nel Mar Piccolo. Il problema era dunque ampiamente noto e autorevolmente certificato, ma, pure a fronte dell’inaudita gravità del fenomeno, poco o nulla si è fatto, e poco o nulla si è detto e scritto sui principali media nazionali.
E’ bene chiarire, a riguardo, che, in linea generale e in assenza di interventi esterni, un’economia capitalistica di mercato soggiace sempre alla fondamentale contraddizione fra la sua riproduzione (che presuppone la continua crescita della produzione di merci) e la tutela della salute e dell’ambiente (che, per contro, presuppone una costante attenzione ai vincoli posti dalla disponibilità di risorse naturali e dal rispetto della salute). Ma è opportuno anche chiarire che questa contraddizione – che, appunto, ha valenza generale – assume connotati ben più rilevanti in Italia – e ancor più nel Mezzogiorno – rispetto alla gran parte dei Paesi industrializzati. L’Ufficio studi della CGIL rileva che, fra i Paesi europei, l’Italia è quello con minore propensione all’investimento in tecnologie ecosostenibili: posta pari a cento la quota delle esportazioni italiane di fonti di energia rinnovabili nel commercio internazionale alla fine degli anni novanta, oggi l’Italia ha perso quasi 30 punti percentuali (a fronte della sostanziale tenuta dell’UE a 15), mentre ha visto crescere la propria quota di importazioni. Il disinvestimento in ricerca e sviluppo da parte dello Stato, e la rinuncia a porre in essere politiche industriali, nonché la prevalenza di imprese di piccole e medie dimensioni nel settore privato (con la conseguente difficoltà di accedere a finanziamenti per le innovazioni) spiegano in larga misura questo fenomeno.
Non vi è dubbio che l’ipotesi di chiusura degli stabilimenti ILVA di Taranto è inquietante, sia perché sancirebbe la definitiva desertificazione produttiva del Mezzogiorno, sia soprattutto per l’enorme aumento del tasso di disoccupazione che ne deriverebbe, con prevedibile esplosione del conflitto sociale. Sono queste le preoccupazioni del Governo Monti e dei Ministri andati a Taranto per provare a risolvere politicamente la crisi aziendale. Il problema viene declinato come inerente al doppio ‘ricatto’ occupazionale e ambientale, mettendo in evidenza la tesi (ovvia) stando alla quale la riconversione dell’attività produttiva in attività ecosostenibile metterebbe fine al caso. E’ una tesi ovvia solo a condizione di assumere (il che non è stato, e non è) che sia nell’interesse di un’impresa privata assumere i costi della riconversione produttiva. Si tace sul fatto palese che un’impresa privata non ha alcun interesse a risolvere problemi di esternalità negative e che, come evidenziato nella gran parte della letteratura economica, la soluzione di questi problemi rinvia a interventi dello Stato, anche sotto forma di nazionalizzazione. Si tace anche su un aspetto sul quale occorrerebbe riflettere per mettere meglio in evidenza i termini del problema, ovvero: quanto l’ILVA contribuisce allo sviluppo economico dell’area sulla quale insiste?
Si consideri che a Taranto viene prodotto oltre il 45% dell’intera produzione di acciaio italiana e che, nell’eventualità di chiusura degli stabilimenti tarantini, dovrebbero chiudere anche le acciaierie di Novi Ligure e Genova, che, non disponendo di impianti a caldo (e, dunque, producendo con minore impatto ambientale), dipendono direttamente dalla produzione tarantina. Si consideri anche che la riduzione della produzione di acciaio avrebbe rilevanti ricadute, in particolare, sulla produzione di automobili ed elettrodomestici. E’ vero che la produzione dell’ILVA contribuisce per il 75% circa al PIL della provincia di Taranto, ma è anche vero che – come drammaticamente emerso in queste settimane – ciò avviene a un prezzo altissimo e difficilmente quantificabile (i danni all’ambiente e alla salute). Si calcola, a riguardo, che fra le 10.000 industrie più inquinanti d’Europa, l’ENEL “Federico II” di Brindisi e l’ILVA di Taranto sono fra le prime 50. Gli impianti con maggiore impatto ambientale sono, nella gran parte dei casi, collocati nelle periferie d’Europa, a ragione del fatto che, essendo elevato in quelle aree il tasso di disoccupazione, è più credibile il “ricatto occupazionale”, ovvero è più semplice assumere lavoratori disposti a rischiare infortuni o malattie sul lavoro con salari bassi e in riduzione. Letta in quest’ottica, la vicenda ILVA pare costituire un’ulteriore testimonianza del perverso rapporto di dipendenza che rende funzionale la devastazione ambientale del Mezzogiorno alla crescita dell’industria settentrionale e delle aree centrali dello sviluppo capitalistico.
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A chi serve la povertà
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 settembre 2012]
L’ultima indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane fa registrare che, dal 2006 al 2010, la povertà è aumentata di 6 punti percentuali fra chi ha meno di 45 anni, è cresciuta poco nella fascia d’età compresa fra i 45 e i 65 anni, e si è ridotta al di sopra di questa età. La motivazione è agevolmente comprensibile. Gli individui di età inferiore ai 45 anni sono, nella grandissima parte dei casi, collocati in condizione di disoccupazione (e, spesso, di sottoccupazione intellettuale) o lavorano con contratti precari. Si tratta di due fenomeni che occorre tener distinti, a ragione del fatto che le cause che li determinano sono diverse. La precarizzazione del lavoro si è resa possibile a seguito di una lunga serie di provvedimenti legislativi finalizzati a “riformare” il mercato del lavoro, a partire almeno dagli anni Novanta. La Legge 30/2003 (la c.d. Legge Biagi) ha dato una eccezionale accelerazione a questo processo e la sostanziale abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – fortemente voluto dalla Ministra Fornero – ha sancito il definitivo superamento delle pur minime garanzie delle quali i lavoratori dipendenti potevano godere. Il notevole aumento della disoccupazione giovanile è in larga misura imputabile alle politiche di austerità, messe in atto negli ultimi anni. La riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale hanno disincentivato (e continuano a disincentivare) le assunzioni, in una condizione nella quale le aspettative imprenditoriali continuano a deteriorarsi.
Il fatto che gli individui più anziani non si siano impoveriti trova la sua causa nelle elevate retribuzioni medie che hanno percepito negli anni lavorativi, in fasi nelle quali – soprattutto in virtù della crescente spesa pubblica – l’economia italiana ha sperimentato elevati tassi di crescita. Va, tuttavia, precisato che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile, erodendo i risparmi delle famiglie dalle quali i giovani disoccupati provengono, avrà prevedibilmente ricadute negative sul reddito medio degli individui di età superiore ai 65 anni.
E’ bene chiarire che la povertà non è un problema che rientra (esclusivamente) nella sfera morale; ovvero non è (solo) per ragioni di equità che si richiede un impegno delle istituzioni politiche per farvi fronte. L’esistenza di povertà diffusa ha anche effetti negativi sul tasso di crescita, in considerazione del fatto che una forza-lavoro con basso reddito è scarsamente produttiva. Come certificato dall’ISTAT, la produttività del lavoro in Italia, a partire dai primi anni Duemila, risulta stazionaria e in sensibile declino a partire dagli anni settanta. Si registra anche che nei periodi nei quali i salari sono stati più alti – ed è stato più incisivo l’intervento pubblico in economia, per il potenziamento delle reti di welfare – è risultata maggiore la produttività del lavoro. Esiste, dunque, un nesso fra povertà e produttività, che può essere razionalizzato come segue.
1) Una condizione di povertà assoluta – derivante da redditi percepiti inferiori al livello di sussistenza – è associata a condizioni di malnutrizione, che, a sua volta, generano un basso potenziale produttivo dei lavoratori. Si osservi che, stando all’evidenza empirica, la povertà nutrizionale non è più solo tipica dei Paesi sottosviluppati, ma sta drammaticamente crescendo anche nei Paesi industrializzati e, fra questi, in Italia e ancor più nel Mezzogiorno.
2) Il crescente impoverimento delle famiglie italiane si traduce anche in minore scolarizzazione, come testimoniato dal notevole calo delle immatricolazioni nelle Università italiane. Dunque, maggiore povertà implica minore accumulazione di capitale umano e, anche in questo caso, minore dotazione di capitale umano implica minore potenziale produttivo della forza-lavoro.
3) In una condizione di progressiva riduzione del welfare, il problema è notevolmente accentuato dalla difficoltà, da parte delle famiglie più indigenti, di accedere a servizi sanitari efficienti. Il che determina – anche per questa via – peggiori condizioni di salute e, dunque, minore produttività.
