1) L’obiettivo del pareggio di bilancio non può essere conseguito con tagli alla spesa pubblica, dal momento che la riduzione della spesa pubblica riduce l’occupazione e il PIL. Conseguentemente, si riduce la base imponibile e, a parità di aliquota di imposta, si riducono le entrate per lo Stato. Pur essendo questo effetto noto e certo, esso viene totalmente ignorato nell’impostazione prevalente. Le ragioni non sono ben chiare e la motivazione ufficiale a sostegno delle politiche di rigore finanziario riguardano, nel dibattito di questi ultimi mesi, la (presunta) migliore reputazione che un Governo ottiene riducendo la spesa pubblica. In sostanza, si argomenta che il “comportarsi bene” (cioè, adeguarsi all’indirizzo di politica fiscale voluto dalla Germania) protegge l’Italia da attacchi speculativi e la rende più credibile nelle trattative in ambito europeo. Si può obiettare che, a parte il fatto che la reputazione non è una variabile quantificabile e che, dunque, non è possibile stabilire una correlazione fra manovra della spesa pubblica e credibilità del Paese, è molto più ragionevole ritenere che il ‘peso politico’ di un Paese dipenda essenzialmente dalla ricchezza che esso riesce a produrre e, dunque, dal PIL.
2) Per quanto attiene alle politiche monetarie restrittive – sotto forma di aumento dei tassi di interesse BCE – va innanzitutto precisato che il modesto aumento del tasso di inflazione (dal 2.4% di febbraio al 2.6% di marzo) è interamente imputabile all’aumento dei prezzi delle materie prime importate. E’ ampiamente documentato, su basi teoriche ed empiriche, che l’aumento dei tassi di interesse, in quanto accresce le passività finanziarie delle imprese e dunque i loro costi di produzione, tende a generare un aumento dei prezzi. In tal senso, contrastare le pressioni inflazionistiche aumentando i tassi di interesse è come spegnere un incendio gettando benzina sulle fiamme. Vi è di più. L’aumento dei tassi di interesse riduce il reddito disponibile delle famiglie indebitate con mutui a tassi variabili e, per questo canale, comprime i consumi.
L’impostazione di politica economica che si è delineata ha cominciato ad esercitare effetti rilevanti, e tutti di segno negativo, sull’economia meridionale e, in particolare, sulla tenuta dei bilanci delle amministrazioni locali. Ciò a ragione di una duplice circostanza. In primo luogo, le politiche restrittive esercitano il loro impatto più significativo in aree con alta disoccupazione e con un tessuto imprenditoriale poco innovativo e costituito da imprese di piccole dimensioni. In questi contesti, la riduzione della spesa pubblica non solo riduce l’occupazione, ma riduce ulteriormente i mercati di sbocco delle imprese locali, che operano prevalentemente su mercati locali. In secondo luogo, l’aumento dei tassi di interesse penalizza maggiormente le famiglie indebitate con più bassi redditi, concentrate prevalentemente nel Sud d’Italia.
A fronte di queste scelte, le amministrazioni locali possono fare ben poco. Dovendo rispettare gli stringenti vincoli imposti dal Patto di Stabilità interno (pena il commissariamento o la sospensione dell’erogazione di fondi pubblici), di fatto non possono che replicare, su scala ridotta, le politiche nazionali, con significative riduzioni della spesa locale e conseguente smantellamento dei servizi di welfare e dei servizi pubblici essenziali. I ritardi dei pagamenti alle imprese – da parte degli enti locali – è ormai prassi nella gestione della cosa pubblica di molti comuni del Mezzogiorno. I pagamenti ritardati favoriscono le imprese che dispongono di maggiore liquidità, il che, nella peggiore delle ipotesi, e soprattutto in contesti nei quali è rilevante la presenza della criminalità organizzata, favorisce innanzitutto l’imprenditoria irregolare.
A fronte della scarsità di risorse, e, dunque, della necessità di allocarle nel migliore dei modi possibili, lo strumento del bilancio partecipativo (sperimentato per la prima volta a Porto Alegre, in Brasile, nel 1989) potrebbe costituire un dispositivo adeguato per una maggiore razionalità delle scelte pubbliche. Il bilancio partecipativo consente a piccole collettività di esprimersi in ordine alle priorità di spesa e, oltre ad essere uno strumento di partecipazione democratica ‘dal basso’, può consentire agli amministratori locali di tener conto delle priorità che la maggioranza dei cittadini esprime, evitando, in tal modo, di impegnare fondi per opere che possano rivelarsi di scarsa utilità o, nella peggiore delle ipotesi, per opere che generano opportunità di guadagno a beneficio di pochi e a danno della maggioranza.
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La Banca del Sud
[ “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 7 giugno 2011 col titolo Banca del Sud sono due i punti critici]
Dopo oltre un anno di gestazione, la Banca del Sud non è solo più un ‘ipotesi, ma un dato di fatto. Pur essendo ancora non ben definite le finalità e gli assetti organizzativi, va riconosciuto che si tratta di uno dei primi provvedimenti – seppure tardivi – che questo Governo ha messo in campo per ridurre le divergenze regionali. E questo obiettivo andrebbe perseguito attraverso la fondazione di un Istituto di credito, finanziato con obbligazioni garantite dallo Stato italiano, che eroghi finanziamenti alle imprese meridionali. Il principale obiettivo consiste nel tentativo di porre rimedio al problema del razionamento del credito nel Mezzogiorno, ovvero dell’erogazione di finanziamenti alle imprese con tassi di interesse più elevati rispetto ad altre aree del Paese, dal momento che il razionamento del credito disincentiva gli investimenti e la crescita dimensionale delle imprese meridionali.
L’iniziativa, tuttavia, si presta a non pochi rilievi critici, alcuni dei quali evidenziati dagli stessi imprenditori. E’ opportuno evidenziarne due.
1) Viene fatto rilevare che l’istituzione della Banca del Mezzogiorno si associa al rischio di generare un eccesso di liquidità. Ciò a ragione del fatto che – data la garanzia offerta dallo Stato, che renderebbe sostanzialmente impossibile il fallimento della Banca – la selezione dei clienti, e dunque la verifica della loro solvibilità, potrebbe risultare irrilevante. Così che la Banca si troverebbe a finanziare anche iniziative imprenditoriali con bassa (o nulla) profittabilità, senza correre alcun rischio. Occorre evidenziare che questo rilievo è valido solo a condizione di assumere che, per definizione, qualsiasi azienda pubblica opera in condizioni di inefficienza. Evidentemente questo assunto, anche riferito alla Banca del Mezzogiorno, richiede di essere dimostrato.
2) Si può rilevare che, al di là dell’assetto pubblico o privato della Banca, la bassa dinamica degli investimenti nel Mezzogiorno dipende principalmente dalla bassa domanda di credito espressa dalle imprese meridionali. In altri termini, non è accrescendo l’offerta potenziale di moneta che si genera spontaneamente un aumento degli investimenti, essendo questi profondamente influenzati dallo stato delle aspettative imprenditoriali. In altri termini, per dirla con Keynes, “si può portare un cavallo alla fonte, ma non lo si può obbligare a bere”. Se gli imprenditori si attendono bassi profitti, tendono a posticipare gli investimenti anche a fronte della possibilità di accedere al credito bancario a condizioni agevolate. Vi è di più. Il razionamento del credito nel Mezzogiorno dipende in misura poco rilevante da variabili di contesto (in primis, dalla maggiore rischiosità derivante dall’esistenza della criminalità organizzata) e dipende, per contro, in modo rilevante dalle piccole dimensioni aziendali delle imprese del Sud. Non in tutte le Regioni meridionali la criminalità organizzata è presente, eppure in tutte le Regioni meridionali le banche tendono a erogare finanziamenti alle imprese a tassi di interesse più alti rispetto alle altre aree del Paese. Il fenomeno appare quindi più ragionevolmente riconducibile a ciò che in ambito anglosassone si definisce il too big to fail (“troppo grande per fallire”): operando in condizioni di incertezza, le banche sono maggiormente propense a finanziare imprese di grandi dimensioni, presumendo che, proprio per questa ragione, siano meno esposte al fallimento. Stando a questa argomentazione, l’efficacia della Banca del Mezzogiorno dipende in modo cruciale dalla domanda di credito espressa dalle imprese che, a sua volta, dipende dalle loro aspettative in ordine ai profitti futuri. A fronte della riduzione dei salari, dell’aumento della disoccupazione e della contrazione della spesa pubblica – particolarmente nel Mezzogiorno – non vi è ragionevolmente da aspettarsi una significativa ripresa degli investimenti. Stando all’ultimo rapporto della Banca d’Italia, la ricchezza netta pro-capite al Centro e al Nord – rispettivamente di 146 mila e 168 mila euro – è circa il doppio di quella che si rileva nel Mezzogiorno, pari a 83 mila euro. Il divario aumenta se si considera il reddito disponibile: nel Centro-Nord è di circa il 50% superiore a quello del Sud e delle Isole. Nel Mezzogiorno, la ricchezza detenuta in attività reali supera di circa 10 punti percentuali quella del Nord, a fronte del fatto che, nelle regioni settentrionali, le attività finanziarie rappresentano circa il 50% del patrimonio. Il ricorso al credito al consumo registra una quota pari al 18% al Sud, a fronte dell’8,6% al Nord. Per quanto attiene ai mutui per l’acquisto di abitazioni, i cittadini meridionali ne fanno richiesta per una percentuale oscillante intorno al 30% del reddito dell’area, inferiore al 41% della richiesta di mutui nelle aree più ricche del Paese. Lo scenario che emerge da questi dati è allarmante, non solo perché – come ormai acclarato – i divari regionali sono in continua crescita, ma soprattutto perché segnalano un impoverimento in termini assoluti delle famiglie al Sud. In questo scenario, le prospettive di profitto delle imprese, e, dunque, le loro aspettative in merito all’ampiezza dei mercati di sbocco, non possono che essere pessimistiche. Soprattutto a ragione del fatto che le imprese meridionali operano prevalentemente su mercati locali e, dunque, l’aumento della ricchezza dei consumatori al Nord non costituisce per loro opportunità di vendita.
La disponibilità di accedere con maggiore facilità al credito bancario non può incidere sulle cause reali che inducono le imprese a non effettuare investimenti, dal momento che il nesso causale è esattamente l’opposto: soltanto laddove le imprese maturano aspettative ottimistiche e programmano incrementi di investimenti, aumenta la domanda di credito bancario. E, dunque, fino a quando non si interviene sulle cause strutturali del declino economico del Mezzogiorno, un diverso assetto del sistema bancario (come potrebbe risultare dalla costituzione della Banca del Mezzogiorno) non risolve il problema.
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I salari più bassi allontanano il Sud dal Nord
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 giugno 2011]
E’ piuttosto diffusa l’idea che, a fronte del più basso livello dei prezzi nel Mezzogiorno, occorra reintrodurre in quest’area le ‘gabbie salariali’, un dispositivo normativo vigente negli anni Cinquanta che legava per legge la crescita delle retribuzioni monetarie alla crescita dei prezzi. Ed è oggi ancora più diffusa la tesi stando alla quale, essendo minore la produttività del lavoro nel Mezzogiorno, occorre legare l’andamento dei salari a quello della produttività. In entrambi i casi, i differenziali retributivi fra Sud e Nord del Paese risulterebbero ulteriormente amplificati. A fronte del fatto che, nel settore privato, il salario medio dei giovani neoassunti al Nord è in media di 876 euro, mentre nel Mezzogiorno non supera i 750 euro (una differenza di circa il 6%). Quanto al divario tra i sessi, i neoassunti maschi sfiorano i 900 euro mensili contro i 750 delle donne. Il gap, tra l’altro, tende ad aumentare nel corso della carriera lavorativa. Incidentalmente, si può osservare che, pure a fronte del maggior tasso di disoccupazione e dei più bassi salari nel Mezzogiorno, i lavoratori meridionali si attendono un salario d’ingresso più alto di quanto si attendono i loro colleghi del Nord: il che si può, in larga misura, spiegare con la maggiore incidenza dell’economia sommersa al Sud, che opererebbe come un improprio ‘ammortizzatore sociale’.
Mentre la prima tesi non ha un fondamento empirico robusto, nel senso che per numerose tipologie di beni di consumo i prezzi nelle città meridionali sono più alti rispetto a quelli del Centro-Nord (si pensi che la città nella quale sono più alti i prezzi dell’abbigliamento è Reggio Calabria), nel secondo caso occorre rilevare che – stando all’ultimo rapporto SVIMEZ – la produttività per addetto al Sud è più bassa di circa 20 punti rispetto al Centro Nord. A meno di non immaginare che i meridionali abbiano minore propensione al lavoro, per motivazioni antropologiche semmai tutte da dimostrare, appare chiaro che questo dato riflette le più piccole dimensioni aziendali nell’area.
Va preliminarmente chiarito che questo dato va registrato con estrema cautela. La produttività del lavoro è il rapporto fra quantità prodotta e numero di lavoratori impiegati per la sua realizzazione e che la produttività oraria è il rapporto fra ciò che si produce in un dato intervallo di tempo e le ore-lavoro che si sono rese necessarie per generare tale produzione. In linea generale, il lavoro concorre, insieme al capitale e alle materie prime, alla realizzazione del prodotto; ed è precisamente a partire da questa constatazione che può risultare teoricamente e praticamente impossibile imputare a un singolo fattore produttivo il suo contributo specifico alla produzione. La misurazione dell’efficienza del singolo è ancora più difficile (se non del tutto impossibile) nel terziario, dal momento che il prodotto si realizza in un servizio, che – per definizione – non costituisce una quantità fisica. E, ancor più, la quantificazione della produttività individuale è sostanzialmente impossibile in tutti i casi, assai frequenti, nei quali il prodotto deriva dal lavoro di team.
E tuttavia, pure a fronte di questi rilievi, e dunque recependo il dato della minore produttività dei lavoratori meridionali, la tesi stando alla quale la dinamica salariale deve essere legata alla dinamica della produttività prefigura un’indicazione di politica economica molto discutibile, se non del tutto irrazionale. Ciò a ragione della seguente considerazione. La riduzione dei salari nel Mezzogiorno – si suggerisce – dovrebbe implicare un aumento dei profitti delle imprese che operano in quest’area. A ciò dovrebbe far seguito un aumento degli investimenti (delle imprese locali o di imprese che eventualmente scelgano di localizzarsi al Sud) e, dunque, un aumento del tasso di crescita. Il vulnus di questa sequenza di eventi si rileva in due punti.
1. Non vi è nessuna ragione logica e fattuale per attendersi che l’aumento dei profitti si traduca in un aumento degli investimenti. Affinché ciò accada è necessario che le aspettative imprenditoriali, in ordine ai margini di profitti attesi, siano ottimistiche e questa condizione, a sua volta, presuppone che i mercati di sbocco siano sufficientemente ampi e che la domanda attesa sia crescente. Con salari in riduzione, questo meccanismo funziona al contrario. Bassi salari implicano bassi consumi e, dunque, peggioramento delle aspettative imprenditoriali. Non a caso, già nelle condizioni attuali (con più bassi salari al Sud), secondo le ultime rilevazioni di Confcommercio, soltanto il 23,1% delle piccole e medie imprese del Mezzogiorno ha investito nel periodo 2008-2009. Il 54,9% delle imprese dichiara che non effettuerà investimenti nell’immediato futuro. Solo l’8,5% investirà “certamente”, mentre il 18,2% dichiara che è “probabile” che verranno effettuati nuovi investimenti.
2. E’ semmai l’aumento dei salari a stimolare incrementi di investimenti. Ciò accade a ragione del fatto che l’aumento dei salari, accrescendo i consumi, ha effetti positivi sulla domanda. L’espansione dei mercati di sbocco spinge le imprese ad accrescere l’occupazione, ampliando le dimensioni aziendali. Poiché la bassa produttività è significativamente correlata con il ‘nanismo’ imprenditoriale, all’aumentare delle dimensioni d’impresa v’è da attendersi crescita della produttività e dei profitti. Evidentemente, la direzione opposta (bassi salari) genera il risultato opposto (bassa produttività e bassi investimenti). E, incidentalmente, si può osservare che questa sequenza di eventi si autoalimenta, dal momento che, di norma, al crescere dei profitti le imprese sono maggiormente disposte ad assecondare le rivendicazioni salariali.
Il recente aumento dei tassi di interesse da parte della BCE si muove nella direzione esattamente contraria a quella qui delineata. L’aumento dei tassi di interesse comprime i salari per tre canali. In primo luogo, in quanto disincentiva gli investimenti, determina riduzione dell’occupazione e, dunque, minor potere contrattuale dei lavoratori. In secondo luogo, e soprattutto laddove prevalgono forme di mercato non concorrenziali, l’aumento dei tassi di interesse – in quanto costituisce un aumento delle passività finanziarie delle imprese – si associa a un aumento dei prezzi e, di conseguenza, alla riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori. In terzo luogo, l’aumento dei tassi di interesse riduce il reddito disponibile per le famiglie indebitate con mutui a tassi variabili. E’ una linea di politica economica che, oltre a produrre effetti indesiderati, si rivela del tutto indifferente rispetto agli obiettivi di coesione sociale e di legittimazione del sistema, che sono alla base della auspicabile ripresa della crescita economica in Italia e nel Mezzogiorno.
