Infatti il tono è scherzoso, irridente nei riguardi dei professori, designati con termini dialettali (lu mesciu, la mescia) o con la materia insegnata, il Filosofo o “quel pupo”, del quale evidenzia un tic nervoso (gli stiramenti di collo) o col soprannome (Fegatino) o con il cognome di qualche letterato. L’ottimo professore di greco, don Gennaro D’Elia, peraltro di Novoli, quindi compaesano di Parlangéli, avendo citato più volte sulla “Questione omerica” uno studioso, credo russo, il Kirkoff, si ebbe, appioppato per sempre, tale nome. Il prof. Vilei diventa “mesciu ‘Nzinu, quello dei 175 ‘silenzio’ all’ora”, mentre un insegnante d’italiano “Piedi di burro” e quello di religione, anziano, grasso e molle “Papa Recotta”. La “mescia” di Storia dell’arte viene dalla “Regia Scarperia” (Scuola di Avviamento professionale, adiacente al vecchio “Palmieri”). Si potrebbe continuare con altri docenti e scenette scolastiche più o meno esilaranti.
Allora le classi erano rigorosamente divise in maschili e femminili. Parlangéli si lamenta che, quando le ragazze entrano nel cortile per gli esercizi di educazione fisica, il professore ordina di chiudere immediatamente la porta dell’aula.
Tutte queste narrazioni in un linguaggio saporoso, nel quale si mescolano italiano, latino (classico e maccheronico), dialetto salentino, francese, parole inventate, parole di altri dialetti e infine il grico.
Parlangéli, ancora ragazzo, era abbastanza consapevole della propria preparazione e bravura, sicché aspirava, senza boria, a essere non solo il primo della classe, ma dell’intero Istituto. Di conseguenza, quando, rare volte, le cose non andavano secondo i suoi desideri, se ne rammaricava, ma concludeva “fazza Dio” e onestamente riconosceva che “c’è sempre in fondo a noi un po’ di invidiuzza”.
Lui ed io eravamo coetanei. Ci conoscemmo nell’ottobre 1935, all’inizio dell’anno scolastico ‘35-36. A quel tempo non esisteva la Scuola media unica; il nostro incontro quindi avvenne nella III ginnasiale, sez. C, dove il professore di materie letterarie era il bravo e severo Michelini, toscano.
La nostra amicizia non sbocciò subito, maturò nel tempo e diventammo sinceramente amici e compagni di banco. In I liceale ci trovammo ad affrontare la mortificazione inflittaci da un impreparato professore d’italiano. Costui prendeva posto sulla cattedra collocandovi una barriera di volumi dietro i quali nascondeva un libercolo su cui leggeva la lezione di letteratura. Il guaio era che, quando interrogava, bisognava ripetere più o meno le sue parole. Poiché ciò non si verificava, Parlangéli ed io, abituati agli 8 e ai 9 (il 7 era già vergognoso), subivamo un inaccettabile 6. Finché, un bel giorno, l’astuto Oronzino riuscì a scoprire titolo e autore del libercolo. Lo comprammo e ne scaturì una rapida risalita dei nostri voti.
Quando, l’anno dopo da Pescara, gli confidavo qualche mia delusione nel nuovo ambiente scolastico, Parlangéli mi esortò a tornare quaggiù al “Palmieri”. In una lettera successiva (aprile ‘40) si stupisce: “Come, un matto dell’Istituto vincere te che in fatto di Italiano puoi dare dei punti anche a Giove?”
Io non tornai al “Palmieri”, ma i consigli e le insistenze di Oronzino contribuirono a farmi decidere il salto della III liceale, decisione ch’egli aveva presa da tempo. Pur essendo un ragazzo, sapeva già chiaramente quel che voleva. Infatti, sotto la data del 4 gennaio ‘40, afferma: “…spero, voglio (e ci riuscirò)…”. Sembra echeggiare l’Alfieri.
Ci ritrovammo nell’estate di quell’anno, per la conquistata maturità pieni di speranze ed euforici, nonostante l’Italia fosse entrata in guerra. Oronzino m’invitò a trascorrere una giornata nella casa al mare di Porto Cesareo. Vi andai in bicicletta e la mia permanenza si prolungò di alcuni giorni, poiché, a corsa sfrenata dentro l’acqua, mi ferii i piedi su scoglietti invisibili. Medicato e fasciato con cura, dovetti rimanermene in poltrona, impegnato nelle strenue conversazioni con il mio ospite e nei gustosi brodetti di pesce preparati dalle mani sapienti di sua madre.