A ciò si aggiunge un problema derivante dalla distribuzione anagrafica dell’indigenza. Come testimoniato da numerose ricerche condotte soprattutto in ambito psicologico, la produttività del lavoro decresce sensibilmente al crescere dell’età, sia a ragione dell’affievolirsi delle abilità cognitive, sia a ragione della crescente difficoltà – per gli individui adulti – di adattarsi all’avanzamento tecnico, ovvero per fenomeni che attengono all’obsolescenza intellettuale.
La spirale viziosa che si innesca è così riassumibile. I lavoratori poveri sono poco produttivi. Le imprese, se li assumono, accordano loro bassi salari. I bassi salari contribuiscono a rendere ancor meno produttivi i lavoratori, generando una condizione per la quale coloro che versano in condizioni di povertà, per l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato, tendono a diventare sempre più poveri. La malnutrizione, la riduzione della dotazione di capitale umano, la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e l’invecchiamento della popolazione sono fattori di massima rilevanza nel frenare la crescita della produttività e, dunque, la crescita economica.
Il Presidente dell’ISTAT ha recentemente denunciato, in un’audizione al Parlamento italiano, la pressoché totale inesistenza di interventi di contrasto al crescente impoverimento di quote crescenti della popolazione italiana. L’inerzia governativa, in questo campo, ha una sua ragion d’essere. La struttura produttiva italiana è composta, salvo rarissime eccezioni, da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco internazionalizzate. Esse operano in un contesto di ‘globalizzazione’ che impone loro di competere attraverso compressione dei costi di produzione (e dei salari, in primo luogo). La ‘globalizzazione’ tende a ridurre l’orizzonte temporale nel quale le imprese pianificano i loro investimenti, rendendo le imprese più ‘miopi’, e incentivando strategie di ‘hit and run’: si effettuano investimenti nei Paesi nei quali i costi di produzione sono bassi, si acquisiscono profitti e si destinano i profitti ottenuti in altri Paesi (o si minaccia di farlo), innescando un meccanismo di concorrenza fra Stati al ribasso delle retribuzioni, e al ribasso di tutti i vincoli (e i costi) connessi alla libertà d’impresa. In tal senso, una condizione di povertà diffusa risulta pienamente funzionale alla riproduzione capitalistica, quantomeno nei Paesi periferici e soprattutto quando questa si dispiega in un assetto istituzionale nel quale l’intervento dello Stato è pregiudizialmente precluso.
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La “riforma” del mercato del lavoro del 2012
[ “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 28 settembre 2012]
Il neo-Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, l’ha definita una “boiata”, i sindacati provano in ogni modo a osteggiarla, non piace alla gran parte dei partiti politici presenti in Parlamento, eppure la “riforma” del mercato del lavoro voluta dal Ministro Fornero si deve fare. Si tratta di una “riforma” che, considerata nel suo complesso, dà un ulteriore impulso alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, a fronte del fatto che – come attestato dall’OCSE – l’Italia è, fra i Paesi industrializzati, quello che ha sperimentato la maggiore accelerazione della riduzione delle tutele del lavoro dipendente nel corso degli ultimi dieci anni. Fin dal Rapporto Growing unequal del 2008, l’OCSE ha messo in evidenza che le politiche di precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione e hanno il solo effetto di ridurre la quota dei salari sul PIL. La domanda che occorre porsi è dunque: se questa “riforma” non piace alle parti sociali, se le politiche di precarizzazione del lavoro non hanno mai generato significativi aumenti dell’occupazione, per quale ragione il Ministro Fornero la ritiene assolutamente necessaria?
A ben vedere, è molto difficile attendersi un aumento dell’occupazione dalla “riforma” Fornero. La “riforma” viene propagandata come funzionale a migliorare la condizione giovanile, ma è proprio su questo aspetto che rischia di produrre più danni che benefici. Ciò a ragione di una prima motivazione, sotto molti aspetti, ovvia: è, di norma, preferibile un impiego con contratto a tempo indeterminato piuttosto che un impiego con contratto a tempo determinato.
La diffusione di contratti atipici può costituire un forte disincentivo, proprio per i lavoratori più giovani, a offrirsi nel mercato del lavoro, laddove dispongano di redditi non da lavoro. Se si accoglie questa tesi, l’immediato corollario consiste nel fatto che l’ulteriore precarizzazione del lavoro può contribuire ad ampliare la platea dei lavoratori ‘scoraggiati’ e dei c.d. “Neet” (Not in education, employment or training). I primi sono coloro che, a fronte di un elevato tasso di disoccupazione (e, dunque, di una bassa probabilità di trovare impiego), e poiché la ricerca del lavoro comporta costi, hanno smesso di cercare lavoro; i secondi solo individui di età compresa fra i 20 e i 30 anni, che non lavorano, non studiano, non seguono percorsi di formazione. Si consideri, a riguardo, che l’ISTAT stima un tasso di disoccupazione giovanile circa pari al 30%, un aumento della percentuale di lavoratori scoraggiati di oltre il 50% dal 2004, e una percentuale prossima al 25% di giovani totalmente inattivi. A ciò si aggiunge il fatto che i salari medi in Italia sono di circa il 35% inferiori alla media europea. Poiché la propensione al risparmio delle famiglie italiane è (o almeno è stata) relativamente elevata, di fronte alla prospettiva di assunzioni a tempo determinato con bassi salari e molto spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale, può rivelarsi razionale sopravvivere attingendo ai risparmi delle famiglie d’origine. La precarizzazione del lavoro può quindi contribuire a rendere ancora più duale il mercato del lavoro italiano: non nel senso convenzionale, secondo il quale il dualismo riguarda la contrapposizione fra lavoratori precari (di norma giovani) e lavoratori iperprotetti (di norma più anziani), ma nel senso di accentuare l’immobilità sociale. Coloro che provengono da famiglie che dispongono di risparmi elevati, possono permettersi di aspettare (o di emigrare), disponendo, per questa via, di un elevato potere contrattuale, a fronte del fatto che chi proviene da famiglie a basso reddito è costretto ad accettare la prima offerta di posto di lavoro. Che, in particolare nel Mezzogiorno, è quasi sempre un’offerta di impiego irregolare o – nella migliore delle ipotesi – regolare, ma in condizioni di sottoccupazione intellettuale e di bassi salari. E’ opportuno rilevare che, anche per l’operare di questi effetti, il grado di immobilità sociale in Italia è il massimo fra i Paesi OCSE, insieme a Gran Bretagna e Stati Uniti, ovvero insieme a Paesi che hanno storicamente per primi sperimentato politiche di intensa deregolamentazione del mercato del lavoro.
Per quanto attiene alla domanda di lavoro espressa dalle imprese, le politiche di ‘flessibilità’ vengono normalmente motivate con l’ipotesi stando alla quale è solo sapendo di poter licenziare che le imprese assumono. In linea generale, si tratta di una proposizione molto discutibile, in quanto fa dipendere le decisioni di assunzione e licenziamento unicamente dalla normativa vigente in materia di disciplina del mercato del lavoro. Si tratta poi di una tesi che – proprio per quanto sostengono le associazioni datoriali – è, oggi, per così dire fuori contesto. La riduzione consistente delle assunzioni (e l’enorme numero di licenziamenti) deriva sostanzialmente da tre fattori, sui quali la “riforma” Fornero non agisce per nulla: l’elevato cuneo fiscale (ovvero la differenza fra salario lordo e salario netto), la bassa domanda aggregata e, non da ultimo, la restrizione del credito. In tal senso, alle imprese italiane non interessa poter licenziare con maggiore facilità: interessa poter vendere i propri beni e servizi (il che presuppone politiche di espansione della domanda interna) e, soprattutto – ma non solo – nel Mezzogiorno, interessa avere più facile accesso al credito bancario. Le perplessità di Confindustria sulle nuove misure di agevolazione dei licenziamenti derivano dal fatto che le imprese italiane, nel corso dell’ultimo ventennio, hanno acquisito un potere contrattuale enormemente superiore alla loro controparte e non è certo la presunta rigidità del mercato del lavoro a impedire loro di licenziare. A pensare che la flessibilità crei nuovi posti di lavoro è rimasta, pressoché sola, il nostro Ministro del Lavoro, che – al di là delle ‘raccomandazioni’ europee – sembra muoversi secondo schemi teorici che possono funzionare bene in un’aula universitaria, ma che possono creare molti danni se applicati nell’economia reale.
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Nord e Sud nel SVIMEZ 2012
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 3 ottobre 2012]
Il Rapporto SVIMEZ 2012 certifica che la crescita economica del Mezzogiorno è, da oltre un decennio, inferiore a quella del Centro-Nord, che il tasso di occupazione è di gran lunga inferiore al Sud e che, nell’ultimo biennio in particolare, i trasferimenti pubblici sono andati prevalentemente a beneficio delle regioni più ricche del Paese. A ciò si aggiunge che il PIL pro-capite nel Mezzogiorno è notevolmente inferiore a quello del resto d’Italia.