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L’atto di fede dei seguaci dell’austerity
[in “Micromega” on-line, 5 luglio 2011]
Nessun Istituto di ricerca
internazionale dispone, al momento, di una previsione ragionevolmente
accettabile in ordine ai tempi di fuoriuscita dalla crisi, e le prescrizioni di
politica economica sono estremamente discordanti. La linea attualmente
prevalente si sostanzia nella riduzione dell’intervento pubblico in economia,
e, in particolare, nella riduzione del debito pubblico.
La motivazione ufficiale a sostegno di questa opzione è la seguente. Livelli
‘eccessivi’ di indebitamento in rapporto al PIL possono generare ‘attacchi
speculativi’, che, a loro volta, possono determinare il fallimento dei Paesi
più esposti alla speculazione perché più indebitati. Questa interpretazione è
suscettibile di un duplice rilievo critico.
Primo: la riduzione della spesa
pubblica, in quanto riduce l’occupazione, contribuisce a frenare la crescita
economica. In tal senso, e soprattutto quando gli investimenti privati non
aumentano (come, di norma, accade in periodi di crisi), un minore intervento
pubblico in economia si associa a una minore crescita economica. In più, se
queste misure sono pensate per ridurre l’indebitamento pubblico in rapporto al
PIL, si rivelano controproducenti, dal momento che – riducendosi l’occupazione
– si riduce la base imponibile, dunque il gettito fiscale, accrescendo quel rapporto.
A ciò si può aggiungere che la riduzione del PIL può accrescere il rapporto
debito/PIL, per il mero fatto contabile che si riduce il denominatore. In più,
negli anni precedenti la crisi, l’obiettivo della riduzione dell’indebitamento
pubblico veniva prevalentemente motivato con un argomento che attiene
all’equità intergenerazionale: non è eticamente ammissibile – si sosteneva –
far pagare ai nostri discendenti (in termini di maggiori imposte) le spese
effettuate oggi. Si trattava di una motivazione suscettibile di una critica di
fondo, dal momento che nessuno oggi è in grado di prevedere chi, perché e
quando procederà a mettere i conti pubblici ‘in ordine’, con maggiore
tassazione.
Oggi, in regime di crisi e con il rischio della deflagrazione dell’area euro,
la motivazione ufficiale a sostegno della manovra cambia segno. Non si tratta
più di un problema etico, ma di un problema che attiene alla necessità di
scongiurare attacchi speculativi a danno del Paese. E ciò è necessario anche a
costo di determinare un impoverimento crescente del Paese. Quelli che vengono
definiti attacchi speculativi sono situazioni nelle quali un gran numero di
investitori si muove di concerto vendendo titoli del debito pubblico di un
Paese. A ciò fa seguito la riduzione del valore di quei titoli e la necessità
di collocarli sul mercato con tassi di interesse più alti.
In una condizione di questo tipo, il singolo Stato si trova nella difficile condizione di dover pagare interessi crescenti per finanziare le proprie spese, fino ad arrivare a un limite oltre il quale occorre dichiarare fallimento, ovvero dichiarare di non essere più in grado di ripagare i debiti contratti. In relazione a questo fenomeno, può porsi un interrogativo di fondo. Dal momento che nessuno sa cosa esattamente muove gli speculatori, è giustificabile impoverire il Paese per scongiurare ciò che non si sa se avverrà, e – se avverrà – non si sa perché?
Non è necessariamente vero, infatti,
che gli attacchi speculativi vengono effettuati solo a danno di Paesi con
elevato debito pubblico. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il
primo: l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera scorsa – è avvenuto
in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava di soli
2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del 2001 in Argentina
è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito
nazionale.
Al fondo della motivazione ufficiale si può leggere un diverso obiettivo. Il
modello di sviluppo che si è determinato nel corso dell’ultimo ventennio è
stato concepito sulla base della convinzione che il depotenziamento del sistema
di welfare avrebbe consentito alle imprese di ottenere maggiori profitti
(associati a minori salari diretti e indiretti) e, dunque, a un maggior tasso
di crescita, generato dal reinvestimento dei profitti stessi. E’ opportuno
chiarire che questo modello presuppone l’esistenza di una duplice
precondizione.
a) I profitti accumulati dalle imprese devono essere reinvestiti in attività produttive e non usati a fini speculativi. Diversamente, viene meno il meccanismo dell’”accumulazione per l’accumulazione” che è a fondamento della riproduzione capitalistica e ci si muove in un regime di ‘finanziarizzazione’, ovvero di acquisizione di profitti mediante scambio di denaro contro denaro. Il che è precisamente quanto è accaduto. I profitti delle imprese finanziarie sono aumentati da circa il 10% dei profitti complessivi al netto delle imposte, nel 1980, a oltre il 40% del 2007.
b) Il reinvestimento dei profitti può generare crescita economica a condizione che vi sia crescita della produttività (o almeno non una sua riduzione). Su quest’ultimo aspetto, le rilevazioni disponibili segnalano che, in tutti i Paesi OCSE, il tasso di crescita della produttività del lavoro è stato significativamente più alto negli anni settanta rispetto al ventennio successivo. Sia sufficiente ricordare che, su fonte OCSE, l’Italia ha registrato la più elevata dinamica della produttività del lavoro nel 1976 (+6%, a fronte del –1.5% del 2009) e che la più elevata dinamica della produttività del lavoro negli Stati Uniti si è avuta nel 1971 (3.9%).
In altri termini, i Paesi industrializzati hanno sperimentato la più alta crescita economica nei periodi nei quali è stata maggiore la spesa pubblica ed è stato maggiore il potere contrattuale dei lavoratori. E tuttavia, a fronte di questa evidenza, i principali Governi dei Paesi OCSE (Italia inclusa) perseverano nel cercare di fuoriuscire dalla crisi con politiche economiche che segnano un ulteriore passo indietro rispetto alla tutela dei diritti dei lavoratori e delle garanzie offerte dallo Stato sociale. Sperare di far ripartire la crescita economica mediante riduzioni della spesa pubblica in regime di crisi significa, in fondo, non essere molto lontani da un atto di fede.
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Le scelte politiche non aiutano la crescita del Sud
[“Il Nuovo Quotidiano di Puglia” del 5 luglio 2011]
E’ impresa ardua capire come il Governo intenda agire per far ripartire la crescita economica in Italia. Assegnandosi come obiettivo prioritario la riduzione dell’indebitamento pubblico – da realizzare attraverso ulteriori compressioni della spesa pubblica – e non avendo a disposizione lo strumento della svalutazione competitiva per rendere più competitivi i prodotti italiani nei mercati internazionali, ci si affida alla speranza (giacché di questo si tratta) che le imprese riprendano a investire. In un clima di aspettative pessimistiche e di riduzione della domanda interna, si ritiene che la crescita degli investimenti passi attraverso misure di semplificazione dell’attività d’impresa. Occorre ricordare che il Consiglio dei Ministri si è già pronunciato, a riguardo, proponendo innanzitutto la revisione dell’art. 41 della Costituzione. In caso di definitiva approvazione, questo articolo verrà così scritto: “L’iniziativa e l’attività economica privata è libera ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato”.
La versione attuale è di non poco diversa: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Vengono meno – o potrebbero venir meno – due vincoli: la finalità sociale dell’attività imprenditoriale e il rispetto della dignità umana. La delibera del consiglio dei ministri sembra avere più valore simbolico che sostanziale e, tuttavia, essa si colloca nel contesto di un indirizzo di politica economica che assume che la ripresa della crescita economica in Italia possa realizzarsi a costo zero, con la sola modifica di alcune norme. Alcuni passi in questa direzione sono già stati compiuti, con la c.d. SCIA (Segnalazione Certificata d’Inizio Attività), e con la c.d. Comunicazione Unica, mediante la quale si unificano le quattro procedure necessarie per l’iscrizione al Registro delle Imprese, all’Agenzia delle Entrate, all’INPS e all’INAIL. Occorre precisare che questo indirizzo di politica economica si basa su un presupposto discutibile e delinea una strategia di crescita ancor più opinabile. Il presupposto. Se, da un lato, come messo in rilievo da un’ampia evidenza empirica, i costi e i tempi per fare impresa in Italia sono elevati rispetto alla media dei Paesi industrializzati, dall’altro, occorre considerare, come rilevato nell’ultimo Rapporto “Doing Business”, che costi e tempi per fare impresa in Italia sono aumentati nell’ultimo biennio. Cioè, sono aumentati proprio a decorrere dall’insediamento dell’attuale Governo. Con il che si può legittimamente affermare che le disposizioni per la libertà d’impresa non costituiscono un’accelerazione in questa direzione, semmai un recupero di quanto non si è fatto. E’ necessario precisare che, stando al “Doing Business”, per libertà d’impresa si intende un insieme di condizioni che rendono più facile l’avvio di una nuova attività o lo svolgimento di un’attività già in atto. Ci si riferisce, in particolare, alla facilità di registrazione della proprietà, all’accesso al credito, alle modalità per il pagamento delle imposte e la loro incidenza sul reddito prodotto, al rispetto dei contratti, all’efficienza delle norme che regolano la cessazione di un’attività e alla flessibilità del mercato del lavoro. In linea generale, si può affermare che un’ampia libertà d’impresa, concepita come minori doveri a carico dell’imprenditore, può comportare – e ha di fatto comportato – minori diritti per i lavoratori, e, in tal senso, non regge la tesi secondo la quale se le imprese godono di maggiore libertà ciò costituisce un beneficio collettivo. E’ significativo, in tal senso, l’uso ‘flessibile’ della forza-lavoro: si tratta, di fatto, di maggiore discrezionalità dell’impresa in contrasto con minori diritti assegnati ai propri dipendenti. Se, dunque, il presupposto sul quale reggono questi provvedimenti è discutibile, appare ancor più opinabile la prospettiva di politica economica che ne deriva. Con la massima schematizzazione, si può rilevare che la crescita economica è trainata o dai profitti (nel caso vengano reinvestiti) o dai consumi, in assenza di intervento pubblico e tralasciando le dinamiche del commercio internazionale. La linea perseguita dal Governo fa riferimento a un’ipotesi di ripresa dell’economia italiana per il tramite dell’aumento degli investimenti, a loro volta derivanti dalla maggiore numerosità delle imprese e/o dal maggiore incentivo alla produzione, per le imprese già esistenti, derivante dal minore onere burocratico. E’ evidente che un meccanismo di questo tipo può attivarsi solo a seguito di compressioni dei salari e dei costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, giacché, riducendosi i costi di produzione, gli utili delle imprese aumentano. Anche prescindendo dai costi sociali che un modello di sviluppo di questo tipo presuppone, è da rilevare che affinché il nesso profitti-investimenti possa attivarsi occorre che sussistano le seguenti condizioni. 1) L’aumento dei profitti non deve essere destinato in attività improduttive. L’attuale paradigma della ‘finanziarizzazione’ mostra, per contro, che le imprese tendono a destinare quote crescenti dei profitti per finalità diverse dagli investimenti produttivi: acquisto e vendita di titoli nei mercati azionari, ‘tesaurizzazione’, consumi ostentativi. Una indagine recente della Banca d’Italia mostra che l’incidenza delle attività finanziarie sul PIL, nel nostro Paese, è passato da circa il 7% del 2000 a circa il 9% del 2008. 2) L’aumento dei profitti deve tradursi in aumento degli investimenti in loco. Per contro, i massicci flussi di delocalizzazione industriale in atto mostrano che ciò accade di rado e che, quando accade, riguarda imprese di piccole dimensioni. Ma l’ineluttabile tendenza alla concentrazione industriale, anche su basi geografiche, e l’elevato tasso di ‘mortalità’ di queste imprese dovrebbero indurre a essere molto scettici circa la possibilità che le piccole e medie imprese possano contribuire in modo significativo alla ripresa della crescita in Italia e, ancor più, nel Mezzogiorno.
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Come contrastare l’economia sommersa?
[“Micromega” online dell’11 luglio 2011, in occasione del Convegno promosso dalla CGIL su “Ammortizzatori sociali ed economia sommersa. Più Welfare, meno illegalità nel lavoro” (Lecce, Sala Convegni Cassa Edile, 20 luglio 2011, ore 9.30)].
Le ultime rilevazioni ISTAT registrano che, a fronte di un modesto declino
dell’incidenza del sommerso sul PIL nei primi anni duemila (dal 19.7% del 2001
al 17.2% del 2007), l’ultimo biennio è stato caratterizzato da un nuovo aumento
delle attività irregolari, coinvolgendo oltre tre milioni di lavoratori.
L’incidenza del lavoro nero sul PIL nel Sud è pari al 18.3%, a fronte
dell’11.8% nel Centro-Nord. Non vi è dubbio che l’espansione dell’economia
sommersa – non solo in Italia – costituisce un ulteriore esito della grande
recessione, per almeno due ragioni.
In primo luogo, l’aumento della
disoccupazione e il calo dei salari nei settori regolari dell’economia
incentivano un numero crescente di individui a offrire le proprie prestazioni
lavorative nel settore irregolare. In secondo luogo, la riduzione dei margini
di profitto delle imprese può spingerle a collocarsi in segmenti irregolari del
mercato, per garantirsi la sopravvivenza attraverso la compressione dei costi
di produzione – e dei salari innanzitutto – in violazione della normativa
vigente.
Gli indirizzi di politica economica messi in atto da questo Governo appaiono
del tutto inadeguati e per molti aspetti inefficaci ai fini del contrasto del
fenomeno.
Per quanto attiene alle politiche del lavoro, la legislazione vigente prevede misure meno punitive per chi esercita attività irregolari rispetto alla normativa che la ha preceduta [1]. Il Libro Unico del Lavoro, di cui al decreto-legge n. 112/2008, pone come primo obiettivo la ‘semplificazione’ dell’attività d’impresa, mediante due principali dispositivi [2]. In primo luogo, si esonerano le imprese dal tenere la documentazione necessaria a comprovare la regolarità delle assunzioni nel caso in cui esse abbiano più sedi operative, rendendo obbligatoria la disponibilità dei registri nella sola sede legale. In secondo luogo, si dispone che se un ispettore riscontra manodopera non regolare, ma se l’imprenditore “non mostra la volontà di occultarla”, non è possibile comminare una sanzione [3].
Si tratta di provvedimenti che rispondono, in ultima analisi, a un’impostazione tautologica e che, per le ragioni a seguire, appaiono sostanzialmente inefficaci. L’impianto è tautologico dal momento che, poiché il sommerso esiste perché esistono regole, la deregolamentazione dei contratti di lavoro ’regolarizza’ lavoro nero perché ope legis riduce le norme a tutela del lavoro dipendente [4].
Si tratta, inoltre, di provvedimenti
di dubbia efficacia, dal momento che non incidono sulle cause strutturali del
problema e in particolare non incidono sul tasso di disoccupazione che, come
rilevato da numerosi studi teorici ed empirici, costituisce la variabile più
significativamente correlata alla presenza di attività irregolari [5].
In più, si tratta di provvedimenti che spingono ulteriormente le imprese a
competere mediante la compressione dei costi di produzione: strategia che si
rivela del tutto inefficace per l’obiettivo del recupero della competitività
sui mercati internazionali. A fronte dell’impulso dato alle politiche di
precarizzazione del lavoro, della riduzione della quota dei salari sul PIL, e
del progressivo depotenziamento del welfare state, il disavanzo delle partite
correnti è passato dal pareggio del 1999 al -3,5% del 2010, con conseguente
crescente indebitamento netto con l’estero.
In alternativa, occorrerebbe potenziare il sistema di welfare (anche) con l’obiettivo di contrastare l’aumento del lavoro irregolare [6]. L’ampliamento delle ‘reti di protezione sociale’ può avere effetti positivi sull’emersione per l’attivarsi dei seguenti effetti [7].
1) L’erogazione si sussidi di disoccupazione accresce la domanda aggregata, dal momento che – a parità di investimenti – accresce il reddito disponibile e, dunque, i consumi. L’aumento della domanda aggregata accresce l’occupazione, e la crescita dell’occupazione può riguardare l’aumento (in parte o in toto) della domanda di lavoro regolare. [8] Il che, a sua volta, rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, traducendosi in un aumento dei salari. Fermo restando il salario corrisposto nell’economia irregolare, ciò determina un aumento dei differenziali salariali nei due settori. L’aumento dei differenziali salariali e la riduzione del tasso di disoccupazione incentivano l’aumento dell’offerta di lavoro nel settore regolare.