All’Università Parlangéli si iscrisse alla Cattolica di Milano, mentre io a Firenze. La prima lettera da Milano, del 13 dicembre, contiene una dettagliata descrizione del Collegio Augustinianum dove alloggia, delle materie di studio, dei docenti. Si sofferma principalmente su un Monsignore che tiene le esercitazioni di greco ed “è il maestro, nel senso vero della parola, di Kirkoff” perché da lui il prof. D’Elia “ha preso tutti quegli atteggiamenti che lo rendono caratteristico”.
Alla data del 5 aprile ‘41 mi chiama pascolianamente Zvanì. Poi, fra le tante cose, esprime entusiasmo per la papirologia. “Ho già letto un bel papiro e ora lo sto commentando. Lo farò pubblicare su una delle più importanti riviste di papirologia del mondo, Aegyptus”. Uscì infatti su tale rivista nel ‘42. Egli aveva solo 19 anni ed è la sua prima pubblicazione.
Accennando all’incarico, affidatogli dal professore, “di far leggere il mio papiro a qualche matricolina ignorante”, il suo genietto scherzoso commenta: “Fin quando è una ragazza va bene, ma se è uno studente o peggio un prete o peggio ancora un frate la cosa è senza sugo e noiosa”.
La lettera del 13 giugno, da Novoli, è scritta in gran parte in dialetto. Va rimarcata ancora una volta la chiarezza di idee e di progetti. Infatti egli mi comunica d’aver già preso la tesi di laurea sui dialetti greci di Calimera, Sternatia ecc.: “Nu su stati mai stutiati, sulamente, ma te nna manera scarcia, te nnu tetescu, lu Rohlfs. Mo’ bisocchia cu nci sgobbu subbra”.
Più sotto si esprime con parole di vari dialetti italiani per farmi sapere che li ha imparati tutti. E conclude: “Ah! che bella cosa i dialetti. Bella bella, ma son più belle le ragazze fiorentine. Salutamele tutte”.
A parte la battuta finale, forse cominciava a profilarsi l’idea d’una grande Carta dei dialetti italiani, che, pur nella complessità del lavoro, egli, col proprio caldo entusiasmo, avrebbe probabilmente realizzata e che invece è rimasta interrotta dalla sua tragica morte a soli 46 anni.
Nella lettera del 15 luglio già intuisce ed enuncia, dopo una “indagine storico-critico-filologica”, la sua convinzione, contraria al Rohlfs, circa i dialetti della Grecìa salentina: “…forse si tratta di gente ignorante che trovandosi a contatto di un’estesa immigrazione di monaci bizantini, ne ha preso la lingua. Lasciamo ai tedeschi il congetturare che si tratti di discendenti diretti di Milziade e di Sofocle. Son congetture destituite di senso comune”.
Nell’ultima lettera, sempre da Novoli (2 settembre ‘41), mi chiama Juanito e allega un Regolamento dell’Augustinianum, da lui postillato smentendo il rispetto di talune norme. Ad esempio: “L’uso degli strumenti musicali è disciplinato dal Direttore” e lui: “Fosse vero!” Circa il divieto di mance e regali al personale, egli se la ride: “Almeno così si faceva al tempo di Saturno”.
Risalendo alla prima lettera (ottobre ‘39), Parlangéli immagina, con la solita ironia, che le sue pagine diaristiche possano diventare oggetto di studio per i posteri e compiange “i poveri studenti che dovranno sgobbarci su…. E’ una cosa magnifica sentirsi bestemmiato, insultato ecc. anche dopo morto: peccato che non si possa rispondere”.
Ebbene, non nascondo che spesso mi sono inceppato nella difficoltà d’interpretare, dopo tanti anni, la sua grafìa spigolosa e a volte minutissima, ma, memore della coraggiosa tenacia di lui, non mi son dato per vinto. Così, pur molto tardi, ho reso finalmente una doverosa inedita testimonianza dell’amico, grande linguista e dialettologo, Oronzo Parlangéli.
[Brogliaccio Salentino di “Presenza Taurisanese”, n. 5 / Maggio 2014, p. 8]