Il continuo impoverimento delle regioni meridionali è imputabile, schematicamente, a due ordini di ragioni.
1) Come ampiamente documentato su basi teoriche ed empiriche, un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente a produrre crescenti divergenze fra aree ricche e aree povere. Ciò accade a ragione di numerosi fattori, due dei quali sono di primaria rilevanza.
In primo luogo, le aree ricche sono quelle dove i salari sono relativamente alti, a fronte del fatto che le aree povere sono quelle dove i salari sono più bassi e il tasso di disoccupazione è più alto. In tali circostanze, diventa rilevante l’incentivo a emigrare e, come registrato anche dall’ultimo Rapporto SVIMEZ, le nuove migrazioni dal Mezzogiorno riguardano principalmente individui giovani e altamente secolarizzati.
Le emigrazioni intellettuali si associano a un trasferimento di produttività a vantaggio delle aree ricche e, per converso, alla perdita di potenziale produttivo per le aree che esportano forza-lavoro, generando, attraverso questo meccanismo, un aumento della produzione nelle aree con più alto PIL pro-capite e la contestuale riduzione della produzione nelle aree più povere. In più, i giovani con elevata scolarizzazione, ovvero la gran parte della forza-lavoro che emigra, esprimono una propensione al consumo più alta rispetto a quella espressa da individui di età più avanzata. Ne segue che la modifica della composizione anagrafica del Mezzogiorno ha effetti anche sulla distribuzione della domanda fra macro-aree, a vantaggio del Nord. Occorre osservare, a riguardo, che sebbene le emigrazioni intellettuali dal Mezzogiorno costituiscono ancora un fenomeno di entità rilevante, la domanda di lavoro espressa dalle imprese settentrionali tende a rivolgersi a lavoratori extra-comunitari, a ragione dei più bassi salari richiesti e di una produttività non molto inferiore a quella dei lavoratori settentrionali e meridionali. Questo dato costituisce un ulteriore segnale di allarme, dal momento che, se la tendenza è questa, ai giovani meridionali – in una prospettiva di breve-medio periodo – sarà anche (almeno parzialmente) preclusa la strada delle emigrazioni.
In secondo luogo, le imprese tendono a collocarsi nelle aree nelle quali sono maggiori i mercati di sbocco e dove è più alta la produttività del lavoro. In tal senso, si istituisce un nesso (perverso per il Mezzogiorno) stando al quale le emigrazioni intellettuali – in quanto accrescono la produttività e i consumi nelle aree più ricche – incentivano l’agglomerazione di imprese in quelle aree.
2) Le politiche di austerità, messe in atto negli ultimi anni sotto forma di riduzione della spesa pubblica e soprattutto di aumento dell’imposizione fiscale, oltre a generare rilevanti effetti recessivi, contribuiscono anche ad accentuare i divari regionali. Le imprese meridionali sono, salvo rarissime eccezioni, imprese di piccole dimensioni, poco internazionalizzate e scarsamente innovative. La riduzione della spesa pubblica contrae i mercati di sbocco e, per questo effetto, rende più difficile la loro sopravvivenza. Come segnalato nel Rapporto SVIMEZ, ciò si traduce nella riduzione dei finanziamenti domandati al sistema bancario e, per conseguenza, anche alla riduzione del numero di sportelli bancari nell’area. In più, in una condizione (precedente la crisi) di bassi redditi ed elevata disoccupazione, l’aumento della tassazione – e la riduzione della spesa pubblica – costituisce un rilevante fattore di impoverimento delle famiglie meridionali, di aumento delle attività illecite e di espansione dell’economia sommersa.
Le politiche economiche realizzate negli ultimi anni – pur nella generale contrazione dei trasferimenti pubblici alle Regioni – hanno trasferito risorse a beneficio delle regioni del Nord. La ratio di queste scelte è poco chiara, e probabilmente esula da considerazioni propriamente economiche. E’ ragionevole pensare che, in assenza di politiche industriali a vantaggio delle aree più povere, si sia preferito finanziare maggiormente le aree con più alta concentrazione industriale, confidando nel fatto che la crescita economica del Paese possa passare attraverso la crescita del settore industriale settentrionale, lasciando il Mezzogiorno a coltivare le sue ‘vocazioni naturali’, ovvero a farne un’area specializzata nella produzione agricola e, nel migliore dei casi, orientata al turismo: si tratta – è bene chiarirlo – di settori ‘maturi’ dal cui potenziamento (ove mai sia in atto) non c’è da aspettarsi la ripresa della crescita meridionale. Ma è altrettanto ragionevole ritenere che la distribuzione di risorse pubbliche a danno del Mezzogiorno sia il risultato del basso potere contrattuale di cui dispongono le regioni meridionali e di chi ne dovrebbe rappresentare gli interessi in sede politica. La desertificazione industriale del Sud è già in atto, così come, per conseguenza, sono già da molti anni in atto dinamiche di divergenza rispetto al Nord del Paese: le politiche di austerità, se ulteriormente accentuate, non potranno far altro che aggravare il problema.
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Anche ai padroni non piace l’austerità
[in “MicroMega” online del 5 ottobre 2012]
Il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha ripetutamente chiarito che, affinché si possa ragionevolmente confidare nella ripresa della crescita degli investimenti in Italia, occorre ridurre il ‘cuneo fiscale’ (riducendo la tassazione sul lavoro dipendente), ampliare i mercati di sbocco interni (il che richiederebbe aumenti di spesa pubblica e/o riduzione dell’imposizione fiscale) e, soprattutto, rendere più agevole l’accesso ai finanziamenti bancari da parte delle imprese.
Su quest’ultimo aspetto, occorre partire da un dato di fatto. L’Italia, almeno fino agli anni che hanno preceduto la crisi, è stato, fra i Paesi OCSE e insieme al Giappone, il Paese nel quale è stata più alta la propensione al risparmio delle famiglie. Ciò è in larga misura imputabile al fatto che l’economia italiana – e ancor più quella meridionale – è arrivata relativamente tardi a configurarsi come un’economia industrializzata. Un’economia con elevata incidenza della produzione agricola (e dell’occupazione in agricoltura) è, di norma, un’economia nella quale le famiglie tendono appunto a limitare i propri consumi e a mantenere elevati i risparmi.
Nel corso degli ultimi anni, la propensione al risparmio degli italiani si è drasticamente ridotta. L’Istat calcola, a riguardo, che il tasso di risparmio nazionale lordo, partito da una media del 22,4% nel decennio 1981-1990, è sceso al 20,7% nel decennio successivo. Il declino è continuato nei primi anni Duemila, passando dal 20,2% nel 2001, al 19,9% nel 2002 e al 18,7% nel 2003, e attestandosi – ad oggi – a meno del 12%. Negli ultimi anni, ciò è accaduto fondamentalmente per due ragioni:
1) Le politiche di ‘austerità’ hanno prodotto una rilevante contrazione del reddito pro-capite, soprattutto a danno delle famiglie con redditi più bassi e soprattutto a danno delle famiglie meridionali. La riduzione del reddito si è tradotta nella contestuale contrazione dei consumi e dei risparmi. A ciò si aggiunge il notevole aumento della disoccupazione giovanile (che si assesta su percentuali superiori al 30% sul totale della forza-lavoro) e della popolazione giovanile inattiva – i c.d. NEET. E’ del tutto evidente che, a fronte di questo fenomeno, i risparmi delle famiglie vengono progressivamente erosi, dal momento che i giovani inoccupati possono consumare solo attingendo al patrimonio familiare, in una condizione nella quale è per loro precluso il canale del finanziamento bancario per prestiti al consumo.
2) La modifica della composizione anagrafica della popolazione italiana (con particolare riferimento alla riduzione della natalità) costituisce parte integrante del problema, dal momento che uno dei principali moventi che spingono le famiglie a risparmiare consiste precisamente nell’obiettivo di trasmettere risorse ai propri figli. L’evidenza empirica disponibile – non solo nel caso italiano – mostra che la denatalità è correlata alla precarietà della condizione lavorativa (http://www.ilo.org/public/english/bureau/inst/download/hoffmann.pdf). Fra gli effetti della crescente precarizzazione del lavoro va, dunque, incluso il calo delle nascite e, in quanto il risparmio privato tende a essere più elevato (a parità di altre condizioni) per le famiglie con figli, la denatalità costituisce un ulteriore fattore di contrazione dei risparmi.