2) L’aumento dei sussidi disincentiva l’offerta irregolare di lavoro dal momento che accresce il salario di riserva, ovvero il salario minimo al quale ciascun individuo è disposto a lavorare. Ciò consente di rendere più accurata l’attività di ricerca del lavoro e scoraggia la collocazione dei lavoratori nel settore irregolare. Si consideri che, soprattutto nel Mezzogiorno, le prime offerte di posti di lavoro che giungono agli inoccupati (anche con elevato grado di scolarizzazione) sono offerte con rapporti di lavoro irregolari. Beneficiando di indennità di disoccupazione, questi individui hanno maggiore possibilità di rifiutarle, potendo attendere occasioni di lavoro più coerenti con le loro competenze e soprattutto regolari.
Va rilevato che, a fronte dell’aumento dell’occupazione regolare per l’operare congiunto di questi due effetti, vi è da attendersi un aumento della base imponibile e, dunque, delle entrate fiscali.
A ciò occorre aggiungere che, in un contesto nel quale (e ciò vale soprattutto per il Mezzogiorno) la condizione di inoccupazione è sempre più associata all’erosione dei risparmi delle famiglie, l’aumento e l’estensione dei sussidi permette a coloro che entrano nel mercato del lavoro di disporre di un reddito aggiuntivo che può consentire di non attingere ai risparmi delle proprie famiglie, avendo un potere contrattuale superiore rispetto al caso in cui, come accade oggi, gli ammortizzatori sociali a beneficio delle giovani generazioni siano sostanzialmente assenti. Si osservi che questo effetto può agire come ulteriore disincentivo ad accettare posti di lavoro nell’economia irregolare, dal momento che a una maggiore disponibilità di risparmi familiari (cumulati ai sussidi) è associato un maggior salario di riserva.
Per quanto attiene agli effetti dei sussidi sulla produttività del lavoro, la linea dipolicy qui proposta risiede su un meccanismo di tipo ‘smithiano’, così sintetizzabile. In quanto “la divisione del lavoro è limitata dall’ampiezza del mercato” e la divisione del lavoro accresce la produttività, l’aumento della spesa pubblica (qui sotto forma di estensione delle reti di protezione sociale) – proprio perché incide positivamente sull’”ampiezza del mercato” – esercita effetti positivi sulla produttività del lavoro e, dunque, sul tasso di crescita. [9]
È evidente che queste azioni possono essere poste in essere solo a condizione di un radicale ripensamento delle politiche di austerità oggi dominanti. Come ampiamente mostrato anche su questa rivista, vi sono ottime ragioni per farlo. L’irrazionalità delle politiche di compressione della spesa pubblica in regime di crisi è ormai palese, non soltanto perché l’obiettivo della stabilizzazione del rapporto debito pubblico/PIL non lo si riesce a raggiungere con politiche fiscali restrittive (anzi si allontana sempre più); non soltanto perché misure ‘draconiane’ di compressione della spesa producono riduzione dell’occupazione e dei salari, attivando spinte conflittuali la cui repressione è essa stessa costosa; ma anche perché favoriscono la collocazione di imprese e lavoratori in settori irregolari dell’economia, generando – anche per questo effetto – ulteriore riduzione del tasso di crescita.
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NOTE
[1] Ci si riferisce, in particolare, allo strumento degli “indici di congruità”
– di cui alla legislazione pugliese del 2006 poi recepita nella Legge
Finanziaria 2007 – finalizzati a quantificare l’impiego ‘normale’ di
forza-lavoro in relazione al fatturato aziendale, con interventi di
sanzionamento per deviazioni significative da tali valori; strumento che ha
dato esiti positivi laddove sperimentato.
[2] La linea della ‘semplificazione’ consiste essenzialmente nel ridurre i vincoli per l’esercizio della libertà d’impresa.
Occorre rilevare che se, da un lato, come messo in rilievo da un’ampia evidenza empirica, i costi e i tempi per fare impresa in Italia sono elevati rispetto alla media dei Paesi industrializzati, dall’altro, come rilevato nell’ultimo Rapporto “Doing Business”, costi e tempi per fare impresa in Italia sono aumentati nell’ultimo biennio. Cioè, sono aumentati proprio a decorrere dall’insediamento dell’attuale Governo. Con il che si può legittimamente affermare che le disposizioni per la libertà d’impresa non costituiscono un’accelerazione in questa direzione, semmai un recupero di quanto non si è fatto.
[3] A ciò si aggiunge la
soppressione dell’obbligo di annotazione giornaliera delle presenze.
[4] V. Giannola, A. (1998). Le
imprese e lo sviluppo: problemi e prospettive nel Mezzogiorno, “Rassegna Economica”, 1, LXII, pp.11-48.
[5] Cfr. Lucifora, C. (2003). Economia sommersa e lavoro nero. Bologna: il Mulino.
[6] E’ opportuno precisare che, anche a prescindere dai possibili effetti
positivi di tali misure sulle scelte di emersione, l’aumento dei sussidi di
disoccupazione, e soprattutto la loro estensione a una platea più ampia di
beneficiari, è, in qualche modo, un atto dovuto, se solo si considera che
l’Italia è fra i Paesi industrializzati uno dei meno generosi nell’erogazione
di ammortizzatori sociali, pure a fronte del fatto che – come certificato
nell’ultimo rapporto OCSE – è il Paese che ha dato maggiore accelerazione alle
politiche di precarizzazione del lavoro. Il considerare ‘autonome’ prestazioni
di lavoro di fatto subordinate consente di evitare di pagare indennità in caso
di non rinnovo del contratto a individui che sono stati di fatto licenziati, ma
che per la normativa vigente – essendo appunto lavoratori autonomi – non sono
stati licenziati, avendo liberamente negoziato con la controparte di non
accettare alle condizioni date il rinnovo del contratto.
[7] Sul tema si rinvia a Valentini, (2007). Sussidio di disoccupazione,
tassazione ed economia sommersa, “Rivista di Politica Economica”,
vol.97 (2), pp.227-260 e a G. Forges Davanzati (2011), Sussidi di disoccupazione ed
economia sommersa: un’analisi keynesiano-istituzionalista, “Studi e note di Economia”. Si esclude qui il caso della
cumulazione del sussidio con reddito da lavoro nero, assumendo che l’erogazione
di sussidi sia alla condizione di disponibilità ad accettare impieghi proposti
da uffici competenti [ringrazio il prof. Marco Barbieri per aver attirato la
mia attenzione su questo aspetto, come principale elemento di criticità della
proposta qui formulata].
[8] L’effetto complessivo sull’aumento dell’occupazione regolare dipende essenzialmente dalla domanda che i consumatori esprimono nei confronti di beni e servizi prodotti da imprese regolari o non regolari. Sul tema, v. fra gli altri, da Kolm, A.S. and Larsen, B. (2003). Social norms, the informal sector and unemployment, “FinanzArchiv”, vol.59.
[9] Viene respinta, in questa sede, la convinzione diffusa stando alla quale l’erogazione di sussidi di disoccupazione scoraggia la ricerca di lavoro e incentiva i lavoratori occupati a erogare minore impegno, con conseguenti effetti negativi sul tasso di crescita. Si tratta di una convinzione che si basa su argomenti esclusivamente microeconomici (e che, dunque, non considerano gli effetti espansivi sulla domanda aggregata di politiche di aumento dei sussidi) e che, soprattutto, si fonda implicitamente sull’idea – molto discutibile – secondo la quale il lavoro è solo fonte di ‘disutilità’, così che, in assenza di adeguati incentivi, sarebbe razionale minimizzare il proprio rendimento. Per una critica a questo assioma, si rinvia, fra gli altri, a Sawyer, M. and Spencer, D. (2010). Labour supply, employment and unemployment in macroeconomics: A critical appraisal of orthodoxy and a heterodox alternative, “Review of Political Economy”, vol.22, n.2, pp.263-279.
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Spesa pubblica e crescita dell’economia
[ “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 2 agosto 2011]
Il modello di sviluppo che è alla base delle politiche di austerità messe in atto dall’Europa negli ultimi due anni è un modello basato sulla crescita trainata dal reinvestimento dei profitti, dato il vincolo di bilanci pubblici tendenzialmente in pareggio. Le motivazioni teoriche che ne sono a fondamento stanno nella convinzione che la spesa pubblica è, per sua stessa natura, improduttiva; che non contribuisce alla crescita economica; che non ha effetti significativi sull’occupazione (e, se li ha, contribuisce a creare sacche di occupazione improduttiva nel settore pubblico) e che, soprattutto, accresce il debito pubblico. A ciò si aggiunge che la crescita del debito pubblico è, in quanto tale, un problema. Si tratta di una motivazione priva di fondamento, le cui implicazioni di politica economica hanno il solo effetto di generare crescenti diseguaglianze distributive, e impoverimento crescente dei lavoratori e dei ceti medi, sia all’interno dei Paesi dell’euro zona, sia fra Paesi.
Per quanto riguarda il primo aspetto, va ribadito che, contrariamente all’opinione dominante, la spesa pubblica ha effetti positivi sull’occupazione e la crescita economica, sia nel breve, sia nel lungo periodo. Sia qui sufficiente ricordare che, restando al caso italiano, il maggiore tasso di crescita dell’ultimo quarantennio si è avuto nella stagione (dagli anni cinquanta alla prima metà degli anni ottanta) di maggiore intervento pubblico in economia e di maggiore espansione del debito pubblico. Né vale obiettare che proprio per aver accresciuto il debito pubblico negli anni della ‘finanza allegra’ l’attuale generazione è necessariamente costretta a subire politiche di rigore, che ne riducono il reddito disponibile. Si tratta di un nesso non cogente e per nulla necessario: l’indebitamento pubblico costituisce un trasferimento dell’onere fiscale sulle generazioni future solo a condizione che, una volta accresciuto, vi sia una decisione politica che ne imponga la riduzione. Ma, poiché di decisione politica si tratta, questo nesso non regge su nessun automatismo.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, occorre richiamare l’attenzione sul fatto che, con l’adozione dell’euro, la contestuale rinuncia alla sovranità monetaria e l’adesione al Trattato di Maastricht, l’economia italiana si è trovata nella condizione di dover individuare percorsi di crescita diversi da quelli tradizionalmente perseguiti. In particolare, data la sua struttura produttiva basata su imprese di piccole dimensioni specializzate nella produzione di beni a bassa intensità tecnologica, l’economia italiana è cresciuta – dal secondo dopoguerra all’ingresso nell’euro zona – o mediante iniezioni di spesa pubblica (che hanno tenuto alta la domanda interna, anche a beneficio delle imprese) o mediante svalutazioni competitive, ovvero modifiche unilaterali del tasso di cambio, che hanno reso possibile – soprattutto nelle fasi di crisi – il recupero dei margini di profitto attraverso le esportazioni. L’adesione ai vincoli imposti dal Trattato di Maastricht e l’adozione dell’euro hanno reso impossibile riprodurre questo modello di crescita, sia per il vincolo imposto all’espansione della spesa pubblica, sia per l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione dell’euro, essendo questa operazione semmai possibile con l’accordo di tutti i Paesi che lo adottano.
La deflazione salariale è apparsa l’unica strada percorribile, ed è stata sostenuta da reiterati provvedimenti normativi che hanno reso sempre più agevole un uso ‘discrezionale’ della forza-lavoro, in particolare mediante la crescente precarizzazione e l’indebolimento delle organizzazioni sindacali. Sia qui sufficiente richiamare l’ultimo rapporto OCSE, stando al quale il salario netto medio di un lavoratore senza figli a carico in Italia è stato di 25.155 dollari nel 2010. Si tratta di un importo inferiore sia alla media OCSE (26.436 dollari), che a quella dell’UE a 15 (30.089).
Si può dunque affermare che, per i Paesi periferici (Italia inclusa), la via delle politiche di rientro del debito pubblico si è rivelata del tutto fallimentare: anche al netto della crisi, il tasso di crescita in Italia, nel trascorso decennio, è stato in media del 2% (ed è attualmente stimato a poco meno dell’1%) mentre il disavanzo delle partite correnti è passato dal pareggio del 1999 al -3,5% del 2010, con conseguente crescente indebitamento netto con l’estero. Inoltre, nonostante le politiche di austerità messe in atto in particolare nel trascorso biennio, il rapporto debito pubblico/PIL non solo non si è ridotto, ma è aumentato. Come evidenziato nell’ultimo rapporto della Commissione Europea, a fronte del 116% nel 2009, il rapporto debito pubblico/PIL si assesta al 119% nel 2010, e si prevede che continuerà ad aumentare nel 2011, superando il 120%. Le cause che hanno prodotto questo risultato, e che decretano l’assoluta irrazionalità delle politiche di contenimento della spesa, sono efficacemente individuate in un documento sottoscritto da oltre cento economisti italiani e consultabile in www.letteradeglieconomisti.it.
Il patto fondativo dell’euro si reggeva su queste clausole implicite: consentire alla Germania di evitare la concorrenza di altri Paesi europei nei mercati internazionali, evitandone le speculazioni competitive, offrendo, in cambio, agli altri Paesi una maggiore garanzia di stabilità finanziaria, riducendo (o azzerando) la probabilità di attacchi speculativi. A decorrere dall’inizio della speculazione sui titoli del debito pubblico greci, quest’ultima clausola è venuta meno, generando crescenti timori di subire attacchi speculativi per i Paesi periferici del continente. Si tratta di timori in larga misura infondati. Non è necessariamente vero, infatti, che gli attacchi speculativi vengono effettuati solo a danno di Paesi con elevato debito pubblico. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il primo: l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera scorsa – è avvenuto in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava di soli 2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del 2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito nazionale. Se la questione si pone in questi termini, la domanda alla quale il Governo dovrebbe dare risposta si pone in questi termini: dal momento che nessuno sa cosa esattamente muove gli speculatori, è giustificabile impoverire il Paese per scongiurare ciò che non si sa se avverrà, e – se avverrà – non si sa perché?
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Manovra sbagliata per filosofia e impianto
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 11 settembre 2011]
La doppia recessione dell’ultimo triennio è largamente imputabile alla crescita esponenziale della sfera finanziaria. Si tratta di ciò che viene comunemente definito finanziarizzazione, e che consiste nel fatto che le imprese – soprattutto di grandi dimensioni – hanno destinato quote crescenti dei loro profitti nei mercati azionari, generando – su fonte Banca d’Italia – un rapporto fra valore degli strumenti finanziari e PIL pari, nel 2006, a quasi 8 volte in Italia e a oltre 10 volte negli Stati Uniti, a fronte di un rapporto circa pari a 3 all’inizio degli anni ottanta. In altri termini, la numerosità delle transazioni che si svolgono nei mercati finanziari è oggi un multiplo degli scambi di beni e servizi nella cosiddetta “economia reale”.
Si tratta di un fenomeno relativamente recente, che ha modificato strutturalmente la relazione fra capitale produttivo e “capitale fittizio”, le cui cause possono essere individuate in tre fattori. In primo luogo, e soprattutto per quanto riguarda l’Italia, l’aumento del rapporto debito pubblico/PIL, dal 60% al 120% nel corso degli anni ottanta, ha costituito di fatto un potente incentivo a ricorrere ai mercati finanziari, in una fase – peraltro – caratterizzata da rendimenti elevati dei titoli di Stato. In secondo luogo, e con riferimento al complesso delle economie industrializzate e nei tempi più recenti, viene fatto osservare che la deregolamentazione dei mercati finanziari ha costituito se non altro una condizione permissiva per la speculazione. In terzo luogo, si può rilevare che il grado di finanziarizzazione è cresciuto a partire dall’avvio delle politiche di deregolamentazione (in particolare del mercato del lavoro) e dalla svolta neoliberista dei primi anni ottanta. Su fonte OCSE, si rileva che il labor share (la quota dei salari sul PIL) si è ridotto di oltre 5 punti percentuali nell’ultimo ventennio, nei principali Paesi industrializzati, principalmente a ragione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, con significativa accelerazione in Italia. Si può quindi stabilire che la finanziarizzazione è (anche) il prodotto della precarizzazione del lavoro. Quest’ultima relazione è significativa e di agevole spiegazione. La caduta dei salari, comportando riduzione dei consumi, ha indotto le imprese a contrarre la produzione, in un contesto – peraltro – di continua riduzione della spesa pubblica e, dunque, di contrazione dei mercati di sbocco. Contestualmente, la caduta dei salari ha determinato un aumento dei profitti al quale, proprio a ragione della riduzione della domanda aggregata, non ha fatto seguito un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Gran parte dei profitti ottenuti mediante deflazioni salariali è stata destinata alla speculazione e, nei tempi più recenti, alla speculazione sui titoli del debito pubblico, generando una spirale viziosa che si è articolata in questi passaggi. La speculazione sui titoli del debito pubblico di singoli Paesi (Grecia in primis) ha indotto i Governi a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, al fine di minimizzare il rischio di un contagio di attacchi speculativi. La riduzione del debito si è manifestata sotto forma di minore spesa pubblica e maggiore pressione fiscale, soprattutto a danno del lavoro dipendente, con ulteriore compressione dei salari, in una spirale viziosa fatta da riduzioni di gettito fiscale (a causa della minore occupazione e del fallimento di imprese) seguìti da ulteriori tagli alla spesa pubblica e da ulteriore riduzione dell’occupazione e del gettito fiscale.
