Da molti anni lei vive a Lecce. Che cosa può dirmi della cultura salentina?
Devo premettere che, nell’immediato dopoguerra, Milano era semidistrutta e Firenze e Roma erano ancora sotto shock in seguito all’occupazione nazista. Nella Puglia, invece, che era rimasta indenne, eccezion fatta per alcuni sporadici episodi di violenza, la vita intellettuale fu molto intensa a partire dal 1946. Prevalsero in quegli anni due centri di cultura: uno a Bari, con la saggistica, sotto la guida di Croce e di Omodeo, nell’ambito della Casa Editrice Laterza. E l’altro a Lucugnano, nel Sud del Salento, sotto gli auspici di Girolamo Comi, poeta, che si era formato a Parigi e in Svizzera, e che nelle “stanzette” del suo palazzo ospitava i più insigni letterati del tempo provenienti da tutta l’Italia: Goffredo e Maria Bellonci, Enrico Falqui, Gianna Manzini, Luciano Anceschi, Giacinto Spagnoletti, Giovan Battista Angioletti, Mario Sansone e altri. Gli stessi personaggi si potevano incontrare per le vie di Lecce o durante le loro golose soste al caffè Alvino. Ma nel capoluogo salentino si registrarono anche altre iniziative molto interessanti. Il 23 maggio 1947, Giuseppe Ungaretti al Circolo cittadino parlò di Leopardi a un pubblico foltissimo e, il giorno successivo, in casa di Antonio D’Andrea lesse a pochi intimi la raccolta di poesia Il dolore, ancora inedita. In quello stesso periodo, Vittorio Pagano, con una apertura europea, proponeva la lettura dei poeti parnassiani, degli Ermetici, principalmente di Montale. Vittorio Bodini, invece, si divideva tra Roma, la Spagina e Lecce. Luigi Corvaglia pubblicava con successo il suo romanzo Finibusterre, Michele Saponaro di San Cesario, autore di romanzi e di novelle, si era trapiantato definitivamente a Milano dove lavorava per la Mondadori.
A Lecce, scrittori e poeti animavano i salotti letterari del Principe Apostolico, dei Gorgoni, eredi del castello di Sigismondo Castromediano a Cavallino, dove donna Maria riceveva con gusto squisito poeti salentini e non solo, e ancora di Maria Attisani, di Francesco Stampacchia per citare solo qualcuno dei numerosi centri privati di cultura. Tra le effemeridi e le riviste ricorderò l’ottimo “Critone”, “Libera voce”, “La voce del Sud”, e successivamente “L’Albero”. Ma fiorivano anche altre importanti attività: la pittura, la scultura, la prosa e la lirica, le rappresentazioni classiche nell’anfiteatro romano.
In un periodo successivo, cultori di letteratura italiana furono Mario Marti, gli esordienti Aldo Vallone e Francesco Lala. Illustrarono le Lettere salentine: il magliese Oreste Macrì (ispanista), professore all’Università di Firenze, i fratelli Gabrieli (Francesco, arabista, e Vittorio, anglista e, a lungo, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Londra), Francesco Stampacchia e Francesco D’Onofrio, grecisti, Paolo Stomeo, raffinato studioso di neo-ellenico, l’editore Milella, generoso promotore di importanti iniziative culturali ed editoriali, e ancora Fabrizio Colamussi, insigne drammaturgo e originale poeta, che era in corrispondenza con poeti e registi di mezza Europa. E infine il ventenne Donato Valli, che sarebbe stato uno dei più illustri promotori della cultura nel Salento. Ovviamente, essendo stata a lungo a Lecce fino al 1952, a tutti questi insigni letterati, poco o molto, devo qualche cosa. Ma colei che ha segnato una svolta nella mia vita di studiosa è stata Maria Corti. Quando giunse a Lecce dopo aver vinto la cattedra di Lingua e Letteratura Italiana all’Università salentina, aveva appena pubblicato il romanzo L’ora di tutti, che presentai al Circolo cittadino e che recensii su una rivista marchigiana. La Corti, allieva di Terracini e sodale con Contini, Segre e Isella, cominciava a cercare le vie del rinnovamento critico e mi aprì nuovi orizzonti.