Il calo dei risparmi si traduce nella riduzione dei depositi bancari, che, a sua volta, spinge le banche a essere meno accomodanti nell’erogazione di finanziamenti alle imprese. Le quali, peraltro, nella gran parte dei casi, hanno sperimentato, a partire dallo scoppio della crisi, una consistente riduzione dei loro profitti, così che – anche nei casi nei quali vi è volontà di investire – risulta sostanzialmente impossibile farlo, sia per la restrizione del credito sia per l’impossibilità di autofinanziarli. E’ evidente che il combinato di questi fenomeni costituisce un rilevantissimo freno alla crescita economica, ed è altrettanto palese che il problema è molto più accentuato per le imprese meridionali. Ciò sia a ragione del maggior calo dei profitti (e del maggior tasso di fallimento) delle imprese localizzate al Sud, sia a ragione dell’esistenza (già negli anni che hanno preceduto la crisi) di fenomeni di razionamento del credito.
Si giunge, così, alla conclusione secondo la quale quanto minore è la spesa pubblica (e/o quanto maggiore è la tassazione), tanto minore è il tasso di crescita, dal momento che le politiche di ‘austerità’ contribuiscono anche a frenare la crescita degli investimenti privati, per il tramite della restrizione del credito che queste generano. Si delinea, in tal modo, una spirale viziosa che va dalla riduzione della spesa pubblica (e/o dall’aumento della pressione fiscale) alla riduzione degli investimenti privati – conseguente alla riduzione dei margini di profitto e alla restrizione del credito – all’aumento della disoccupazione, alla conseguente riduzione dei risparmi privati. A ciò si può aggiungere che, per quanto attiene al bilancio pubblico, la riduzione degli investimenti e l’aumento della disoccupazione – in quanto riducono la produzione – contribuiscono a rendere sempre più difficile ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, ponendo seri dubbi in merito alla razionalità delle politiche di rigore di bilancio in fasi recessive (v. anche http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-fallimento-dellausterity/?printpage=undefined).
Il problema può essere visto anche da un altro punto di vista. Dal momento che le politiche di austerità riducono la domanda interna, esse comportano una contrazione dei profitti monetari delle imprese e, al tempo stesso, rendono sempre più difficile l’aumento delle loro dimensioni. Poiché le banche finanziano tendendo conto soprattutto delle garanzie reali e dei profitti attesi (variabili strettamente dipendenti dalle dimensioni d’impresa), l’attuazione di politiche fiscali restrittive non produce altri effetti se non – anche per questa via – la minore convenienza da parte delle banche a erogare finanziamenti e, anche per questa via, la contrazione degli investimenti privati e del tasso di crescita.
Quantomeno su questi aspetti, la posizione di Squinzi appare del tutto ragionevole, e completamente opposta a quella del Governo. Il che costituisce un’ulteriore conferma del fatto che mettere assieme austerità e crescita è un ossimoro, che le politiche di austerità sono controproducenti per l’obiettivo per le quali sono messe in atto (la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL), e che ormai si pongono in palese contraddizione non solo con gli interessi dei lavoratori e della ‘classe media’, ma anche – e sempre più – con quanto la gran parte dell’imprenditoria italiana si aspetta.
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Effetti delle politiche di austerità
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 ottobre 2012]
Il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha ripetutamente chiarito che, affinché si possa ragionevolmente confidare nella ripresa della crescita degli investimenti in Italia, occorre ridurre il ‘cuneo fiscale’ (riducendo la tassazione sul lavoro dipendente), ampliare i mercati di sbocco interni (il che richiederebbe aumenti di spesa pubblica e/o riduzione dell’imposizione fiscale) e, soprattutto, rendere più agevole l’accesso ai finanziamenti bancari da parte delle imprese.
Su quest’ultimo aspetto, occorre partire da un dato di fatto. L’Italia, almeno fino agli anni che hanno preceduto la crisi, è stato, fra i Paesi OCSE e insieme al Giappone, il Paese nel quale è stata più alta la propensione al risparmio delle famiglie. Ciò è in larga misura imputabile al fatto che l’economia italiana – e ancor più quella meridionale – è arrivata relativamente tardi a configurarsi come un’economia industrializzata. Un’economia con elevata incidenza della produzione agricola (e dell’occupazione in agricoltura) è, di norma, un’economia nella quale le famiglie tendono appunto a limitare i propri consumi e a mantenere elevati i risparmi.
Nel corso degli ultimi anni, la propensione al risparmio degli italiani si è drasticamente ridotta. L’Istat calcola, a riguardo, che il tasso di risparmio nazionale lordo, partito da una media del 22,4% nel decennio 1981-1990, è sceso al 20,7% nel decennio successivo. Il declino è continuato nei primi anni Duemila, passando dal 20,2% nel 2001, al 19,9% nel 2002 e al 18,7% nel 2003, e attestandosi – ad oggi – a meno del 12%. Negli ultimi anni, ciò è accaduto fondamentalmente per due ragioni:
1) Le politiche di ‘austerità’ hanno prodotto una rilevante contrazione del reddito pro-capite, soprattutto a danno delle famiglie con redditi più bassi e soprattutto a danno delle famiglie meridionali. La riduzione del reddito si è tradotta nella contestuale contrazione dei consumi e dei risparmi. A ciò si aggiunge il notevole aumento della disoccupazione giovanile (che si assesta su percentuali superiori al 30% sul totale della forza-lavoro) e della popolazione giovanile inattiva – i c.d. NEET. E’ del tutto evidente che, a fronte di questo fenomeno, i risparmi delle famiglie vengono progressivamente erosi, dal momento che i giovani inoccupati possono consumare solo attingendo al patrimonio familiare, in una condizione nella quale è per loro precluso il canale del finanziamento bancario per prestiti al consumo.
2) La modifica della composizione anagrafica della popolazione italiana (con particolare riferimento alla riduzione della natalità) costituisce parte integrante del problema, dal momento che uno dei principali moventi che spingono le famiglie a risparmiare consiste precisamente nell’obiettivo di trasmettere risorse ai propri figli. L’evidenza empirica disponibile – non solo nel caso italiano – mostra che la denatalità è correlata alla precarietà della condizione lavorativa. Fra gli effetti della crescente precarizzazione del lavoro va, dunque, incluso il calo delle nascite e, in quanto il risparmio privato tende a essere più elevato (a parità di altre condizioni) per le famiglie con figli, la denatalità costituisce un ulteriore fattore di contrazione dei risparmi.
Il calo dei risparmi si traduce nella riduzione dei depositi bancari, che, a sua volta, spinge le banche a essere meno accomodanti nell’erogazione di finanziamenti alle imprese. Le quali, peraltro, nella gran parte dei casi, hanno sperimentato, a partire dallo scoppio della crisi, una consistente riduzione dei loro profitti, così che – anche nei casi nei quali vi è volontà di investire – risulta sostanzialmente impossibile farlo, sia per la restrizione del credito sia per l’impossibilità di autofinanziarli. E’ evidente che il combinato di questi fenomeni costituisce un rilevantissimo freno alla crescita economica, ed è altrettanto palese che il problema è molto più accentuato per le imprese meridionali. Ciò sia a ragione del maggior calo dei profitti (e del maggior tasso di fallimento) delle imprese localizzate al Sud, sia a ragione dell’esistenza (già negli anni che hanno preceduto la crisi) di fenomeni di razionamento del credito.
Si giunge, così, alla conclusione secondo la quale quanto minore è la spesa pubblica (e/o quanto maggiore è la tassazione), tanto minore è il tasso di crescita, dal momento che le politiche di ‘austerità’ contribuiscono anche a frenare la crescita degli investimenti privati, per il tramite della restrizione del credito che queste generano. Si delinea, in tal modo, una spirale viziosa che va dalla riduzione della spesa pubblica (e/o dall’aumento della pressione fiscale) alla riduzione degli investimenti privati – conseguente alla riduzione dei margini di profitto e alla restrizione del credito – all’aumento della disoccupazione, alla conseguente riduzione dei risparmi privati. A ciò si può aggiungere che, per quanto attiene al bilancio pubblico, la riduzione degli investimenti e l’aumento della disoccupazione – in quanto riducono la produzione – contribuiscono a rendere sempre più difficile ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, ponendo seri dubbi in merito alla razionalità delle politiche di rigore di bilancio in fasi recessive.
Il problema può essere visto anche da un altro punto di vista. Dal momento che le politiche di austerità riducono la domanda interna, esse comportano una contrazione dei profitti monetari delle imprese e, al tempo stesso, rendono sempre più difficile l’aumento delle loro dimensioni. Poiché le banche finanziano tendendo conto soprattutto delle garanzie reali e dei profitti attesi (variabili strettamente dipendenti dalle dimensioni d’impresa), l’attuazione di politiche fiscali restrittive non produce altri effetti se non – anche per questa via – la minore convenienza da parte delle banche a erogare finanziamenti e, anche per questa via, la contrazione degli investimenti privati e del tasso di crescita.