In questo scenario, si inserisce la manovra correttiva predisposta dal governo italiano, con maggiore imposizione fiscale e minore spesa pubblica per un ammontare complessivo di oltre 55 miliardi di euro tra il 2012 e il 2014. Una parte della manovra entra a regime al 2011 per un importo di quasi 2 miliardi di euro, mentre per il 2012 è previsto un intervento di 23.932 miliardi, e per il 2013 i tagli ammonteranno a 49.865 miliardi di euro. A ciò si aggiungono ulteriori provvedimenti di precarizzazione del lavoro. Ci si riferisce al c.d. contratto di prossimità, che, nelle intenzioni del Ministro Sacconi, costituisce un primo passo per superare il contratto collettivo nazionale, e che non può far altro che acuire il problema. In un regime di elevata ‘flessibilià’ del lavoro, infatti, essendo elevata l’incertezza sul rinnovo dei contratti, i lavoratori tendono a ridurre i consumi correnti, e conseguentemente, le imprese non trovano mercati di sbocco sufficientemente ampi per vendere quanto producono (o quanto potrebbero produrre).
Si è ripetutamente detto, anche su fronte confindustriale, che la manovra non contiene provvedimenti per la crescita. Si tratta di un’interpretazione molto ‘benevola’, dal momento che, di fatto, le misure adottate non possono che aggravare la già intensa recessione in atto. Sono ormai molti gli economisti – non solo italiani – che invocano una radicale revisione di questa impostazione, sollecitando maggiore spesa pubblica e minore imposizione fiscale, soprattutto a beneficio delle famiglie con più bassi redditi. La motivazione essenziale che sorregge proposte di radicale cambiamento di rotta sta nel fatto che la crescita, in questa fase, non può essere trainata dai consumi (essendo i salari bassi e in riduzione), né dagli investimenti (date le aspettative pessimistiche delle imprese), né, soprattutto nel caso italiano, dalle esportazioni, dal momento che le nostre imprese (di piccole dimensioni e poco innovative) non sono in grado, salvo rare eccezioni, di competere con successo nei mercati internazionali. Da ciò segue – si argomenta – che il solo strumento disponibile per fuoriuscire dalla crisi è una rilevante iniezione di liquidità da parte dell’operatore pubblico, innanzitutto per generare un aumento dei consumi. A ben vedere, gli effetti benefici di una politica fiscale espansiva (associata a maggiore regolamentazione del mercato del lavoro) riguarderebbero non solo i consumi, ma anche gli investimenti, secondo un effetto stando al quale all’espandersi dei mercati di sbocco le imprese sono incentivate ad accrescere la produzione. Vi è di più. Se anche si accetta la discutibile opinione dominante, per la quale l’aumento della spesa pubblica, implicando un aumento del debito pubblico/PIL, incentiva le speculazioni, segue che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico possono essere motivati non necessariamente da un ampio volume assoluto del debito pubblico, ma anche (e soprattutto) dalla bassa crescita economica del Paese che li subisce. In tal senso, l’adozione di politiche fiscali espansive in regime di crisi, proprio in quanto contribuisce a far crescere occupazione e produzione, potendo dunque ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, può rivelarsi un efficace dispositivo per scongiurare il rischio che il Paese si avvii lungo il percorso drammaticamente seguito dalla Grecia.
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Il paradosso della politica economica del governo
[Sud Critica del 12 settembre 2011: http://www.sudcritica.it/]
La proposizione “in tempo di crisi occorre fare sacrifici” – ribadita quotidianamente dalla gran parte dei leader politici italiani ed europei, non solo non è affatto scontata, ma non dice nulla in merito a chi e perché dovrebbe sacrificarsi in regime di crisi. Questa proposizione non è affatto scontata perché i “sacrifici” ai quali si fa riferimento, sostanzialmente la riduzione di salari e stipendi, la compressione dei diritti dei lavoratori dipendenti, la crescente precarizzazione, lo smantellamento delle reti di protezione sociale, sono il risultato di una precisa scelta di politica economica, che si muove, ormai da troppi anni, lungo la linea della riduzione della spesa pubblica e dell’aumento della pressione fiscale. E’ una scelta politica e, in quanto tale, niente affatto neutrale, che viene motivata sulla base dell’argomento che il debito pubblico italiano è eccessivamente elevato. Cosa esattamente significhi eccessivamente elevato non è dato sapere, a meno di non far riferimento ai parametri del Trattato di Maastricht, laddove si impone, anche qui per una scelta politica, ai Paesi membri dell’Unione europea la convergenza del rapporto debito pubblico/PIL al 60%.
Da dieci anni, come certificato dall’ultimo rapporto SVIMEZ, l’economia meridionale cresce meno di quella del Centro-Nord. Il tasso di disoccupazione è in aumento, così come il tasso di disoccupazione giovanile, è in crescita il tasso di mortalità delle imprese e circa un milione di individui, prevalentemente giovani con alta scolarizzazione, hanno lasciato il Sud nell’ultimo decennio, prefigurando, se la tendenza persiste – un Mezzogiorno popolato prevalentemente da individui di età superiore ai 60 anni nel 2030. La disponibilità di beni pubblici essenziali (sanità, istruzione, trasporti) è in larghissima misura insufficiente, sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo.
La riduzione dei trasferimenti agli Enti locali è pienamente coerente con questa linea, e non può non peggiorare le condizioni di vita soprattutto dei cittadini meridionali e soprattutto rendere ancora più inefficiente il funzionamento delle amministrazioni periferiche.
La motivazione governativa, con riferimento al Sud – richiama le programmazioni “disinvolte”degli Enti locali meridionali, sottolineando la necessità di monitorare la spesa e sanzionare gli sprechi.
Questa impostazione necessita di almeno due chiarimenti.
1) Il fatto che gli amministratori meridionali siano meno capaci dei loro colleghi del resto d’Italia è qui posto come un assunto, che, a parte qualche imbarazzante dichiarazione di esponenti leghisti, sembrerebbe implicitamente rinviare a un dato antropologico: i meridionali, proprio perché meridionali, non sanno gestire la cosa pubblica. Niente altro che una riproposizione della nota tesi del “familismo amorale” che caratterizzerebbe gli abiti mentali delle popolazioni meridionali.
2) Non si capisce cosa si intende esattamente per spreco di risorse. La categoria dello spreco è, in moltissimi casi, una categoria relativa, nel senso che ciò che è spreco per alcuni gruppi sociali può non esserlo per altri. A titolo puramente esemplificativo, si consideri il caso del Ponte sullo stretto di Messina. E’ noto che gran parte della popolazione siciliana lo considera spreco, preferendo . a parità di finanziamenti . il potenziamento delle infrastrutture interne all’Isola. E tuttavia, la costruzione del Ponte non sarà certamente uno spreco di risorse per le imprese che saranno chiamate a realizzarlo (ove mai dovesse essere realizzato).
Se si prescinde dall’uso illecito delle risorse pubbliche, e dai rapporti di connivenza con la criminalità organizzata, che evidentemente configurano rilievi penali e che costituiscono un capitolo a parte rispetto alle proposte del Governo, occorre considerare il fatto ovvio che il funzionamento della pubblica amministrazione non è indipendente dal contesto sociale ed economico nel quale essa opera. In particolare, in contesti di alta disoccupazione e di bassi salari, la Pubblica Amministrazione tende a svolgere un ruolo ‘improprio’ di datore di lavoro di ultima istanza, e ciò in prima battuta del tutto indipendentemente dalle capacità di chi amministra. Dunque, se esistono sprechi, essi si generano perché le condizioni economiche e sociali dell’area sono degradate, non perché chi amministra è incompetente. In una situazione di questo tipo, si genera un circolo vizioso: al crescere della disoccupazione peggiora il processo di selezione degli amministratori locali, e ciò comporta il fatto che l’uso delle risorse pubbliche diventa progressivamente meno produttivo. In tal senso, la riduzione dei trasferimenti agli Enti locali rischia di produrre esattamente gli effetti che il Governo auspica non si producano.
Se si accoglie questa tesi, l’impostazione di politica economica fatta propria dal Governo andrebbe ribaltata: maggiore spesa pubblica e minore tassazione nel Mezzogiorno costituirebbero la principale strategia per l’aumento della domanda e, dunque, dell’occupazione, innescando un circolo potenzialmente virtuoso stando al quale le amministrazioni locali si troverebbero nella condizione di poter usare in modo più efficiente le risorse disponibili. Giacché, contrariamente all’opinione dominante, corruzione, sprechi e inefficienze si generano proprio quando le risorse sono scarse.
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Sacconi: quando il furore ideologico frena la crescita
[MicroMega online del 14 settembre 2011]
La manovra finanziaria appena approvata, come rilevato dalla gran parte dei commentatori e da Confindustria, è interamente finalizzata a cercare di ridurre l’indebitamento pubblico, e il Governo intende rinviare a un successivo intervento l’adozione di misure di politica economica per la crescita. Il Fondo Monetario Internazionale stima, per il prossimo anno, un tasso di crescita dell’economia italiana inferiore a un punto percentuale, ed è probabile che il tasso di crescita nel quarto trimestre del 2011 abbia segno negativo.
Le cause della bassa crescita italiana, che risale ad almeno un decennio, sono molteplici e, fra queste, le piccole dimensioni aziendali della gran parte delle nostre imprese sembra costituirne una delle più rilevanti. Ciò per due ragioni. In primo luogo, le imprese di piccole dimensioni, di norma, sono poco innovative, soprattutto perché – avendo difficile accesso al credito bancario e disponendo di margini di profitto bassi – non sono nelle condizioni di finanziare l’adozione di nuovi processi produttivi e/o di nuovi prodotti. In tal senso, la nostra struttura produttiva non è tale da produrre significativi incrementi di produttività. In secondo luogo, il ‘nanismo imprenditoriale’ è, di norma, associato a bassi salari e a elevato rischio di fallimento, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione in particolare nelle fasi recessive. In questo contesto, essendo mediamente bassi i salari, sono bassi i consumi e, a seguire, è debole l’incentivo ad accrescere gli investimenti. A ciò si aggiunge che, salvo rare eccezioni, le imprese di piccole dimensioni operano prevalentemente su mercati locali e, dunque, non essendo presenti sui mercati internazionali non contribuiscono alla crescita del Pil attraverso le loro esportazioni. Il problema è accentuato nel Mezzogiorno, dove, su fonte Svimez, circa il 90% delle imprese esistenti ha meno di nove dipendenti. Ha contributo non poco a definire questa struttura produttiva – e dunque a decretare l’inefficacia delle politiche industriali – la retorica del “piccolo è bello”, che ha dominato per lunghi anni il dibattito di politica economica in Italia, e che torna periodicamente a legittimare improbabili invocazioni alla cooperazione fra capitale e lavoro, che costituirebbero il tratto distintivo della piccola impresa e, dunque, il tratto distintivo della struttura produttiva italiana.
Va rilevato che il ‘nanismo
imprenditoriale’ italiano è stato (ed è) anche incentivato dalle politiche di
precarizzazione del lavoro. Ciò per la seguente ragione. I lavoratori con
contratti a tempo determinato, in ragione dell’elevata incertezza in ordine al
rinnovo del loro contratto, tendono a comprimere i loro consumi correnti, per
eventualmente attingere ai risparmi accumulati durante il periodo di lavoro in
caso di licenziamento. A parità di altre circostanze, ciò genera una domanda di
beni e servizi inferiore a quella che potrebbe generarsi in condizioni di
maggiore regolamentazione contrattuale. Conseguentemente, le imprese tendono a
reagire comprimendo la produzione e, dunque, ad assestarsi su soglie
dimensionali più basse di quelle che potrebbero raggiungere nel caso in cui la
domanda fosse più alta. Vi è di più. La precarizzazione del lavoro tende anche
a ridurre la produttività, per la seguente ragione. In assetti produttivi nei
quali la produzione è il risultato della cooperazione fra lavoratori
all’interno di un team, la produttività del lavoro dipende in modo
significativo dal grado di cooperazione fra lavoratori, che, a sua volta, si
traduce nel passaggio di informazioni e, più in generale, nella loro attitudine
alla reciprocità. In condizioni nelle quali è elevato il grado di incertezza in
ordine al rinnovo del contratto di lavoro, è ragionevole ritenere che la
cooperazione fra lavoratori si riduca. In tal senso, la ‘flessibilità’
contrattuale tende a promuovere la competizione (o il conflitto) fra lavoratori, riducendo la produttività del team.
A fronte di questa evidenza, il Ministro Sacconi sta predisponendo ulteriori
misure di flessibilità contrattuale. Ci si riferisce, in particolare, alla
norma che vieta il licenziamento senza giusta causa – cardine dello Statuto dei
lavoratori – che potrà essere agevolmente aggirata da “accordi locali” fra impresa
e sindacato. Si può notare che questo dispositivo – rendendo di fatto più
facili i licenziamenti – e per di più applicato in fase recessiva non potrà
produrre altri risultati se non un aumento della disoccupazione e,
contestualmente, introdurre ulteriori incentivi per le imprese a non accrescere
le proprie dimensioni. E a seguire: riduzione dei consumi, riduzione della
produttività, disincentivo alle innovazioni. In definitiva, un provvedimento –
definito “rivoluzionario” dalla propaganda governativa – dal quale non ci si
può attendere altro che un ulteriore freno alla crescita. Nulla di tutto
questo, però, nelle previsioni del Ministro Sacconi. La ratio che ispira questo provvedimento, a suo avviso, sta nella
convinzione che le ‘nuove’ relazioni industriali sono (o devono essere)
ispirate a principi di collaborazione fra datori di lavoro e lavoratori,
secondo una logica per la quale il conflitto non è fra capitale e lavoro, ma è
‘orizzontale’, fra lavoratori precari e lavoratori iperprotetti. Dove questi ultimi
sono responsabili delle peggiori condizioni di lavoro dei primi. Volendo dare
credito ‘scientifico’ a questa tesi, si può ricordare la celebre tesi del
Premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson: “In un mercato perfettamente
concorrenziale, non importa chi assume: il capitale può assumere lavoro, così
come il lavoro può assumere capitale”. Ma Samuelson si riferiva a mercati
perfettamente concorrenziali: nulla di più lontano dal mondo nel quale viviamo.
Con ogni evidenza, la linea Sacconi si muove nella direzione – già intrapresa da molti anni in Italia – di mettere le nostre imprese in condizioni di competere comprimendo i costi di produzione e, in particolare, i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori. Una linea che non tiene conto del fatto che la precarizzazione del lavoro riduce i consumi e riduce la produttività. Ovvero, in ultima analisi, una linea di politica del lavoro che non fa altro che accentuare la recessione.
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A costo zero: riscrivere la legge Biagi!
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 ottobre 2011 col titolo Così la crescita viene bloccata dalla precarietà]
Nel dibattito sulla crisi in corso, con particolare riferimento al caso italiano, sembra che si sia raggiunto un sostanziale accordo sul fatto che il principale problema dell’economia italiana non è tanto l’elevato volume del debito pubblico, quanto soprattutto la bassa crescita economica. L’orientamento dominante fa propria la convinzione che occorra coniugare rigore di bilancio e misure che incentivino consumi e investimenti. Il che significa ipotizzare una linea di politica economica che – con un tratto di penna e senza oneri per la finanza pubblica – faccia aumentare il PIL. Un equilibrio molto difficile da mantenere, ma in merito al quale si possono porre alcune considerazioni.
Poiché gli investimenti dipendono in larghissima misura dalle aspettative imprenditoriali, è piuttosto difficile immaginare interventi di politica economica che, per soli effetti di annuncio, ne producano l’aumento. Appare, dunque, più efficace, quantomeno nel breve periodo, provare ad agire sui consumi.
Su questo aspetto, si può partire dalla constatazione stando alla quale la bassa crescita dell’economia italiana è in larga misura imputabile alla modesta dinamica della spesa delle famiglie, a sua volta connessa al basso livello dei salari (e alla loro continua riduzione). Si osservi che questo non è un accidente prodotto dalla crisi in corso. Il Fondo Monetario Internazionale stima che, negli ultimi dieci anni, il tasso di crescita in Italia si è assestato a un modesto 2.43% e che il PIL pro-capite resta ai livelli del 1998, a fronte di una crescita media nell’eurozona di oltre 10 punti percentuali superiore nel periodo considerato.
Con riferimento ai salari, l’OCSE registra che lo stipendio netto di un lavoratore italiano è di circa 1.300 euro al mese, a fronte dei 2.800 euro al mese di un suo collega inglese. Il salario medio di un lavoratore tedesco è di circa il 24% superiore a quello di un lavoratore italiano e quello di un francese di quasi il 18%. Fra i 30 Paesi industrializzati presi in considerazione, l’Italia si colloca al 23esimo posto per livello medio delle retribuzioni, seguita da Portogallo, Turchia, Repubblica Ceca, Messico, Slovacchia e Ungheria.