Pensa che sia possibile proporre un canone al femminile degli studi letterari tra Otto e Novecento?
Credo proprio di no. Prendo velocemente ad esempio alcune autrici negli anni a cavallo tra Otto e Novecento. Comincerò da Matilde Serao nella cui opera prevalse l’impegno verista (Il ventre di Napoli). Neera, al contrario, privilegiò la rivalutazione del sentimento e dell’amore platonico. Autrice di versi fu anche la contessa Lara (pseudonimo di Evelina Cattermole) che rappresentò realisticamente la passione amorosa come condizione peculiare della donna in quella società, mentre Vittoria Aganoor Pompilj assunse come fulcro ideologico della sua poesia il problema dell’incomunicabilità che si pone tra uomo e uomo. Grazia Deledda, infine, rappresenta una Sardegna poco rispondente alla realtà e si muove in un mondo estraneo ai grandi conflitti della cultura contemporanea.
Da questi cenni si dedurrebbe che le autrici segnalate rappresentano mondi molto diversi e che sarebbe piuttosto difficile la proposta di un unico canone al femminile degli studi letterari tra Otto e Novecento.
Nel 2005 lei ha pubblicato Sulle tracce di Pitagora con sottotitolo Storie brevi (Ibiskos di A. Ulivieri editore), e questo dopo una lunga carriera di ricercatrice e di studiosa. Come spiega questo passaggio per così dire dalla scrittura critica alla scrittura creativa e quale differenza riscontra tra le due modalità di scrittura?
Questo passaggio ha diverse motivazioni. Ma forse ha anche un’ascendenza familiare e risale a uno zio di mia madre, autore di romanzi storici andati purtroppo dispersi. Inoltre ho sempre considerato che, alla macrostoria, ripercorse dagli storici di professione, si allinea la microstoria depositata nella memoria dei singoli e che, a un certo momento della vita, riemerge con forza. Probabilmente proprio per questo motivo, al compimento dell’ottantesimo anno di età, decisi di pubblicare quel libro, Sulle tracce di Pitagora, Storie brevi, che potrebbe avere come sottotitolo “I miei ricordi”.
Quali consigli darebbe ad un giovane che si appresta a dedicarsi agli studi di letteratura italiana. E a un docente di letteratura italiana?
Oggi, parafrasando un’esortazione del Foscolo, a un giovane studioso di Lettere proporrei di tornare allo studio dei “classici”. Non si possono introdurre nel nostro Paese metodi e modelli in auge oltralpe e oltre oceano. Noi che apparteniamo a popoli gravitanti intorno al Mediterraneo dobbiamo fare i conti con un passato plurimillenario se non vogliamo morire. Il discorso vale sia per i docenti sia per gli studenti.
Può dirmi quali sono i suoi progetti per il futuro? A che cosa sta lavorando?
Alla mia età, sono del 1925, non si fanno progetti. Comunque, favente Deo, desidererei ristampare i racconti, togliendo il troppo e il vano e magari aggiungendo qualche nuova storia, e alcuni saggi verghiani.
Molte grazie, professoressa Lina Iannuzzi, e molti auguri per il futuro.
[“Il Paese Nuovo” di mercoledì 30 settembre 2009, p. 6]
Conservo un ricordo stupendo di questa infaticabile operaia del sapere. E’ stata la mia docente di letteratura italiana nei primi anni ’90 all’università (allora degli studi di Lecce). Con lei instaurai un bellissimo rapporto, tanto che da studente mi fece tenere una lezione sul romanzo storico meridionale, e mi incoraggiò a pubblicare il mio primo romanzo, un romanzo storico salentino ambientato nel ‘600. Le ho fatto visita un paio di volte nella sua abitazione a Lecce, ormai era in pensione e ci scambiammo le nostre ultime fatiche letterarie. Non so se sia ancora in vita, ma me ne rimarrà sempre un ricordo indelebile. Roberto De Salvatore
Gentile Roberto De Salvatore, grazie per la tua testimonianza. Mi dispiace dirti che Lina Iannuzzi ci ha lasciato il 7 luglio 2015, alle ore 10. Cordiali saluti (G.V.)