Quantomeno su questi aspetti, la posizione di Squinzi appare del tutto ragionevole, e completamente opposta a quella del Governo. Il che costituisce un’ulteriore conferma del fatto che mettere assieme austerità e crescita è un ossimoro, che le politiche di austerità sono controproducenti per l’obiettivo per le quali sono messe in atto (la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL), e che ormai si pongono in palese contraddizione non solo con gli interessi dei lavoratori e della ‘classe media’, ma anche – e sempre più – con quanto la gran parte dell’imprenditoria italiana si aspetta.
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Le fragili basi teoriche delle politiche di austerità
[“MicroMega” online del 29 ottobre 2012]
La manovra fiscale contenuta nella Legge di Stabilità, considerata nel suo complesso, costituisce un ulteriore segnale rilevante della volontà – da parte del Governo – di perseguire lungo la linea delle politiche di austerità. L’Ufficio Studi della CGIL stima, a riguardo, un incremento della tassazione a carico di un contribuente medio di circa 125 euro annui, con significativi effetti redistributivi a danno delle famiglie più povere, soprattutto a ragione dell’aumento dell’IVA. In quanto imposta diretta, l’IVA viene, infatti, pagata nello stesso ammontare da percettori di redditi elevati e da percettori di redditi bassi, ovvero è un’imposta “regressiva”. Al di là degli interessi materiali che sono alla base di queste scelte (http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-fallimento-dellausterity/?printpage=undefined), occorre chiedersi se esse trovano una motivazione razionale (o quantomeno ragionevole) sul piano teorico. Giacché, se così fosse, e se ne dimostrasse la piena validità, i sacrifici che queste scelte comportano sarebbero legittimati sul piano scientifico e giustificati sul piano politico.
Le politiche di austerità vengono motivate fondamentalmente con due argomenti.
a) E’ necessario ridurre la spesa pubblica e aumentare l’imposizione fiscale dal momento che, solo così facendo, si riduce il rapporto debito pubblico/PIL. Si tratta di un argomento falso, sia sul piano propriamente teorico, sia sul piano empirico. La riduzione della spesa pubblica (e/o l’aumento della tassazione), riducendo la domanda, riduce l’occupazione e, per conseguenza, il PIL, potendo determinare un aumento del rapporto debito pubblico/PIL. In più, soprattutto per le imprese di piccole dimensioni che vendono su mercati locali (è il caso della gran parte delle imprese meridionali), la contrazione dei consumi derivante dalla minore spesa pubblica e dalla maggiore tassazione può determinarne il fallimento, con conseguente aumento della disoccupazione, conseguente calo della produzione e della base imponibile. L’evidenza disponibile mostra infatti che il rapporto debito pubblico/PIL, in Italia, è aumentato dal 107% del 2007 a oltre il 120% della prima metà del 2012. In altri termini, quanto meno lo Stato spende, tanto più si indebita. Vi è di più. Probabilmente anche in virtù dell’annuncio del Governatore della Banca Centrale Europea di intervenire in misura “illimitata” sui mercati finanziari (e dell’effettivo intervento della BCE sui ‘mercati secondari’), la speculazione sui titoli del debito pubblico si è considerevolmente ridotta, così che si può legittimamente affermare che non vi è nessuna ragione per la quale reiterare politiche di rigore finanziario.
b) Si ritiene che l’aumento della spesa pubblica, e ancor più un significativo intervento diretto dello Stato nella produzione di beni e servizi, agisce negativamente sulle aspettative imprenditoriali e conseguentemente sugli investimenti privati. Le aspettative imprenditoriali sarebbero influenzate negativamente dall’intervento pubblico, dal momento che l’operatore pubblico – in questa visione – sottrae quote di mercato alle imprese private. A ciò si aggiunge che l’aumento della spesa pubblica oggi comporta minori consumi oggi, dal momento che – in condizioni di perfetta capacità previsionale – i consumatori sanno che subiranno domani un aumento della tassazione. Da queste considerazioni, si fa discendere l’idea che quanto maggiore è la spesa pubblica tanto minore è il tasso di crescita. Ciò anche a ragione del fatto che si ritiene assiomaticamente che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico.
Si tratta di una tesi – quest’ultima – che si presta a numerose obiezioni.
1) Non è sempre e necessariamente vero che le imprese private sono più efficienti delle imprese pubbliche. L’esperienza delle privatizzazioni, almeno con riferimento al caso italiano, mostra inequivocabilmente che il solo effetto che si è registrato è stato un aumento delle tariffe, a parità di qualità del servizio offerto (o spesso con qualità peggiore).
2) E’ molto opinabile l’idea secondo la quale le decisioni di investimento, da parte delle imprese private, dipendono esclusivamente dall’ammontare (e dalla dinamica) della spesa pubblica. Si può argomentare, per contro, che le decisioni di investimento sono assunte sulla base ciò che Keynes definiva gli ‘spiriti animali’ degli imprenditori, e, dunque, da aspettative che maturano in condizioni di incertezza e che non rispondono a criteri di pura razionalità economica. Vi è di più. Per almeno due ragioni, il nesso di causalità fra spesa pubblica e investimenti privati può viaggiare semmai nella direzione opposta rispetto a quella suggerita dai teorici dell’austerità. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce i mercati di sbocco interni, riduce i profitti monetari. La riduzione dei profitti riduce gli investimenti e il tasso di crescita. In secondo luogo, la riduzione dei profitti, conseguente alla riduzione della spesa pubblica, influisce negativamente sulle scelte del sistema bancario in ordine al finanziamento degli investimenti. Si genera, in tal modo, una spirale viziosa per la quale tanto meno lo Stato spende, tanto minori sono i profitti e gli investimenti e tanto più le banche sono indotte a reagire restringendo l’erogazione di credito. A ciò fa seguito minore crescita economica e, per le ragioni individuate sopra, maggiore indebitamento pubblico in rapporto al PIL. Si badi che, dopo oltre due anni di misure di contenimento della spesa e di aumento della pressione fiscale, il loro palese fallimento è decretato non solo da un numero crescente di autorevoli commentatori, ma anche, dai maggiori centri di ricerca internazionali (http://temi.repubblica.it/micromega-online/lausterity-di-berlusmonti/?printpage=undefined).
In più, come messo in rilievo dall’Ufficio Studi di Mediobanca, la riduzione della domanda e il contestuale aumento dei rendimenti dei titoli del debito pubblico costituiscono un potente incentivo al disinvestimento e, per converso, un potente incentivo alla ‘finanziarizzazione’. Si consideri, infatti, che, nel 2011, il costo del debito a carico delle imprese è aumentato dal 5,6% al 6% mentre i tassi sui BTP decennali sono passati dal 3,4% al 4,9% e che il rendimento netto del capitale realizzato dalle imprese italiane (pari al 5,8% del capitale investito) è risultato insufficiente a remunerare il capitale proprio e di terzi.
In quest’ottica, i sacrifici chiesti agli italiani (o, meglio, ai lavoratori, ai pensionati e al ‘ceto medio’) non solo non trovano alcuna giustificazione, ma sono controproducenti ai fini della ripresa della crescita economica del Paese, sia perché non contribuiscono a ridurre l’indebitamento pubblico, sia perché riducono la domanda interna accrescendo la disoccupazione e riducendo i salari, sia perché incentivano processi di ‘finanziarizzazione’. Il fatto che queste misure ci vengono chieste “dall’Europa” – come viene spesso puntualizzato da esponenti del Governo – non contribuisce a motivarne la necessità: contribuisce semmai a diffondere la convinzione che l’impoverimento di gran parte del Paese dipenda proprio dall’essere parte dell’Unione Monetaria Europea.
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La disoccupazione oggi in Italia
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 17 novembre 2012]
Il recente Rapporto OCSE segnala un notevole peggioramento di tutte le principali variabili macroeconomiche in Italia, con particolare attenzione all’andamento del tasso di disoccupazione, che passa dall’8.4% del 2011 al 9.4% nel 2012, con previsione di aumento (a circa il 10%) nel 2013. Questo aumento è in larga misura imputabile alla crescita della disoccupazione di lunga durata e della disoccupazione giovanile (circa pari al 37%).