Le misure di precarizzazione del lavoro spiegano parte del problema, e non vi è dubbio – come peraltro evidenziato dall’OCSE, nel Rapporto Growing unequal del 2008 – che la riduzione dell’indice di protezione dei lavoratori (EPL) ha significativamente contribuito alla riduzione della quota dei salari sul prodotto interno lordo, contribuendo a ridurre il tasso di crescita e l’occupazione. Ciò a ragione di due circostanze.
1) La precarietà disincentiva le innovazioni. Se un’impresa può ottenere profitti mediante l’uso ‘flessibile’ della forza-lavoro, e, dunque, comprimendo i salari e i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, non ha alcuna convenienza a utilizzare risorse per finanziare attività di ricerca e sviluppo. Le quali, peraltro, danno risultati di lungo periodo, difficilmente compatibili con ritmi di competizione – su scala globale – sempre più accelerati. La compressione delle innovazioni riduce il tasso di crescita e, di conseguenza, l’ammontare di prodotto sociale destinabile al lavoro dipendente. In più, in assetti produttivi nei quali la produzione è il risultato della cooperazione fra lavoratori all’interno di un team, la produttività del lavoro dipende in modo significativo dal grado di cooperazione fra lavoratori, che, a sua volta, si traduce nel passaggio di informazioni e, più in generale, nella loro attitudine alla reciprocità. In condizioni nelle quali è elevato il grado di incertezza in ordine al rinnovo del contratto di lavoro, è ragionevole ritenere che la cooperazione fra lavoratori si riduca. In tal senso, la ‘flessibilità’ contrattuale tende a promuovere la competizione (o il conflitto) fra lavoratori, riducendo la produttività del team.
2) La precarietà riduce la propensione al consumo. La somministrazione di contratti a tempo determinato accresce, infatti, l’incertezza dei lavoratori in ordine al reddito futuro. Al fine di mantenere un profilo di consumi nel tempo quanto più possibile inalterato – ovvero al fine di non impoverirsi nel caso di mancato rinnovo del contratto – è ragionevole attendersi un aumento dei risparmi oggi per far fronte all’eventualità di dover consumare domani senza reddito da lavoro. Contestualmente, per l’operare di ciò che viene definito ‘effetto di disciplina’, la minaccia di licenziamento accresce l’intensità del lavoro. Il corollario è duplice: da un lato, le imprese fronteggiano una domanda di beni di consumo in calo; dall’altro, possono produrre quantità maggiori di beni e servizi con un numero inferiore di lavoratori. L’esito inevitabile è il licenziamento o la non assunzione.
Si osservi anche che la somministrazione di contratti a tempo indeterminato consente la crescita della domanda anche per il tramite della maggiore solvibilità dei lavoratori e, dunque, del più semplice accesso a finanziamenti bancari. E’ del tutto ragionevole ipotizzare un effetto positivo, in primis, sulla domanda di abitazioni e, a seguire, sull’indotto in quel mercato.
Se si intende far riprendere la crescita economica in Italia senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, non si dovrebbe escludere ciò che l’evidenza teorica ed empirica suggerisce e trarne le dovute conseguenze. Riscrivere la legge 30/2003 (la cosiddetta Legge Biagi) è appunto un’operazione a costo zero.
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La grande farsa della lotta all’evasione
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 16 ottobre 2011]
Le misure di austerità – riduzione della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale – sebbene volute dall’Unione Europea stanno generando, in particolare per l’Italia, gli effetti perversi che molti economisti si attendevano. In assenza di crescita dei consumi, impossibile data la continua riduzione dei salari e dell’occupazione, e in assenza di crescita degli investimenti, date le aspettative pessimistiche degli imprenditori, la riduzione della spesa pubblica non può generare altri effetti se non ulteriore riduzione del PIL. Si può osservare che le aspettative degli imprenditori sono rese sempre più pessimistiche da un contesto politico, particolarmente quello italiano, che non assicura stabilità istituzionale, né fornisce prospettive ragionevoli e credibili in ordine a possibili misure per la crescita. Si genera, così, una spirale perversa per la quale quanto più si riducono le retribuzioni e l’occupazione, tanto minori sono le entrate fiscali, e – per cercare di non accrescere l’indebitamento pubblico – tanto più il Governo deve ridurre la spesa e/o aumentare la pressione fiscale. Ed è quanto le recenti manovre finanziarie hanno fatto, generando l’effetto (apparentemente) paradossale di far crescere l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL a fronte di politiche fiscali restrittive. Su fonte Banca d’Italia, si registra un aumento di questo rapporto, dal 2010 al 2011, pari al 2.5%.
Il dogma secondo il quale il problema dell’economia italiana consiste nell’elevato debito pubblico in rapporto al PIL resta tale, e sta a giustificare queste politiche. Si badi che si tratta di un dogma, nel senso che non vi è alcuna dimostrazione teorica o empirica che quantifichi, in modo inoppugnabile, il limite oltre il quale l’indebitamento di uno Stato diventa insostenibile.
Le reiterate invocazioni di molti economisti a perseguire una strada diversa, potenziando semmai le politiche di sostegno dei redditi non riescono a persuadere i responsabili della politica economica europea a cambiare passo. Anche perché (e ci si riferisce alla Germania) non vi è alcuna convenienza a farlo: un eventuale aumento della spesa pubblica nei Paesi periferici del continente (i c.d. PIIGS) avrebbe come effetto un aumento del tasso di cambio e, dunque, la riduzione della competitività delle imprese europee (e tedesche in particolare) nei mercati internazionali. Per un’economia come quella tedesca trainata appunto dalle esportazioni, è esattamente ciò che non può essere auspicato.
In questo scenario, la ripresa della crescita dell’economia italiana – attualmente di poco superiore allo 0% – dovrebbe passare per il contrasto all’evasione fiscale e il conseguente utilizzo di quelle risorse per politiche di redistribuzione del reddito. Le ultime stime sull’evasione fiscali – ovviamente opinabili, in quanto stime di un fenomeno sommerso – fanno riferimento a circa 270 miliardi di base imponibile evasa e di circa 120 miliardi di imposte non pagate. Per meglio comprendere l’entità del fenomeno, si consideri che questi importi sono superiori al 20% del PIL, e che la spesa sanitaria nazionale ammonta a 100 miliardi di euro. A ciò si può aggiungere che l’incidenza dell’evasione fiscale in Italia è la più alta fra i Paesi OCSE, seguita soltanto dalla Grecia, che Francia e Germania sperimentano un’incidenza dell’evasione inferiore al 12%.
Nel recente passato, la linea dominante faceva riferimento a una tesi, già sperimentata senza successo negli Stati Uniti dei primi anni ottanta, stando alla quale la riduzione delle aliquote di imposta incentiva il pagamento delle tasse. Al di là degli aspetti tecnici della questione, va rilevato che la filosofia che ispirava questi provvedimenti si fondava (e si fonda) sulla convinzione che se lo Stato “mette le mani nel portafogli” dei contribuenti commette un furto.
Si tratta di una linea oggi impraticabile, dal momento che è semmai l’aumento della pressione fiscale ciò che ci viene chiesto di fare. Il Governo non ha individuato altre misure se non quella estrema del considerare l’evasione un reato, penalmente perseguibile. Ci si può chiedere – astraendo da fattori di natura etica – per quale ragione un cittadino italiano dovrebbe pagare le tasse – se è nella condizione di poter evadere – a fronte della riduzione della spesa pubblica e soprattutto del peggioramento della qualità dei servizi offerti dallo Stato. Così che è semmai la riduzione della spesa pubblica (e la peggiore qualità dei servizi pubblici offerti) a rendere ancora più conveniente l’evasione. L’evidenza empirica disponibile segnala che: 1) l’ammontare assoluto dell’evasione fiscale in Italia – dal dopoguerra a oggi – ha raggiunto i suoi valori minimi negli anni nei quali è stato maggiore l’intervento pubblico in economia (anni ’70-’80) che 2) l’evasione fiscale tende ad aumentare nelle fasi recessive e che 3) l’ammontare assoluto dell’evasione fiscale è tanto maggiore quanto più diseguale è la distribuzione del reddito. A ciò va aggiunto che la c.d. globalizzazione, e il conseguente aumento dei ‘paradisi fiscali’, ha consentito di occultare reddito tassabile, a danno dei Paesi nei quali esiste una normativa (più o meno severa) di contrasto all’evasione fiscale.
Non può destare sorpresa, dunque, che le misure di austerità – oltre a comprimere la crescita e a ridurre la base imponibile (per effetto delle più basse retribuzioni e della maggiore disoccupazione) – abbiano l’ulteriore effetto perverso di incentivare il mancato pagamento delle imposte, rendendo necessarie ulteriori misure di riduzione della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale. Evidentemente a danno di coloro che non possono evadere. Occorre rilevare che, al di là del problema etico qui implicato, se non si intende far crescere salari e occupazione attraverso politiche fiscali espansive, l’aumento dell’evasione fiscale si traduce pressoché automaticamente in riduzione dei redditi al netto della tassazione. E ciò contribuisce ad amplificare la spirale deflazionistica, dal momento che la riduzione dei redditi si associa a minori consumi e a minore crescita economica.
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La spirale dei giovani poveri
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 22 ottobre 2011]
La manifestazione romana degli “indignati” ha posto in modo eclatante all’attenzione pubblica il problema – non solo italiano – del crescente disagio delle giovani generazioni. Va rilevato che, fin qui, nel dibattito sulle politiche per la crescita economica in Italia non sembra si dia particolare attenzione alla condizione giovanile e agli effetti che il progressivo impoverimento delle nuove generazioni eserciterà nei prossimi anni. L’unica voce autorevole che, di recente, ha maggiormente insistito sul problema è quella di Mario Draghi, che, appunto, si è limitato a porre in evidenza l’esistenza di una preoccupante “questione giovanile”, senza, tuttavia, esprimersi sui possibili rimedi. L’evidenza empirica segnala che un milione e 200 mila giovani di età inferiore ai 35 anni (circa il 16% della forza-lavoro) sono inoccupati. La condizione di inoccupazione per i giovani di età inferiore ai 24 anni riguarda il 29,6% della forza-lavoro, a fronte di una media europea del 21%. La disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno si assesta intorno a una percentuale del 50%, in un Paese nel quale l’età media è elevata e l’incidenza della popolazione giovanile rispetto alla popolazione residente è significativamente bassa. In più, nell’ultimo Rapporto ISTAT si legge che il tasso di risparmio nazionale lordo, a fronte di un valore medio del 22,4% nel decennio 1981-1990, si è ridotto al 20,7% nel decennio successivo. Il declino è continuato nei primi anni del nuovo millennio, attestandosi a meno del 16%, con previsione di ulteriore contrazione. In sostanza, già a partire dagli anni novanta, non solo non si è generato risparmio aggiuntivo, ma si è distrutto risparmio privato.
L’aumento della disoccupazione giovanile sembra spiegare in larga misura la riduzione dei risparmi privati in Italia. Ciò a ragione del fatto che, in una condizione di elevata disoccupazione o precarizzazione del lavoro, i consumi delle giovani generazioni derivano, in larga misura, dai risparmi delle famiglie d’origine. Il che dà luogo a un circolo vizioso stando al quale, poiché una quota crescente dei consumi correnti è finanziata dai risparmi passati, la progressiva riduzione di questi ultimi non può che generare la progressiva riduzione dei consumi, dunque della domanda e dell’occupazione. Ciò anche a ragione del fatto che, di norma, la propensione al consumo dei giovani è superiore a quella degli individui di età superiore. A ciò si aggiunge il fatto che la riduzione dei risparmi riduce il potere contrattuale dei lavoratori, dal momento che l’indisponibilità di redditi non da lavoro costringe ad accettare qualunque offerta di posto di lavoro, anche se in condizioni di sottoccupazione intellettuale o in condizioni di irregolarità. Anche per effetto di questo meccanismo, la continua riduzione dei risparmi familiari dai quali attingere genera la progressiva riduzione dei salari (e il progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro), con effetti negativi sulla domanda e sull’occupazione. Il circolo vizioso è amplificato dalla preclusione all’accesso al credito bancario per coloro – ed è il caso della gran parte dei giovani italiani in età lavorativa – che lavorano con contratti a tempo determinato e, ancor di più, per gli inoccupati e per i disoccupati. In altri termini, la precarietà diffusa riduce la domanda anche per effetto del minore indebitamento privato rispetto al caso in cui un numero minore di lavoratori abbia contratti a tempo indeterminato e, dunque, abbia la possibilità di accesso al credito.
Vi è di più. La crescita della disoccupazione giovanile genera effetti negativi anche dal lato dell’offerta, in quanto influisce sulla produttività del lavoro. I termini della questione possono essere schematicamente così definiti. A fonte del fatto che i lavoratori ‘anziani’ possiedono competenze derivanti dall’esperienza acquisita lavorando, e tendono a gestire processi routinari, i lavoratori giovani sono maggiormente in grado di gestire (e promuovere) i cambiamenti, ovvero – e per quanto attiene all’ambito propriamente economico – sono maggiormente in grado di adattarsi alle innovazioni, o anche di promuoverle. In altri termini, sono mediamente più creativi dei loro colleghi anziani. Si può, quindi, sostenere che – in linea generale – l’esistenza di un’elevata disoccupazione giovanile costituisce un potente freno all’avanzamento tecnico, alla generazione di innovazioni e, dunque, alla crescita di lungo periodo. Il fenomeno è accentuato dal deterioramento della qualità della forza-lavoro che si associa a periodi prolungati di disoccupazione, sia nel senso che i disoccupati di lungo periodo trovano maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro, sia nel senso che gli individui istruiti e disoccupati di lungo periodo sono soggetti a “obsolescenza intellettuale”: perdono, nel tempo, le conoscenze acquisite, ovvero non sono in grado di adeguarsi alle nuove competenze richieste. In questo scenario, lo ‘tsunami demografico’ che, stando alla SVIMEZ, sta investendo – e investirà – il Mezzogiorno non è solo un problema sociale. E’ anche, e soprattutto, un problema economico che non potrà che accentuare i differenziali regionali, soprattutto a ragione dei flussi continui e consistenti di emigrazione intellettuale e dell’aumento, nelle regioni meridionali, della disoccupazione giovanile.
Si badi che, in assenza di interventi esterni, questa spirale perversa è destinata a perpetuarsi nel tempo. E l’esperienza storica insegna che la conflittualità sociale si manifesta nella sua massima intensità proprio quando è elevata la disoccupazione giovanile e, in particolare, quando i giovani disoccupati sono molto istruiti.
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Lavoro, politiche miopi
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 ottobre 2011]
Ad oggi, l’Italia è, fra i Paesi OCSE, il Paese meno generoso nell’erogazione di sussidi di inoccupazione e di disoccupazione. Come certificato dalla Commissione Europea, limitandosi ai soli Paesi della zona euro, l’incidenza dei trasferimenti pubblici a beneficio dei disoccupati è, in Italia, pari a circa il 10%, a fronte di una media pari al 40%. Lo scenario peggiora notevolmente se si considerano i trasferimenti pubblici i cui destinatari sono individui di età compresa fra i 20 e i 30 anni. In altri termini, le giovani generazioni non solo entrano in un mercato del lavoro nel quale, nella migliore delle ipotesi, il contratto di lavoro è a tempo determinato (se non irregolare), ma, in caso di mancato rinnovo del contratto, non hanno benefici da parte dello Stato, potendo contare sui soli trasferimenti dalle proprie famiglie. La Banca d’Italia stima, a riguardo, che soprattutto per la crescita della spesa pubblica (e del debito pubblico) fra il 1965 e il 1995, i nati fra il 1940 e il 1950 sono gli individui che maggiormente hanno beneficiato di trasferimenti pubblici, principalmente sotto forma di sussidi di disoccupazione e pensioni. Utilizzando la convenzione secondo la quale fra una generazione e la successiva intercorrono 25 anni, risulta che delle tre ultime generazioni, quella che fa riferimento ai nati dopo il 1970 è nella condizione peggiore, sia per quanto attiene alla probabilità di trovare lavoro, sia per quanto attiene alla quota di spesa pubblica a suo beneficio.
A fronte dell’esistenza, particolarmente in Italia, di una preoccupante “questione giovanile”, non sembra che il Governo ne faccia una priorità. E la resistenza all’erogazione di sussidi ai giovani continua a essere sostenuta con tesi alquanto discutibili.
La convinzione dominante si basa sull’idea secondo la quale l’erogazione di sussidi genera effetti macroeconomici indesiderati, per l’operare di due meccanismi. In primo luogo, si ritiene che a fronte della percezione di redditi non da lavoro, gli inoccupati e i disoccupati reagiscano riducendo il tempo dedicato all’attività di ricerca di lavoro e, dunque, accrescendo la popolazione inattiva. In secondo luogo, si ritiene che l’erogazione di sussidi riduca la produttività, dal momento che i lavoratori occupati, sapendo che, in caso di licenziamento, disporranno comunque di un reddito erogato dallo Stato, avranno maggiore incentivo a lavorare meno. Si può, per contro, argomentare che l’ampliamento delle ‘reti di protezione sociale’ – oltre a costituire un dispositivo per la coesione sociale e il contenimento della conflittualità – ha effetti positivi sulla crescita economica, soprattutto mediante l’azione di contrasto che esse generano nei confronti dell’economia sommersa. Ciò per le seguenti ragioni.