Con ogni evidenza, si tratta del risultato inevitabile delle politiche di austerità e, per quanto riguarda le previsioni di aumento del numero di disoccupati, anche del sostanziale fallimento della riforma del mercato del lavoro approntata dal Ministro Fornero. E’ interessante osservare che le due misure interagiscono in senso potenzialmente vizioso, per le seguenti ragioni. Le politiche di austerità, declinate sotto forma di aumento dell’imposizione fiscale e di riduzione della spesa pubblica, in quanto riducono la domanda aggregata, esercitano effetti negativi su produzione e occupazione. E’ il costo sociale – ci viene detto – che occorre pagare per mettere i conti pubblici in ordine, lungo la linea della riduzione del debito pubblico e del rispetto del vincolo del pareggio di bilancio.
Come è noto, la riforma Fornero introduce un embrionale sistema di “flexsecurity”, combinando, cioè, maggiore flessibilità in uscita (ovvero maggiore libertà di licenziamento) con il potenziamento dei sussidi di disoccupazione. Una normativa che accresce la flessibilità in uscita conferisce alle imprese un elevato potere contrattuale nei confronti dei lavoratori, che, a sua volta, si traduce in una riduzione dei salari, dei consumi, della domanda aggregata e dell’occupazione. In altri termini, e come ampiamente mostrato su basi empiriche fin dal Rapporto OCSE del 2008, quanto minore è la protezione dei lavoratori (ovvero quanto maggiore è la flessibilità del mercato del lavoro), tanto maggiore è il tasso di disoccupazione. Il che vale a maggior ragione in una condizione – come quella attuale – nella quale il tasso di disoccupazione pre-riforma è già notevolmente alto, dal momento che un’elevata disoccupazione riduce il potere contrattuale dei lavoratori e, per converso, accresce quello delle imprese. Si osservi che questa relazione (l’aumento della disoccupazione riduce il potere contrattuale dei lavoratori) sussiste soprattutto laddove i lavoratori sono facilmente sostituibili. In una condizione nella quale la forza-lavoro occupata è altamente specializzata, anche se il tasso di disoccupazione è elevato, non è nell’interesse delle imprese licenziare, poiché, a fronte del licenziamento, dovrebbero sostenere costi di qualificazione dei nuovi assunti. Ebbene, nelle condizioni attuali, data la struttura produttiva italiana, e meridionale in particolare, fatta di imprese di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e soprattutto poco innovative, la forza-lavoro occupata è, in larghissima misura, poco specializzata e, dunque, facilmente sostituibile.
Vi è di più. A fronte dell’aumento della disoccupazione, aumenta la platea di lavoratori beneficiari di sussidi di disoccupazione. Ciò significa che quanto meno lo Stato spende (e quanto più tassa) per l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più si trova costretto a reperire risorse per sussidiare un numero crescente di disoccupati. Si genera, così, un conflitto di obiettivi: da un lato, il Governo prova a creare le condizioni per un aumento degli investimenti e, per farlo, deve perseguire una linea di deflazione salariale; dall’altro, il Governo si trova nella condizione di dover garantire un livello minimo di reddito a coloro che vengono licenziati. Si osservi che, nell’impostazione di politica economica di questo Esecutivo, l’erogazione di sussidi non è pensata per sostenere la domanda (le politiche keynesiane, secondo il Presidente del Consiglio, sono obsolete), ma per una funzione di ‘legittimazione’ dello status quo, ovvero – in ultima analisi – per evitare o minimizzare la conflittualità sociale. Si osservi che la legittimazione si rende necessaria dal momento che la conflittualità sociale peggiora le aspettative imprenditoriali, riducendo la propensione a investire.
Si tratta di un conflitto di obiettivi che mette in evidenza una palese contraddizione insita nelle politiche di austerità: quanto più si persegue la strada del rigore e della deflazione salariale, tanto più questo obiettivo si allontana, se non altro perché le politiche di austerità fanno crescere il tasso di disoccupazione e, dunque, generano un aumento della spesa pubblica destinata al pagamento dei sussidi. Questa contraddizione, in ultima analisi, deriva da un’interpretazione molto opinabile sulle determinanti degli investimenti, come lo stesso Presidente di Confindustria ha a più riprese ricordato. In questa fase, alle imprese italiane non interessa disporre di più ampia flessibilità. Le misure messe in atto in questa direzione nell’ultimo ventennio hanno generato una condizione per la quale l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che tutela meno i lavoratori dipendenti e il potere contrattuale delle imprese è già sufficientemente elevato per consentire loro di ridurre i salari e licenziare con facilità. In questa fase, ciò che alle imprese interessa è veder aumentati i mercati di sbocco, così da maturare aspettative ottimistiche in ordine alla possibilità di vendere i beni e servizi che producono. Poiché, nella gran parte dei casi, le nostre imprese non ottengono profitti attraverso le esportazioni, occorre che aumenti la domanda interna. Evidentemente, per ottenere questo risultato bisogna perseguire la strada esattamente opposta a quella che si sta perseguendo: accrescere la spesa pubblica e ridurre la pressione fiscale. Sono ormai le stesse imprese a chiedere al Governo di cambiare rotta.
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Le prospettive economiche dei giovani “schizzinosi”
[“MicroMega” online del 22 novembre 2012]
Nel nostro Paese i giovani sono relativamente pochi e poco scolarizzati, nel confronto con i principali Paesi industrializzati: 20 laureati su cento individui nella fascia d’età compresa fra i 25 e i 34 anni contro una media dei paesi OCSE pari a 37 (26 su cento in Germania, 41 su cento negli Stati Uniti, 43 su cento in Francia, 45 su cento nel Regno Unito, 56 su cento in Giappone). E sono anche, e sempre più, sottoutilizzati: mentre, negli ultimi anni, al contrarsi dell’occupazione, negli altri Paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, in Italia è avvenuto il contrario (v. http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione10/sintesi.pdf ). Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la bassa dotazione di capitale umano, fra gli altri fattori, spiega in misura significativa il fatto che la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati (http://www.oecd.org/about/publishing/ItalyBrochureIT.pdf).
Data questa diagnosi, non si capisce, almeno in prima approssimazione, per quale ragione Ministri di questo e del precedente Governo insistano nell’invitare i giovani a riscoprire il valore del lavoro manuale e, coerentemente, si impegnino a disincentivare lo studio mediante la riduzione dei finanziamenti alle Università e il conseguente inevitabile aumento delle tasse. Si tratta di un processo che può farsi risalire – nei tempi più recenti – alla ormai ‘storica’ dichiarazione di Giulio Tremonti, secondo il quale “la cultura non si mangia” e che termina, al momento, con la recente esternazione del Ministro Fornero, per la quale i giovani italiani dovrebbero essere meno “schizzinosi”. E’ un esercizio pedagogico di dubbia utilità, essendo ampiamente noto che, anche nel caso siano in possesso di laurea, gran parte dei giovani italiani – soprattutto nel Mezzogiorno – già è in condizione di sottoccupazione intellettuale e, dunque, è già impegnato nello svolgimento di mansioni per le quali non è richiesto un elevato titolo di studio, oppure – il che vale soprattutto per coloro che provengono da famiglie con redditi elevati – è già all’estero. In ogni caso, l’inversione di rotta è almeno in parte già riuscita, come testimonia il significativo calo delle immatricolazioni in atto da almeno un biennio.
La logica che ispira le dichiarazioni di molti nostri Ministri, e i provvedimenti che ne seguono, è riconducibile alle seguenti considerazioni.
1. La struttura produttiva italiana, salvo rare eccezioni, è composta da imprese di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e poco innovative. A ciò si aggiunge il fatto che, anche in questo caso con le dovute eccezioni, la nostra classe imprenditoriale è per lo più composta da imprenditori con basso titolo di studio. Poiché, come l’evidenza empirica mostra, la domanda di lavoro qualificato è tanto maggiore quanto maggiore è il contenuto tecnologico delle produzioni e quanto maggiore è il livello di istruzione degli imprenditori, segue che un’elevata e diffusa scolarizzazione si traduce quasi esclusivamente in eccesso di offerta di lavoro qualificato. In assenza di politiche industriali finalizzate a ri-orientare la domanda di lavoro, rendendola più qualificata, è del tutto evidente che alle imprese italiane i laureati non servono, così come non serve la ricerca scientifica (http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/luniversita-riformata-e-il-blocco-della-mobilita-sociale/).
2. Va rilevato che – stando ai dati forniti dal MIUR – la spesa pubblica per la formazione e la ricerca è aumentata nelle fasi espansive del ciclo e si è ridotta nelle fasi recessive. In particolare, nei primi anni Duemila, la spesa pubblica destinata alla formazione e alla ricerca è sensibilmente cresciuta, e soprattutto è cresciuta la quota della spesa pubblica destinata alle Università, a fronte del fatto che, nel periodo considerato, il tasso medio di crescita è stato circa pari al 2%, con successiva riduzione nell’ordine del 15% della spesa pubblica per la formazione e la ricerca in una fase nella quale il tasso di crescita è stato nullo o negativo. Questa inversione di tendenza viene diffusamente motivata (e legittimata) con due argomenti. In primo luogo, si pone in evidenza il fatto che i periodi di crescita dei finanziamenti alle Università sono stati i periodi nei quali è stato maggiore lo “spreco” di fondi pubblici. In secondo luogo, si ritiene che anche le Università debbano contribuire al raggiungimento dell’obiettivo del risanamento dei conti pubblici, secondo la logica dominante che vede nelle politiche di austerità la sola possibile opzione di politica economica. Occorre chiarire che entrambi gli argomenti sono del tutto fuorvianti. Innanzitutto, non è chiaro – in linea generale, e ancor più con riferimento alla formazione e alla ricerca scientifica – cosa si intenda per “spreco”, se non un “eccesso” (di assunzioni, di immatricolazioni, di corsi di laurea) che, tuttavia, per sua stessa definizione, deve rinviare a un parametro di riferimento in qualche modo considerato ‘ottimale’, che non è dato conoscere. In più, la tesi che le Università debbano scontare una (consistente) riduzione di fondi per contribuire alla riduzione della spesa pubblica, a sua volta funzionale a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL è non solo falsa, ma di fatto implicitamente dà conto del modo in cui si è intesa gestire negli ultimi anni la politica universitaria. Si tratta di una tesi falsa, dal momento che, come ormai ampiamente mostrato sul piano teorico ed empirico, le politiche di austerità sono inefficaci per l’obiettivo stesso che si propongono, dando luogo a un esito per il quale quanto meno lo Stato spende tanto più cresce il rapporto debito pubblico/PIL (v., fra gli altri, http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-fragili-basi-teoriche-dellausterita/).
E si tratta di una tesi che mette in evidenza il fatto che l’istruzione, in Italia, da almeno un decennio, non è ritenuta una variabile rilevante ai fini della crescita. Lo dimostra il fatto che si è disinvestito, e si disinveste, nella formazione e nella ricerca proprio nelle fasi nelle quali occorrerebbe ragionevolmente agire sulle principali variabili che generano aumenti del PIL: fra questi, in primo luogo, i flussi di innovazione derivanti dalla ricerca scientifica e la crescita della dotazione di capitale umano. Nella fase attuale, si può sostenere che la politica formativa non fa altro che limitarsi ad assecondare le dinamiche strutturali dell’economia italiana. Si consideri, a riguardo, che – per quanto attiene alla competitività del settore manifatturiero – si stima che l’economia italiana, ventunesima economia industrializzata su scala globale nel 2009, è ora posizionata alla trentaduesima posizione. Vi è di più. Su fonte Mediobanca, si registra che, nell’ultimo ventennio, le imprese italiane sono state coinvolte in un rapido e intenso processo di “finanziarizzazione”: il rapporto fra investimenti finanziari e investimenti tecnici, pari a circa il 30% nel 1992, risulta, nel 2011, pari a circa il 70%, con conseguente riduzione della domanda di lavoro qualificato nel settore industriale.
Concepita in una logica di breve periodo e secondo i parametri della più rapida “occupabilità” dei laureati, non desta sorpresa il fatto che la politica formativa risenta in modo rilevante dei cambiamenti strutturali e, in particolare, del processo di deindustrializzazione in atto nel nostro Paese.
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Il
potere di generare crisi
[“MicroMega” online del 6 dicembre 2012]
Sul piano della politica economica, il bilancio del Governo Monti non è particolarmente entusiasmante. Tre dati possono essere sufficienti per attestarlo: circa centomila individui hanno perso lavoro nel corso dell’ultimo mese, come rilevato nell’ultimo Rapporto ISTAT, con un tasso di disoccupazione giovanile (superiore al 30%) che ha raggiunto, in Italia, il suo massimo storico; è notevolmente aumentato il numero di fallimenti di imprese, con oltre cento crisi industriali in atto; il rapporto debito/PIL è aumentato di 6 punti percentuali nel corso dell’ultimo anno. In altri termini, appare sempre più evidente che ciò che viene definita “crisi” è oggi niente altro che l’inevitabile effetto di politiche fiscali restrittive attuate in un contesto di calo della domanda aggregata; politiche che questo Governo, più del precedente, ha perseguito con la massima tenacia.
L’argomento utilizzato dal Governo e dai suoi sostenitori del “cosa poteva accadere se” [non ci fosse stato Monti] è non dimostrato né probabilmente dimostrabile e, sebbene al prof. Monti vada riconosciuta un’autorevolezza incomparabilmente maggiore di quella del suo predecessore, non è dato riscontrare nessuna correlazione significativa fra “credibilità” di un Governo ed esposizione del Paese al rischio di fallimento. L’argomento del “ce lo chiede l’Europa” [di mettere in atto politiche di austerità] vale, al più, per delegittimare l’Unione Europea, non certo per accreditare la presunta necessità di ridurre drasticamente la spesa pubblica e di aumentare ancor più drasticamente l’imposizione fiscale.
Il fallimento delle politiche economiche messe in atto da questo Governo è anche il fallimento delle teorie economiche che le hanno sostenute sul piano “scientifico”, e che possono schematicamente essere ricondotte a due proposizioni.
1) La riduzione della spesa pubblica accresce i consumi. La riduzione della spesa pubblica pone i consumatori nella condizione di non essere costretti a risparmiare per far fronte al pagamento delle imposte. La ratio di questa proposizione risiede nella tesi in base alla quale l’indebitamento pubblico – derivante da aumenti della spesa pubblica – costituisce un trasferimento dell’onere fiscale sulle generazioni future. In quest’ottica, nel caso in cui il Governo decida di accrescere oggi la spesa pubblica, e che questo sia un segnale pubblicamente osservabile, le famiglie sanno che dovranno risparmiare oggi per pagare più tasse domani. Questa tesi – che rinvia alla c.d. equivalenza ricardiana – poggia su due ipotesi essenziali. In primo luogo, occorre assumere che gli individui abbiano perfetta capacità previsionale e che, dunque, sappiano quando la pressione fiscale aumenterà e di quanto aumenterà. Occorre poi assumere che gli individui siano altruisti nei confronti delle generazioni future, così che – conoscendo la tempistica e il futuro aumento della tassazione – trasmettano ai propri discendenti una quantità di risorse monetarie tale da consentire a questi ultimi di pagare le tasse. Posto in termini diversi e più facilmente comunicabili, si ritiene che un aumento dei nostri redditi oggi – nel caso in cui ciò derivi da un aumento dell’indebitamento pubblico – comporta impoverire i nostri figli.
Questa tesi è stata oggetto delle seguenti obiezioni. In primo luogo, si può rilevare che a maggior reddito disponibile oggi corrispondono maggiori lasciti ereditari e, dunque, maggior reddito disponibile a beneficio delle generazioni future. A ciò si può aggiungere che la decisione di aumentare l’imposizione fiscale è una decisione propriamente politica, così che non vi è nessuna ragione stringente che leghi l’aumento del debito pubblico oggi all’aumento della tassazione domani. In secondo luogo, come messo in evidenza, in particolare, in ambito keynesiano, le scelte individuali sono effettuate in condizioni di “incertezza radicale”, così che le aspettative non possono realisticamente essere assunte razionali, bensì dipendenti da ondate di ottimismo/pessimismo, da effetti di imitazione, consuetudini, abitudini.
2) La riduzione della spesa pubblica accresce gli investimenti privati. Ciò si verifica a ragione del fatto che la spesa pubblica ‘spiazza’ la spesa privata, sia perché sottrae quote di mercato agli operatori privati (il che accade soprattutto se lo Stato interviene mediante la produzione diretta di beni e servizi), sia perché l’aumento della spesa pubblica accresce i tassi di interesse e, per conseguenza, riduce gli investimenti. E poiché si assume che l’operatore privato è più efficiente dell’operatore pubblico, ne deriva che un’economia con la minima “interferenza” pubblica sia un’economia nella quale è massima l’efficienza produttiva (e, date le risorse disponibili, è massimo il tasso di crescita).
Si tratta, anche in questo caso, di una tesi molto controversa, suscettibile di una duplice critica. In primo luogo, le decisioni di investimento da parte delle imprese private non dipendono esclusivamente dai tassi di interesse, essendo profondamente influenzate dagli animal spirits degli imprenditori. In secondo luogo, si può dimostrare che fra spesa pubblica e spesa privata esistono semmai nessi di complementarietà, dal momento che la spesa pubblica, accrescendo i mercati di sbocco, accresce i profitti attesi e, di conseguenza, accresce gli investimenti. Questo è particolarmente significativo nel caso italiano e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno, dal momento che la struttura produttiva italiana, con poche eccezioni, è costituita da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate. In questo contesto, l’attuazione di politiche di austerità riduce i mercati di sbocco, potendo determinare – come, di fatto, si è determinato – riduzioni dei profitti e fallimenti.