1) L’erogazione di sussidi di disoccupazione accresce i consumi, dunque la domanda aggregata e l’occupazione. La crescita dell’occupazione rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, traducendosi in un aumento dei salari. Fermo restando il salario corrisposto nell’economia irregolare, ciò determina un aumento dei differenziali salariali nei due settori, con il risultato ragionevolmente attendibile di un aumento dell’offerta di lavoro nel settore regolare (e la contestuale riduzione dell’offerta di lavoro nel sommerso).
2) L’aumento dei sussidi disincentiva l’offerta irregolare di lavoro dal momento che accresce il salario di riserva, ovvero il salario minimo al quale ciascun individuo è disposto a lavorare. Ciò consente di rendere più accurata l’attività di ricerca del lavoro e scoraggia la collocazione dei lavoratori nel settore irregolare. Si consideri che, soprattutto nel Mezzogiorno, le prime offerte di posti di lavoro che giungono agli inoccupati (anche con elevato grado di scolarizzazione) sono offerte con rapporti di lavoro irregolari. Beneficiando di indennità di inoccupazione, questi individui hanno maggiore possibilità di rifiutarle, potendo attendere occasioni di lavoro più coerenti con le loro competenze e soprattutto regolari.
Per quanto attiene agli effetti dei sussidi sulla produttività del lavoro, la linea di policy qui proposta risiede su un meccanismo di tipo ‘smithiano’, così sintetizzabile. In quanto “la divisione del lavoro è limitata dall’ampiezza del mercato” e la divisione del lavoro accresce la produttività, l’aumento della spesa pubblica (qui sotto forma di estensione delle reti di protezione sociale) – proprio perché incide positivamente sull’”ampiezza del mercato” – esercita effetti positivi sulla produttività del lavoro e, dunque, sul tasso di crescita. Vi è di più. Non vi è dubbio che una parte dell’economia sommersa è in rapporti di complementarietà con l’economia regolare: ovvero imprese regolari riescono a ottenere profitti anche grazie al fatto che acquistano prodotti intermedi a basso costo da imprese irregolari. In una condizione di questo tipo, azioni di contrasto al sommerso non possono che spingere le imprese regolari verso modalità di competizione non basate sulla compressione dei costi di produzione, costituendo – questo – un incentivo a innovare.
È evidente che queste azioni possono essere poste in essere solo a condizione di un radicale ripensamento delle politiche di austerità. Vi sono ottime ragioni per farlo. L’irrazionalità delle politiche di compressione della spesa pubblica in regime di crisi è ormai palese, non soltanto perché l’obiettivo della stabilizzazione del rapporto debito pubblico/PIL non lo si riesce a raggiungere con politiche fiscali restrittive (anzi si allontana sempre più); non soltanto perché misure ‘draconiane’ di compressione della spesa producono riduzione dell’occupazione e dei salari, attivando spinte conflittuali la cui repressione è essa stessa costosa; ma anche perché favoriscono la collocazione di imprese e lavoratori in settori irregolari dell’economia, generando – anche per questo effetto – ulteriore riduzione del tasso di crescita.
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L’austerità e la coesione sociale
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 6 novembre 2011]
Il modello di sviluppo che è alla base delle politiche di austerità messe in atto dall’Europa negli ultimi due anni è un modello basato sulla crescita trainata dal reinvestimento dei profitti, dato il vincolo di bilanci pubblici tendenzialmente in pareggio. Le motivazioni teoriche che ne sono a fondamento stanno nella convinzione che la spesa pubblica è, per sua stessa natura, improduttiva; che non contribuisce alla crescita economica; che non ha effetti significativi sull’occupazione (e, se li ha, contribuisce a creare sacche di occupazione improduttiva nel settore pubblico) e che, soprattutto, accresce il debito pubblico.
A ciò si aggiunge che la crescita del debito pubblico è, in quanto tale, un problema. Si tratta di una motivazione priva di fondamento, le cui implicazioni di politica economica hanno il solo effetto di generare crescenti diseguaglianze distributive, e impoverimento crescente dei lavoratori e dei ceti medi, sia all’interno dei Paesi dell’euro zona, sia fra Paesi. Per quanto riguarda il primo aspetto, è ampiamente documentato – sul piano teorico ed empirico – che la spesa pubblica ha effetti positivi sull’occupazione e la crescita economica. Sia qui sufficiente ricordare che, restando al caso italiano, il maggiore tasso di crescita dell’ultimo quarantennio si è avuto nella stagione (dagli anni cinquanta alla prima metà degli anni ottanta) di maggiore intervento pubblico in economia e di maggiore espansione del debito pubblico. Né vale obiettare che proprio per aver accresciuto il debito pubblico negli anni della ‘finanza allegra’ l’attuale generazione è necessariamente costretta a subire politiche di rigore, che ne riducono il reddito disponibile. Si tratta di un nesso non cogente e per nulla necessario: l’indebitamento pubblico costituisce un trasferimento dell’onere fiscale sulle generazioni future solo a condizione che, una volta accresciuto, vi sia una decisione politica che ne imponga la riduzione. Ma, poiché di decisione politica si tratta, questo nesso non regge su nessun automatismo. Per quanto riguarda il secondo aspetto, occorre richiamare l’attenzione sul fatto che, con l’adozione dell’euro, la contestuale rinuncia alla sovranità monetaria e l’adesione al Trattato di Maastricht, l’economia italiana si è trovata nella condizione di dover individuare percorsi di crescita diversi da quelli tradizionalmente perseguiti. In particolare, data la sua struttura produttiva basata su imprese di piccole dimensioni specializzate nella produzione di beni a bassa intensità tecnologica, l’economia italiana è cresciuta – prima dell’adozione dell’euro – o mediante iniezioni di spesa pubblica (che hanno accresciuto i mercati di sbocco a vantaggio delle imprese) o mediante svalutazioni competitive, ovvero modifiche unilaterali del tasso di cambio, che hanno reso possibile – soprattutto nelle fasi di crisi – il recupero dei margini di profitto attraverso le esportazioni. L’adesione ai vincoli imposti dal Trattato di Maastricht e l’adozione dell’euro hanno reso impossibile riprodurre questo modello di crescita, sia per il vincolo imposto all’espansione della spesa pubblica, sia per l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione.
La deflazione salariale è apparsa l’unica strada percorribile, ed è stata sostenuta da reiterati provvedimenti normativi che hanno reso sempre più agevole un uso ‘discrezionale’ della forza-lavoro, in particolare mediante la crescente precarizzazione e l’indebolimento delle organizzazioni sindacali. Stando all’ultimo rapporto IRES, dal 2000 al 2010, si è prodotta una perdita cumulata di potere d’acquisto dei salari lordi di 3.384 euro (solo nel 2002 e nel 2003 si sono persi oltre 6.000 euro) che, sommata alla mancata restituzione del fiscal drag, si traduce in 5.453 euro in meno per ogni lavoratore dipendente alla fine del decennio.
Si può dunque affermare che, almeno per l’Italia, la via delle politiche di rientro del debito pubblico si è rivelata del tutto fallimentare: anche al netto della crisi, il tasso di crescita, nel trascorso decennio, è stato in media del 2% (ed è attualmente stimato a poco meno dell’1%) mentre il disavanzo delle partite correnti è passato dal pareggio del 1999 al -3,5% del 2010, con conseguente crescente indebitamento netto con l’estero.
Il patto fondativo dell’euro si reggeva su queste clausole implicite: consentire alla Germania di evitare la concorrenza di altri Paesi europei nei mercati internazionali, evitandone le speculazioni competitive, offrendo, in cambio, agli altri Paesi una maggiore garanzie di stabilità finanziaria, riducendo la probabilità di attacchi speculativi. Nelle condizioni attuali, non vi è dubbio che l’assetto istituzionale europeo giova prevalentemente ai Paesi centrali del continente e, in particolare, alla Germania, e che i Paesi periferici non possono permettersi di tornare alle loro valute pre-euro pena una significativa probabilità di subire attacchi speculativi (probabilità, incidentalmente, che si ridurrebbe di gran lunga se l’Unione Europea fosse uno Stato ed emettesse propri titoli del debito pubblico). Grazie al significativo aumento della produttività del lavoro generato dai flussi di innovazione, la crescita dell’economia tedesca è sempre più trainata dalle esportazioni. In tal senso, la Germania ha interesse a mantenere lo status quo, a ragione del fatto che – nel caso risulti non più socialmente sostenibile per i Paesi periferici restare nell’euro zona – le imprese collocate nel Mezzogiorno d’Europa riprenderebbero a competere sui mercati internazionali attraverso svalutazioni competitive, sottraendo quote di mercato alle imprese tedesche.
Va rilevato che un modello di sviluppo di questo tipo è socialmente insostenibile, dal momento che può reggersi solo a condizione che i salari – e più in generale il welfare state – vengano ulteriormente compressi (o quest’ultimo sempre più privatizzato), dando luogo a crescenti conflittualità sociali, che accentuano l’irrazionalità del disegno di politica economica che si sta perseguendo. Infatti, il conflitto sociale genera oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche per una duplice ragione:
1) In quanto va represso, esso richiede un impiego crescente di forza-lavoro improduttiva (il lavoro di sorveglianza e di repressione) che, per definizione, non contribuisce alla crescita economica.
2) In quanto il conflitto sociale peggiora le aspettative imprenditoriali, esso disincentiva gli investimenti, riduce il tasso di crescita e, dunque, il gettito fiscale, accentuando la disciplina fiscale, in una spirale viziosa stando alla quale chi è povero non è destinato a rimanere povero: è semmai destinato a impoverirsi ulteriormente.
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I ricatti per la crescita
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 novembre 2011]
Dopo quasi un ventennio di ossessione per la tenuta della finanza pubblica italiana, e dopo le conseguenti e reiterate politiche di riduzione della spesa pubblica, si è finalmente giunti a un accordo pressoché unanime – fra economisti, parti sociali e Istituzioni europee – che il vero problema dell’economia italiana (non solo di oggi) riguarda il rallentamento della crescita economica. Le proposte più chiare per rilanciare la crescita in Italia provengono da Confindustria: privatizzazioni, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, maggiore flessibilità del mercato del lavoro e soprattutto riduzione dell’imposizione fiscale sulle imprese. E’ evidente che alle imprese è quest’ultima proposta che maggiormente interessa. A riguardo, va preliminarmente rilevato che – su fonte Eurostat – l’aliquota massima dell’imposta societaria in Europa si è ridotta dal 40% del 1995 al 28% del 2007 e che, nel periodo considerato, non si è registrato un significativo aumento degli investimenti, in particolare in Italia. Su fonte Banca d’Italia, si registra che, fra il secondo dopoguerra e il primo decennio Duemila, in Italia il tasso di accumulazione, espresso come rapporto fra variazione degli investimenti fissi lordi in rapporto al prodotto interno lordo, si è costantemente ridotto, e in modo consistente: fra il 1973 e il 1995 la quota degli investimenti sul PIL è passata dal 24 al 18%.
Stando all’ISTAT, fra il 1980 e il 1996 il tasso di incremento dello stock di capitale fisso – su base annua – si è significativamente ridotto, passando dal 2.9% degli anni ottanta a meno del 2% degli anni novanta. Una dinamica di segno negativo si è verificata anche per quanto attiene al rapporto fra investimenti e stock di capitale negli ultimi quindici anni. Tale andamento è stato particolarmente pronunciato nel settore industriale, con un calo dell’accumulazione di capitale dal 7.3% del 1980 al 4.8%, del 1996. A ciò si aggiunge che gli investimenti realizzati sono stati effettuati prevalentemente in settori a bassa intensità di capitale e poco innovativi, e che, nel periodo considerato, i profitti sono cresciuti in modo rilevante.
La ratio della proposta confindustriale è solo apparentemente ovvia: la riduzione della tassazione sugli utili d’impresa incentiva gli investimenti. Il messaggio che si intende far passare è che ciò va a vantaggio dell’intera collettività, poiché a fronte dell’aumento degli investimenti c’è da attendersi maggiore occupazione e più alti salari.
A ben vedere, tuttavia, l’attivarsi di questo nesso è niente affatto scontato, dal momento che, per realizzarsi, occorre che si verifichi una duplice condizione.
1) L’aumento dei profitti netti – derivanti dalla minore tassazione – deve essere utilizzato per finanziare investimenti. Il che, stando all’evidenza empirica, non sempre e non necessariamente si verifica. Nelle condizioni attuali, vi sono buone ragioni per ritenere che il nesso aumento dei profitti – aumento degli investimenti non si attivi, o si attivi in misura poco significativa. Ciò a ragione del fatto che, in virtù della deregolamentazione dei mercati finanziari, diventa più semplice realizzare profitti monetari attraverso la speculazione. E soprattutto, a parità di altre condizioni, la realizzazione dei profitti attraverso scambio di moneta contro moneta è operazione più rapida rispetto alla realizzazione di profitti mediante la produzione e la vendita di beni e servizi. In termini più generali, il paradigma che è alla base delle dinamiche capitalistiche contemporanee è caratterizzato da ciò che viene definito il ‘divenire rendita del profitto’, ovvero la progressiva identificazione dei capitalisti in puri percettori di rendite.
2) Anche ammettendo che i profitti vengano interamente reinvestiti, affinché la proposta confindustriale si traduca in aumento dell’occupazione, deve accadere che le imprese non adottino tecniche di produzione labour saving, ovvero che non si determini disoccupazione tecnologica. In più, poiché la proposta di Confindustria è finalizzata alla ripresa della crescita economica in Italia, l’aumento dell’occupazione (eventualmente) conseguente all’aumento degli investimenti deve realizzarsi in loco. Si tratta di una condizione il cui verificarsi è altamente improbabile, a ragione della crescente mobilità internazionale dei capitali e, dunque, della convenienza da parte soprattutto delle imprese di grandi dimensioni a praticare politiche di “hit and run”: acquisire profitti in un Paese, grazie alla riduzione della tassazione sui capitali, per poi delocalizzare. In altri termini, poiché la ‘globalizzazione’ è associata a dumping fiscale (ovvero alla concorrenza fra Stati sulla riduzione della tassazione sui capitali per attrarre investimenti), la riduzione della pressione fiscale in Italia può non generare alcun effetto significativo sull’incremento degli investimenti interni e neppure sull’attrazione di capitali.
A ben vedere, la proposta di Confidustria può essere letta non tanto come finalizzata alla ripresa della crescita in Italia, ma come funzionale a una strategia difensiva rispetto alla ‘colonizzazione’, già in atto, del sistema produttivo italiano da parte di capitali esteri. Si consideri, a riguardo, che la struttura produttiva del nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda le imprese di grandi dimensioni (Bulgari e Parmalat, per stare alle più recenti acquisizioni da parte di capitali francesi) è in larga misura di proprietà di imprese non italiane. L’assenza di politiche industriali, nel corso almeno dell’ultimo decennio, ha significativamente contribuito a questo esito. Ed è difficile pensare che la fragilità del sistema produttivo italiano possa essere contrastata attraverso la sola riduzione della tassazione sugli utili d’impresa.
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L’Italia commissariata da Goldman Sachs
[in “Micromega” online del 12 novembre 2011]
C’è
da dubitare che lo tsunami finanziario che ha
investito (e sta investendo) l’Italia sia interamente imputabile alla scarsa
credibilità del Governo Berlusconi, sebbene sia indiscutibile che questa
esperienza di governo sia stata caratterizzata da un immobilismo
irresponsabile. Per dimostrarlo, occorre ripercorrere sinteticamente ciò che è
accaduto negli ultimi mesi, e chiarire preliminarmente i termini del problema.
Dalla scorsa estate, l’Italia è stata oggetto di ‘attacchi speculativi’ di
inaudita intensità, ovvero di vendita in massa di titoli del debito pubblico,
con successiva difficoltà nel collocarli sui mercati anche a tassi di interesse
elevati. La riduzione del prezzo dei titoli di Stato implica, infatti, che il
tasso di interesse ottenibile dai risparmiatori aumenta, ponendo lo Stato
italiano nella condizione di dover offrire un tasso più elevato per i nuovi
titoli emessi.
E’ così aumentato il differenziale dei rendimenti fra i titoli italiani – in
particolare i buoni del Tesoro con scadenza decennale – e i titoli del debito
pubblico tedeschi, prefigurando una condizione nella quale lo Stato italiano
potrebbe trovarsi impossibilitato a ripagare il debito contratto con i
sottoscrittori dei buoni del Tesoro e dichiarare fallimento.
L’opinione dominante fa propria la convinzione secondo la quale questo fenomeno sia stato, in ultima analisi, determinato dal basso tasso di crescita dell’economia italiana (il che è condivisibile) e, soprattutto, dalla scarsa credibilità del Governo in carica (il che dà adito a qualche dubbio). Innanzitutto, va chiarito – ove ve ne fosse bisogno – che non è possibile dare una misurazione della ‘credibilità’ di un’Istituzione. Stando all’opinione dominante, la credibilità di un Governo la si concepisce – in questa fase, e nel nostro caso – sulla base del rispetto delle ‘raccomandazioni’ della Banca Centrale Europea. Le quali – è opportuno ricordarlo – suggeriscono misure di austerità ancora più drastiche rispetto a quelle fin qui messe in atto: riduzione della spesa pubblica, maggiore precarizzazione del lavoro e facilità dei licenziamenti, privatizzazioni, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, riduzione dei costi della pubblica amministrazione e suo snellimento, con possibile riduzione degli stipendi – e maggiore mobilità – dei lavoratori del settore pubblico.
La convinzione che gli attacchi speculativi siano mossi dalla scarsa credibilità del Governo non sembra trovare adeguati riscontri empirici. Nell’aprile 2011 lo spread fra Btp e Bund tedeschi era circa pari a 120 ed è rimasto sostanzialmente stabile fino ad agosto. Nell’agosto scorso si è registrato un picco di 350 punti base, al quale ha fatto seguito una significativa flessione durante il mese di settembre. A ciò ha fatto seguito un’ulteriore impennata, che ha portato i differenziali a circa 600 punti base, con successiva riduzione di 100 punti. Fra aprile ed ottobre non si registrano iniziative governative di rilevanza tale da determinare queste oscillazioni. E non si capisce per quale ragione, a fronte dell’immobilismo governativo, i cosiddetti “mercati” abbiano generato questa volatilità. Si potrebbe avanzare la congettura secondo la quale la risposta del Governo Berlusconi alla lettera della BCE degli inizi di agosto sia stata ritenuta eccessivamente vaga e che, per questa ragione, il Governo abbia improvvisamente perduto credibilità. Ma appunto di congettura si tratta e, dunque, di qualcosa che andrebbe dimostrato.
La domanda più rilevante che occorre porsi, e che pare del tutto oscurata nel dibattito italiano, è banalmente cosa sono i mercati ai quali si fa qui riferimento, e, per conseguenza, quali fattori – economici e politici – muovono la speculazione. E’ una domanda centrale, dal momento che l’impopolarità dei provvedimenti che i “mercati” implicitamente chiedono (e che l’Unione europea esplicitamente raccomanda) può essere politicamente giustificata solo se vi sono ragioni cogenti e di massima urgenza per attuarli. E’ chiaro che, in questa materia, data l’opacità che caratterizza le transazioni finanziarie su scala globale, è facile scivolare in teorie del complotto. Ma, a fronte di questo, alcune indicazioni possono essere fornite. “Milano Finanza” ha recentemente riferito che “sui mercati si è diffusa la voce che sia stata Goldman Sachs a innescare le vendite di Btp, poi seguita dagli hedge funds e dalle altre banche d’oltreoceano”. Goldman Sachs è la più grande banca d’affari al mondo, ha guidato numerosi processi di privatizzazione e, secondo la classifica stilata annualmente dalla Vault, risulta anche essere la banca più prestigiosa del mondo. Il fatto che Goldman goda di elevata reputazione la candida naturalmente come leader della speculazione sui titoli del debito pubblico. Ciò a ragione del fatto che, come rilevava Keynes, la speculazione è “l’arte di capire cosa gli altri operatori di mercato pensano riguardo al futuro” e, stando alla sua ben nota metafora, per indovinare quale ragazza vincerà un concorso di bellezza non conta il giudizio del singolo, ma la capacità del singolo di capire come voterà la maggioranza dei giurati. In altri termini, l’attività speculativa è basata su meccanismi che hanno a che vedere con convenzioni ed effetti di imitazione, così che, se uno speculatore è ritenuto altamente affidabile, è ‘razionale’ per chi lo segue fare le stesse mosse.
Un recente comunicato di Goldman Sachs così recita: “Un governo tecnico [in Italia] avrebbe una maggiore credibilità rispetto ad altri esecutivi”. Il prof. Mario Monti è stato vicepresidente di Goldman Sachs. In prima approssimazione, non sembra difficile concludere che gli equilibri politici in Italia siano (quantomeno) profondamente influenzati da una banca di Jersey City. Si tratta di una conclusione di prima approssimazione, dal momento che questa congettura non spiega interamente la volatilità degli acquisti/vendite dei titoli del debito pubblico italiano. Vi è di più. La storia recente insegna che gli attacchi speculativi sono seguiti da ondate di privatizzazioni e di compressioni salariali (e dei diritti dei lavoratori): è accaduto in Italia a seguito della crisi del 1992, sta accadendo in Grecia. Su queste basi, si può affermare che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico italiano non hanno nulla a che vedere con le dimensioni del debito stesso, hanno poco a che vedere con i “fondamentali” della nostra economia (non peggiori dei nostri principali partner europei) e che, dunque, sono mossi, in ultima analisi, dalla convinzione che un esecutivo ‘tecnico’ – per di più guidato da un uomo che ha lavorato per le Istituzioni che guidano la speculazione – realizzi un programma di politica economica che consenta l’acquisizione di patrimonio pubblico nazionale: niente altro che il dominio della finanza sulla politica.
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Così l’Europa non sarà mai credibile
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 26 novembre 2011]
L’insediamento del Governo Monti ha suscitato un diffuso entusiasmo, raccogliendo in Parlamento un consenso senza precedenti nella Storia recente della Repubblica italiana, ma non ha accontentato i “mercati”. Il differenziale di rendimento fra titoli del debito pubblico italiano e Bund tedeschi – nelle ultime settimane – non si è ridotto in misura significativa (negli scorsi giorni è addirittura aumentato), a testimonianza del fatto che l’argomento della “credibilità” non regge alla prova dei fatti. L’argomento della “credibilità” si basa sulla convinzione secondo la quale gli attacchi speculativi che l’Italia ha subìto a partire dalla scorsa estate siano interamente imputabili all’inerzia del precedente Governo, e al suo evidente disinteresse per un maggiore impegno a favore della tenuta dell’euro. La risposta di Berlusconi alla lettera della BCE è stata, di fatto, eccessivamente generica rispetto alle attese della stessa BCE. Al punto che le stesse Istituzioni europee hanno ritenuto necessario inviare prontamente al Governo una sorta di interrogazione, redatta nella forma di questionario, nella quale si chiedeva di chiarire tempi e modalità di realizzazione degli obiettivi indicati. Procedura insolita, che si potrebbe giustificare con lo stato di emergenza, ma che solleva molti dubbi sul fatto che i Paesi dell’eurozona conservino (oltre a una parvenza di democrazia) anche la loro sovranità.
E’ probabile che l’entusiasmo per il Governo Monti sia il risultato della supposta fine dell’era berlusconiana, ma, sul piano strettamente economico, non sembra che sia cambiato molto. La domanda alla quale occorre dare risposta è semplicemente la seguente: che cosa esattamente si intende per credibilità di un Governo? In questa specifica fase storica, un Governo di un Paese europeo è ritenuto credibile se asseconda pienamente le richieste provenienti da Bruxelles. E occorre allora chiedersi se queste richieste sono sensate e condivisibili. Il Governo tedesco chiede di accelerare le misure di austerità già messe in atto nel biennio trascorso, con risultati di segno negativo sia per quanto attiene all’obiettivo di riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, sia per quanto attiene alla coesione sociale e alla crescita economica. A fronte di draconiane riduzioni della spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale, il rapporto debito/PIL è passato dal 107% del 2007 al 120% del 2011. Il tasso di crescita si assesta a poco più dello 0%. Le misure di austerità, in altri termini, hanno avuto l’effetto di accrescere la disoccupazione e ridurre i salari, peggiorando le condizioni materiali di vita delle c.d. classi medie e regalando ai giovani iniezioni addizionali di precarietà. Se occorre un Governo tecnico per perseguire su questa linea, vale la pena chiedersi se ciò abbia senso. Si badi che ciò non riguarda esclusivamente l’Italia. Sotto molti aspetti (in primis: la maggiore solidità del sistema bancario e il basso indebitamento privato), l’economia italiana oggi non ha “fondamentali” peggiori dei partner tradizionalmente considerati ‘forti’. E’ sufficiente considerare il caso francese. Lo spread fra i titoli di stato francesi a lungo termine e quelli tedeschi ha superato (il 17 novembre) i duecento punti; situazione identica a quella nella quale si trovava l’Italia un paio di mesi fa. Secondo i dati forniti dal Consiglio di Lisbona, per quanto attiene la crescita, la competitività e la sostenibilità del debito di 17 Paesi dell’eurozona, la Francia è collocata al tredicesimo posto, a fronte del quattordicesimo dell’Italia. Il governo francese negli ultimi tre mesi hanno prodotto tre manovre finanziarie di compressione della spesa pubblica: quanto ha fatto il nostro precedente Governo. In più, preoccupa il fatto che le banche francesi possiedono notevoli quantità di titoli greci, e comunque quantità superiori a quelle detenute dai nostri Istituti di credito.
Non vi è dubbio, quindi, che la crisi europea non è imputabile alla crisi fiscale dei Paesi cosiddetti periferici (l’Italia viene inclusa fra questi). Il problema è di carattere più generale. Le politiche di austerità non fanno altro che accentuare i problemi di un’Unione fra Stati concepita come pura unione monetaria e basata, fin dalla sua nascita, su un’impostazione liberista. Il problema è che, semmai, è l’Europa nel suo complesso a non essere “credibile” nella percezione degli investitori, o meglio a non disporre di strumenti efficaci per contrastare la speculazione. Fare profitti speculando sui titoli del debito pubblico europeo è l’operazione più semplice che gli investitori possono fare. Per due ragioni. In primo luogo, non esiste, in Europa, una politica fiscale unica, né è possibile emettere titoli del debito pubblico europei sostitutivi dei titoli dei singoli Stati. Se, per contro, ci trovassimo in questa situazione (e, quindi, nella sostanziale unificazione politica europea), il rischio di fallimento sarebbe prossimo allo zero. In secondo luogo, la BCE non opera come lender of last resort, ovvero non acquista in modo sistematico titoli dei Paesi oggetto di attacchi speculativi (indipendentemente dal fatto che si tratti della Grecia o dell’Italia). Non lo fa perché non è stata creata per farlo e, quando lo ha fatto, ha agito in deroga alla sua ‘missione’ (che, per Statuto, consiste nel solo controllo del tasso di inflazione). Non è stata creata per questo obiettivo perché si è ritenuto che l’intervento sui mercati finanziari da parte della Banca Centrale costituisca un’indebita ingerenza delle Istituzioni nel libero funzionamento di quei mercati, assumendo che i mercati finanziari (ipotesi assai ardita) siano mercati efficienti dove operano agenti perfettamente razionali. Se, per contro, la BCE acquistasse sistematicamente titoli del debito pubblico dei singoli Stati, questo vanificherebbe – o comunque renderebbe estremamente più rischiosa – l’attività speculativa, dal momento che gli speculatori, per così dire, si troverebbero a ‘combattere’ con una Istituzione che ha il potere di emissione di moneta. Detto in altri termini, per quanto possano essere consistenti le risorse monetarie a disposizione di chi vende titoli del debito pubblico di Paesi europei, tali risorse saranno sempre e notevolmente inferiori a quelle nelle mani di una Banca centrale. Si usa dire che non si può fare politica contro i mercati. E’ un’affermazione parzialmente vera, almeno nel drammatico contesto nel quale ci troviamo. E’ parzialmente vera perché la Germania, dominus delle sorti dell’Europa Unita, si trova ora a mettere sul piatto della bilancia i benefici (temporanei) che essa trae dall’Unificazione – circa il 50% delle esportazioni tedesche sono rivolte a Paesi dell’eurozona – con i costi (presumibilmente molto più alti) che potrebbero derivare dall’abbandono dell’euro da parte di tutti i Paesi membri dell’Unione, e dal prevedibile ritorno a svalutazioni competitive o a forme di protezionismo.
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Conviene a tutti la rete di sussidi per i disoccupati
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 27 novembre 2011]
Ad oggi, l’Italia è, fra i Paesi OCSE, il Paese meno generoso nell’erogazione di sussidi di inoccupazione e di disoccupazione. Su fonte INPS, si rileva che la spesa pubblica per le politiche del lavoro (attive e passive) ha riguardato in Italia, negli ultimi 15 anni, una quota in percentuale del PIL sempre al di sotto dell’1,5% e decrescente nel tempo, a fronte di una tendenza di segno contrario nei maggiori Paesi OCSE. Lo scenario peggiora notevolmente se si considerano i trasferimenti pubblici i cui destinatari sono individui di età compresa fra i 20 e i 30 anni. In altri termini, le giovani generazioni non solo entrano in un mercato del lavoro nel quale, nella migliore delle ipotesi, il contratto di lavoro è a tempo determinato (se non irregolare), ma, in caso di mancato rinnovo del contratto, non hanno benefici da parte dello Stato, potendo contare sui soli trasferimenti dalle proprie famiglie. La Banca d’Italia stima, a riguardo, che soprattutto per effetto della crescita della spesa pubblica (e del debito pubblico) fra la seconda metà degli anni settanta e il 1995, i nati fra il 1940 e il 1950 sono gli individui che maggiormente hanno beneficiato di trasferimenti pubblici, principalmente sotto forma di sussidi di disoccupazione e pensioni. Utilizzando la convenzione secondo la quale fra una generazione e la successiva intercorrono 25 anni, risulta che delle tre ultime generazioni, quella dei nati dopo il 1970 è nella condizione peggiore, sia per quanto attiene alla probabilità di trovare lavoro, sia per quanto attiene alla quota di spesa pubblica a suo beneficio. A fronte dell’esistenza, particolarmente in Italia, di una preoccupante e sempre più allarmante “questione giovanile”, il Governo Berlusconi è stato completamente inerte..E non è un caso che, nonostante in Europa ci suggeriscano di potenziare gli ammortizzatori sociali, la Legge di Stabilità recentemente approvata non ne fa menzione.
La convinzione dominante si basa sull’idea secondo la quale l’erogazione di sussidi genera effetti macroeconomici indesiderati, per l’operare di due meccanismi. In primo luogo, si ritiene che a fronte della percezione di redditi non da lavoro, gli inoccupati e i disoccupati reagiscano riducendo il tempo dedicato all’attività di ricerca di lavoro e, dunque, accrescendo la popolazione inattiva. In secondo luogo, si ritiene che l’erogazione di sussidi riduca la produttività, dal momento che i lavoratori occupati, sapendo che, in caso di licenziamento, disporranno comunque di un reddito erogato dallo Stato, avranno maggiore incentivo a lavorare meno. Si può, per contro, argomentare che l’ampliamento delle ‘reti di protezione sociale’ – oltre a costituire un dispositivo per la coesione sociale e il contenimento della conflittualità – ha effetti positivi sulla crescita economica, soprattutto mediante l’azione di contrasto che esse generano nei confronti dell’economia sommersa. Le ultime rilevazioni ISTAT registrano che, a fronte di un modesto declino dell’incidenza del sommerso sul PIL nei primi anni duemila (dal 19.7% del 2001 al 17.2% del 2007), l’ultimo biennio è stato caratterizzato da un nuovo aumento delle attività irregolari, coinvolgendo oltre tre milioni di lavoratori. L’incidenza del lavoro nero sul PIL nel Sud è pari al 18.3%, a fronte dell’11.8% nel Centro-Nord. Non vi è dubbio che l’espansione dell’economia sommersa – non solo in Italia – costituisce un ulteriore esito della grande recessione, per almeno due ragioni. In primo luogo, l’aumento della disoccupazione e il calo dei salari nei settori regolari dell’economia incentivano un numero crescente di individui (soprattutto giovani) a offrire le proprie prestazioni lavorative nel settore irregolare. In secondo luogo, la riduzione dei margini di profitto delle imprese può spingerle a collocarsi in segmenti irregolari del mercato, per garantirsi la sopravvivenza attraverso la compressione dei costi di produzione – e dei salari innanzitutto – in violazione della normativa vigente.
Gli effetti espansivi di politiche di potenziamento degli ammortizzatori sociali possono generarsi per l’operare dei seguenti meccanismi.
1) L’erogazione di sussidi di disoccupazione accresce i consumi, dunque la domanda aggregata e l’occupazione. La crescita dell’occupazione rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, traducendosi in un aumento dei salari. Fermo restando il salario corrisposto nell’economia irregolare, ciò determina un aumento dei differenziali salariali nei due settori, con il risultato ragionevolmente prevedibile di un aumento dell’offerta di lavoro nel settore regolare (e la contestuale riduzione dell’offerta di lavoro nel sommerso).