La tesi governativa fa riferimento al fatto che, nelle condizioni istituzionali date, non è possibile fare diversamente, dal momento che la priorità dell’agenda di politica economica non può che essere la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL. Il timore consiste nel fatto che – stando a questa impostazione – si ritiene che aumenti della spesa pubblica incentivino attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico. Quelli che vengono definiti attacchi speculativi sono situazioni nelle quali un gran numero di investitori si muove di concerto vendendo titoli del debito pubblico di un Paese. A ciò fa seguito la riduzione del valore di quei titoli e la necessità di collocarli sul mercato con tassi di interesse più alti. In tali condizioni, il singolo Stato si trova nella condizione di dover pagare interessi crescenti per finanziare le proprie spese, fino ad arrivare a un limite oltre il quale occorre dichiarare fallimento, ovvero dichiarare di non essere più in grado di ripagare i debiti contratti. Anche in questo caso, si tratta di un argomento fallace sotto un duplice aspetto. In primo luogo, l’evidenza empirica mostra inequivocabilmente che le politiche di austerità non riducono, ma semmai aumentano l’indebitamento pubblico, e, se si stabilisce una (presunta) correlazione fra variazioni del rapporto debito pubblico/PIL e attacchi speculativi, questi ultimi potrebbero essere (paradossalmente) generati proprio dalle politiche di austerità. S può stabilire, sul piano teorico ed empirico, che gli attacchi speculativi sono mossi da fattori che non attengono alle dimensioni del debito pubblico né alle sue variazioni, e si può affermare che una condizione permissiva per l’attivarsi di attacchi speculativi è costituita dall’assenza di una Banca Centrale che svolga il ruolo di prestatore di ultima istanza. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il primo: l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera 2010 – è avvenuto in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava di soli 2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del 2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito nazionale. Se, per contro, la Banca Centrale è posta nella condizione di acquistare titoli del debito pubblico, potendo di fatto produrre “moneta” senza vincoli di scarsità, nel momento in cui annuncia di volerlo fare, di fatto erge, per così dire, un “muro” nei confronti degli speculatori, modificandone le aspettative, i quali, per quanta ricchezza monetaria dispongano, non ne dispongono mai in una quantità paragonabile a quella di una Banca Centrale. Il caso giapponese – con un rapporto debito/PIL superiore che oscilla intorno al 230% – è emblematico in tal senso.
Posta la questione in questi termini, e nonostante quanto ripetutamente sottolineato dal prof. Monti, non vi è alcuna ragione per la quale non possiamo vivere “al di sopra delle nostre possibilità”, né vi è alcuna ragione per la quale il Governo dovrebbe reiterare politiche che non hanno altri effetti se non accentuare l’intensità della crisi.
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La povertà nel Salento
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 19 dicembre 2012]
Il notevole aumento della povertà nel Salento è da leggersi innanzitutto come il risultato dei processi di “mezzogiornificazione” dei Paesi c.d. periferici dell’Unione Monetaria Europea e, ancor più, delle aree più periferiche di questi Paesi, ovvero delle aree che, prima dello scoppio della crisi, registravano un PIL pro-capite inferiore alla media nazionale e alla media europea. Si tratta di processi che dipendono principalmente da due fattori. In primo luogo, l’attuale assetto dell’Unione Monetaria Europea è tale da generare crescenti divergenze dei tassi di crescita dei Paesi membri, determinando una condizione per la quale i Paesi periferici subiscono processi di de-industrializzazione e conseguente crescita della disoccupazione, della precarietà del lavoro, delle emigrazioni. In secondo luogo, queste dinamiche – che costituiscono un esito spontaneo dell’operare dei meccanismi di mercato – sono enormemente amplificate dalle politiche di austerità messe in atto, con la massima accelerazione, nel corso dell’ultimo biennio.
L’ultima indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane fa registrare che, dal 2006 al 2010, la povertà è aumentata di 6 punti percentuali fra chi ha meno di 45 anni, è cresciuta poco nella fascia d’età compresa fra i 45 e i 65 anni, e si è ridotta al di sopra di questa età. La motivazione è agevolmente comprensibile. Gli individui di età inferiore ai 45 anni sono, nella grandissima parte dei casi, collocati in condizione di disoccupazione (e, spesso, di sottoccupazione intellettuale) o lavorano con contratti precari. Si tratta di due fenomeni che occorre tener distinti, a ragione del fatto che le cause che li determinano sono diverse. La precarizzazione del lavoro si è resa possibile a seguito di una lunga serie di provvedimenti legislativi finalizzati a “riformare” il mercato del lavoro, a partire almeno dagli anni Novanta. Il notevole aumento della disoccupazione giovanile è in larga misura imputabile alle politiche di austerità, messe in atto negli ultimi anni. La riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale hanno disincentivato (e continuano a disincentivare) le assunzioni, in una condizione nella quale le aspettative imprenditoriali continuano a deteriorarsi. Il fatto che gli individui più anziani si siano impoveriti meno dei giovani trova la sua causa nelle più elevate retribuzioni che hanno percepito negli anni lavorativi, in fasi nelle quali – soprattutto in virtù della crescente spesa pubblica – l’economia italiana ha sperimentato elevati tassi di crescita. Va, tuttavia, precisato che l’elevata (e crescente) disoccupazione giovanile, erodendo i risparmi delle famiglie dalle quali i giovani disoccupati provengono, avrà prevedibilmente ricadute negative sul reddito medio degli individui di età superiore ai 65 anni.
E’ bene chiarire che la povertà non è un problema che rientra (esclusivamente) nella sfera morale; ovvero non è (solo) per ragioni di equità che si richiede un impegno delle istituzioni politiche per farvi fronte. L’esistenza di povertà diffusa ha anche effetti negativi sul tasso di crescita, in considerazione del fatto che una forza-lavoro con basso reddito è scarsamente produttiva. Come certificato dall’ISTAT, la produttività del lavoro in Italia, a partire dai primi anni Duemila, risulta stazionaria e in sensibile declino a partire dagli anni settanta. Si registra anche che nei periodi nei quali i salari sono stati più alti – ed è stato più incisivo l’intervento pubblico in economia, per il potenziamento delle reti di welfare – è risultata maggiore la produttività del lavoro. Esiste, dunque, un nesso fra povertà e produttività, che può essere razionalizzato come segue.
1) Una condizione di povertà assoluta – derivante da redditi percepiti inferiori al livello di sussistenza – è associata a condizioni di malnutrizione, che, a sua volta, generano un basso potenziale produttivo dei lavoratori.
2) Il crescente impoverimento delle famiglie italiane (e salentine, in particolare) si traduce anche in minore scolarizzazione, come testimoniato dal notevole calo delle immatricolazioni in Università. Dunque, maggiore povertà implica minore accumulazione di capitale umano e, anche in questo caso, minore dotazione di capitale umano implica minore potenziale produttivo della forza-lavoro.
3) In una condizione di progressiva riduzione del welfare, il problema è notevolmente accentuato dalla difficoltà, da parte delle famiglie più indigenti, di accedere a servizi sanitari efficienti. Il che determina – anche per questa via – peggiori condizioni di salute e, dunque, minore produttività.
La spirale viziosa che si innesca è così riassumibile. I lavoratori poveri sono poco produttivi. Le imprese, se li assumono, accordano loro bassi salari. I bassi salari contribuiscono a rendere ancor meno produttivi i lavoratori, generando una condizione per la quale coloro che versano in condizioni di povertà, per l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato, tendono a diventare sempre più poveri. La malnutrizione, la riduzione della dotazione di capitale umano, la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e l’invecchiamento della popolazione sono fattori di massima rilevanza nel frenare la crescita della produttività e, dunque, la crescita economica.
La struttura produttiva salentina è composta da imprese di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate, poco propense a innovare. La gran parte del valore aggiunto generato dalle attività qui localizzate deriva dai flussi turistici e dalla produzione agricola, ovvero è generato in settori produttivi ’tradizionali’, nei quali i flussi di innovazione sono pressoché inesistenti. In queste condizioni, non vi è da aspettarsi crescita economica (e riduzione della povertà) da politiche che si limitino ad assecondare le “vocazioni naturali” del territorio. E, in queste condizioni, mettere in atto politiche (nazionali) di compressione della spesa pubblica non può avere altri effetti se non ridurre i mercati di sbocco per le imprese locali, con conseguente riduzione dei loro profitti, crescente numero di fallimenti e crisi aziendali, crescente disoccupazione, aumento della povertà.