2) L’aumento dei sussidi disincentiva l’offerta irregolare di lavoro dal momento che accresce il salario di riserva, ovvero il salario minimo al quale ciascun individuo è disposto a lavorare. Ciò consente di rendere più accurata l’attività di ricerca del lavoro e scoraggia la collocazione dei lavoratori nel settore irregolare. Si consideri che, soprattutto nel Mezzogiorno, le prime offerte di posti di lavoro che giungono agli inoccupati (anche con elevato grado di scolarizzazione) sono offerte con rapporti di lavoro irregolari. Beneficiando di indennità di inoccupazione, questi individui hanno maggiore possibilità di rifiutarle, potendo attendere occasioni di lavoro più coerenti con le loro competenze e soprattutto regolari.
3) L’aumento dei sussidi limita l’erosione dei risparmi e, per questa via, consente maggiori disponibilità di fondi per investimenti. Dal momento che solo le imprese regolari possono accedervi, vi è da attendersi – anche in questo caso – un aumento dell’occupazione nell’economia regolare. Vi è di più. Per quanto attiene agli effetti dei sussidi sulla produttività del lavoro, la linea di policy qui proposta risiede su un meccanismo di tipo ‘smithiano’, così sintetizzabile. In quanto “la divisione del lavoro è limitata dall’ampiezza del mercato” e la divisione del lavoro accresce la produttività, l’aumento della spesa pubblica (qui sotto forma di estensione delle reti di protezione sociale) – proprio perché incide positivamente sull’”ampiezza del mercato” – esercita effetti positivi sulla produttività del lavoro e, dunque, sul tasso di crescita. Occorre inoltre considerare che una parte dell’economia sommersa è in rapporti di complementarietà con l’economia regolare: ovvero imprese regolari riescono a ottenere profitti anche grazie al fatto che acquistano prodotti intermedi a basso costo da imprese irregolari. Ciò accade fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, soprattutto tramite esternalizzazioni, le imprese formalmente regolari riescono a approvvigionarsi a più bassi prezzi di prodotti intermedi; il che consente loro di ridurre i costi di produzione, acquisendo quote di mercato a danno delle potenziali concorrenti, e soprattutto delle imprese concorrenti formalmente e sostanzialmente regolari. In secondo luogo, data l’inesistenza di vincoli di orario di lavoro nell’economia sommersa, le imprese che operano in quel contesto riescono a ottenere ritmi di produzione superiori alle imprese che fronteggiano tali vincoli e, dunque, possono produrre in tempi più brevi e consentire alle imprese formalmente regolari di vendere prima delle proprie concorrenti, acquisendo – anche per questa via – quote di mercato e profitti.
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Non mortifichiamo i consumi
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 10 dicembre 2011]
La manovra messa a punto dal Governo Monti non è una sorpresa, giacché si inserisce lungo la linea dell’austerità – fatta di aumenti dell’imposizione fiscale e tagli della spesa pubblica – seguita dall’Europa durante la crisi dell’ultimo biennio. Destano, per contro, perplessità le priorità che il Governo si è dato, rispetto ad altre possibili e più urgenti opzioni: la riforma pensionistica e la reintroduzione dell’ICI sulla prima casa. Con riferimento alla prima linea di intervento, il Ministro Fornero ha opportunamente chiarito che l’aumento dell’età pensionabile avrà effetti (sul bilancio pubblico e forse sulla crescita economica) soltanto in un orizzonte di lungo periodo. E occorre osservare che il dibattito sull’aumento dell’età pensionabile si è pressoché interamente svolto sui suoi effetti macroeconomici, senza tener conto delle rilevanti differenze che sussistono fra far lavorare più anni chi svolge lavori usuranti e chi no. Ovviamente nessuno può negare che le politiche pensionistiche in Italia sono state gestite anche per fini elettorali e che sacche di “privilegio” esistono. Ma, stando ai dati ufficiali, il nostro sistema previdenziale è in sostanziale equilibrio e non sembrano esserci motivazioni di massima urgenza per intervenire in modo così drastico.
Per quanto attiene alla reintroduzione dell’ICI, si tratta di un provvedimento destinato unicamente a “far cassa”, iniquo dal momento che colpisce – in termini relativi – soprattutto le famiglie con redditi più bassi, e soprattutto recessivo, dal momento che accresce ulteriormente la pressione fiscale, peraltro già ai massimi storici in Italia.
A fronte di questo, è ben noto che il problema dell’economia italiana – e di tutti i Paesi dell’eurozona – consiste essenzialmente nel basso tasso di crescita, a sua volta imputabile alla riduzione dei consumi e degli investimenti. Una manovra di segno recessivo, con ogni evidenza, non può che aggravare la situazione, per la seguente ragione: innanzitutto, essa rende più difficile la realizzazione di profitti per le imprese, soprattutto per le imprese di piccole dimensioni e ancor più per le imprese meridionali. L’aumento della pressione fiscale, infatti, riduce i consumi e, per conseguenza, riduce la domanda, restringendo i mercati di sbocco. A fronte del prevedibile ulteriore calo delle vendite e dei profitti, vi è da attendersi un ulteriore calo degli investimenti e dell’occupazione, sia per il peggioramento delle aspettative imprenditoriali, sia soprattutto per la contrazione dei margini di autofinanziamento delle imprese. A ciò si aggiunge – cosa di non poco conto – la restrizione generalizzata del credito bancario e, per le imprese meridionali, il razionamento del credito, così che è soltanto dalla capacità di autofinanziamento delle imprese che vi è da attendersi una ripresa degli investimenti. La questione qui rilevante è che, a fronte della riduzione dei margini di profitto conseguente alla restrizione dei mercati di sbocco, è verosimile attendersi che saranno le sole grandi imprese a poter sopravvivere e, nella migliore delle ipotesi, a investire. Intenzionalmente o meno, dunque, il primo atto del Governo Monti va nella direzione di favorire le imprese di grandi dimensioni, capaci di competere sui mercati internazionali e, dunque, di rendere ulteriormente problematica la sopravvivenza delle imprese più piccole, localizzate nelle aree periferiche e nel Mezzogiorno in particolare.
Vi è poi una considerazione di carattere più generale. Un “decreto salva-Italia”, come è stato denominato, doveva muoversi lungo la linea della ripresa della crescita, chiarendo che, in questa fase, l’idea che “in tempo di crisi occorre fare sacrifici” è priva di senso: ed è, purtroppo, ancora questa la filosofia che ispira e legittima l’ennesima manovra di austerità. Non vi è necessità di fare sacrifici dal momento che non vi è alcuna ragione, sostenuta da robusti argomenti teorici o da inequivocabile evidenza empirica, per ritenere che la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale riduca il rischio default in Italia. I moventi della speculazione sui titoli del nostro debito pubblico sono poco chiari, data l’opacità che caratterizza le transazioni in quei mercati, e l’esperienza storica mostra che gli attacchi speculativi si sono registrati anche a danno di Paesi poco indebitati.
Il nostro debito pubblico in rapporto al PIL è sì elevato, ma non molto più elevato di quello francese e spagnolo, soprattutto se si considera che l’indebitamento c.d. sovrano di un Paese dovrebbe includere anche l’indebitamento delle famiglie. Rispetto ai nostri principali partner europei, il credito al consumo, in Italia, è stato ed è il più basso. I nostri “fondamentali” (la c.d. economia reale) non sono peggiori dei principali partner europei e, ad oggi, l’essere inclusi nel novero dei PIIGS – ovvero dei Paesi periferici del continente – non tiene conto dei fatti. La recessione spagnola e francese pongono l’economia italiana in una posizione relativamente migliore rispetto al recente passato. E, dunque, pongono le Istituzioni politiche italiane in una condizione di maggior potere contrattuale e di maggiore “credibilità” in Europa.
Dall’autorevolezza del prof. Monti ci si poteva aspettare (e ci si può ancora aspettare) che la politica economica italiana non sia più condizionata – o finanche dettata – dalla Germania. Ad oggi le cose non stanno in questi termini: il decreto “salva-Italia” recepisce quasi in toto le ‘raccomandazioni’ della Banca Centrale Europea. Che non sono un dogma e che, sotto molti aspetti, indicano un percorso recessivo assolutamente non necessario e tantomeno auspicabile.
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Perché non vedremo mai l’equità
[“MicroMega” online del 15 dicembre 2011]
Se, come nel caso di questo esecutivo, si fa propria una linea di politica economica che cerca di coniugare tenuta dei conti pubblici e provvedimenti per la crescita interamente declinati dal lato dell’offerta, per quale ragione dovrebbe rendersi necessaria una maggiore equità? A cosa servirebbe? A nulla: ecco perché non arriverà mai.
E’ stato osservato (ed è un’osservazione condivisibile) che non sarebbe stato necessario un Governo ‘tecnico’ per mettere a punto un’ulteriore manovra recessiva, dopo quelle già messe a punto nell’ultima fase del Governo Berlusconi, e dopo almeno un ventennio di politiche di contrazione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale. Viene anche fatto rilevare che, data l’impopolarità di queste misure, esse non si sarebbero potute realizzare con un Governo ‘politico’ dal momento che un Governo ‘politico’ risponde direttamente all’elettorato. E’ anche condivisibile la posizione di chi rileva che questo Governo non sta facendo altro che mettere in atto le direttive europee, così come delineate nell’ultimo biennio di austerità e, più di recente, dettagliate nella lettera inviata la scorsa estate dalla BCE al Governo Berlusconi, nella quale non sono previsti interventi di segno ridistribuivo.
Come è noto, la politica economica del Governo Monti si basa sul trinomio rigore – crescita – equità. Fin qui si è visto solo rigore, e appare ragionevole aspettarsi che misure per l’equità tardino ad arrivare. Ciò per una ragione che attiene a questa domanda: se, come nel caso di questo Esecutivo, si fa propria una linea di politica economica che cerca di coniugare tenuta dei conti pubblici e provvedimenti per la crescita interamente declinati dal lato dell’offerta, per quale ragione dovrebbe rendersi necessario anche l’impegno di risorse per provvedimenti di ridistribuzione del reddito? In altri termini, dal punto di vista di questo Governo, l’equità a cosa serve?
Occorre preliminarmente dar conto del fatto che, su fonte CGIA, viene stimato che, per il triennio di riferimento dell’ultima manovra fiscale, la perdita di reddito disponibile, per la media delle famiglie italiane, sarà di circa 830 euro l’anno, che, sommate alle manovre degli ultimi mesi del Governo Berlusconi, comportano una decurtazione pari a circa 2000 euro l’anno. Lo stesso Istituto di ricerca fa rilevare che la manovra Monti ha significativi effetti ridistributivi a svantaggio delle famiglie con redditi più bassi, soprattutto in ragione della scarsa rilevanza quantitativa della tassazione dei beni di lusso. Ciò in un contesto nel quale – ed è il caso italiano – le disuguaglianze distributive sono ai massimi storici e sono le più alte nell’ambito dei Paesi OCSE.
In termini generali, misure per
l’equità trovano la propria ratio in tre casi: il caso nel quale si ritiene che una più
equilibrata distribuzione del reddito costituisca il presupposto per la
crescita economica; il caso in cui politiche di ridistribuzione del reddito si
rendano necessarie per far fronte alla conflittualità sociale e, infine, il
caso in cui il Governo debba assecondare una domanda di giustizia sociale
proveniente dal proprio elettorato.
Per quanto attiene al primo aspetto, occorre rilevare che la politica economica
del prof. Monti non è di segno keynesiano e non è finalizzata al sostegno della
domanda aggregata per il tramite dell’aumento dei salari. Ne è prova il fatto
che, allo stato attuale, la speranza di ripresa della crescita economica
italiana è principalmente affidata a provvedimenti di liberalizzazione: che
significa, con un minimo di necessaria banalizzazione, ritenere che l’aumento
del numero di farmacie possa portare il PIL a valori significativamente
superiori a quello attuale. Le liberalizzazioni hanno ben poco a che fare con
l’equità, trattandosi di misure che rendono i mercati più contendibili, a
vantaggio di alcune imprese e professionisti e probabilmente a vantaggio dei
consumatori di quei beni e servizi a ragione dell’attesa riduzione dei prezzi,
conseguente alla maggiore offerta. Ovviamente, non vi è un nesso cogente fra
riduzione dei prezzi e delle tariffe dei settori liberalizzati e aumento dei
salari reali delle famiglie con più basso reddito. Difficile, ad esempio,
pensare che la liberalizzazione dei taxi avvantaggi in particolare operai e
pensionati.
Per quanto attiene al secondo aspetto, e in termini generali, il costo della disuguaglianza risiede nella prevenzione e nella repressione del conflitto sociale e, in particolare, nel costo degli scioperi (misurabile attraverso la quantità di giornate lavorative ‘perse’). Dai dati disponibili, sebbene frammentari, risulta che, dal secondo dopoguerra a oggi, la massima frequenza e durata degli scioperi si è registrata nel triennio 1974-1976 e che, a partire da quella data, la capacità di mobilitazione dei sindacati si è considerevolmente ridotta fino a generare un potenziale conflittuale prossimo allo zero nel corso del primo decennio degli anni Duemila. Allo stato attuale, non vi sono ragionevolmente le condizioni per un rafforzamento del potere contrattuale dei sindacati. Stando a questa ipotesi, politiche di ridistribuzione del reddito non possono neppure essere motivate dalla necessità di contenere la conflittualità sociale. Infine, il Governo Monti non deve rispondere all’elettorato, così che eventuali politiche ridistributive non servono a raccogliere consensi. Data la condizione istituzionale nella quale si muove, questo Esecutivo si trova nella condizione di ‘estremizzare’ la politica dei due tempi caratteristica dei Governi di Destra: far crescere la “torta”, aumentando la produzione (laddove, in questa contingenza, lo si riesca a fare) per ritagliarne fette a beneficio dei meno abbienti, ma in un momento successivo. Dove il momento successivo può essere dilazionato sine die, dal momento che il perseguimento di obiettivi di equità distributiva è una questione che esula dal perseguimento di obiettivi di efficienza e di ‘stabilizzazione’ del sistema, e rientra al più nella sfera del dovere morale.
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Perché la Germania vuole la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 29 dicembre 2011]
La ‘nuova’ Europa che si sta progettando – ammesso che, nel frattempo, non si assista alla deflagrazione dell’euro – ha come primo e fondamentale pilastro la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio. Al di là degli aspetti tecnico-giuridici che, almeno nel caso italiano, potrebbero rendere problematico l’inserimento del vincolo del pareggio di bilancio nella nostra Costituzione, occorre interrogarsi sul perché è questo il primo tassello che l’Unione intende darsi. Occorre preliminarmente rilevare che non è chiaro se la norma sarà codificata nella sua forma più estrema – ovvero preservare l’eguaglianza, almeno tendenziale, delle entrate e delle uscite dello Stato – o in una forma più debole, nella quale sia contemplata la possibilità che shock esogeni e l’andamento del ciclo economico ne rendano impossibile il rispetto, almeno pro-tempore. Le basi teoriche di questa proposta sono alquanto discutibili. Essa regge sull’idea che l’aumento della spesa pubblica, generando aumenti dell’indebitamento pubblico, costituisca un trasferimento dell’onere fiscale sulle generazioni future, così che maggior reddito disponibile a beneficio di questa generazione inevitabilmente si tradurrà in minor reddito disponibile (per effetto di una maggiore tassazione) nelle tasche delle future generazioni.
In altri termini, un elevato debito pubblico costituisce un problema, dal momento che vìola il principio (etico) dell’equità intergenerazionale. Si tratta di una tesi che non regge, innanzitutto sul piano logico, per due ragioni. In primo luogo, non è chiaro chi, quando e perché accrescerà l’imposizione fiscale per ripianare il debito: trattandosi di una decisione puramente politica, non sussiste nessun nesso cogente fra aumento della spesa oggi e futura tassazione. In secondo luogo, si può argomentare a contrario che un aumento della spesa pubblica oggi, in quanto accresce il reddito disponibile dell’attuale generazione, accresce – per effetto della trasmissione ereditaria – anche il reddito della generazione successiva. Più in generale, non esiste, ad oggi, un criterio scientificamente fondato di sostenibilità del debito pubblico e – questione sulla quale occorrerebbe soffermarsi – dal momento che la riduzione del debito pubblico necessariamente implica manovre di “lacrime e sangue” normalmente a danno dei percettori di redditi bassi, non esiste un criterio di sostenibilità dell’ineguaglianza distributiva. Tema tanto più rilevante nel caso italiano, dove le diseguaglianze distributive sono le più alte fra i Paesi OCSE.
Va detto che, nonostante le rassicurazioni del prof. Monti, questa “riforma” è – come quelle già messe in atto nei primi giorni di lavoro del nuovo Governo (in primis la “riforma pensionistica”) – una riforma dettata dall’Unione europea e, più in particolare, dal capitale tedesco, i cui interessi la Cancelliera Merkel abilmente e strenuamente difende. La lettera della BCE inviata al Governo Berlusconi la scorsa estate è, da questo punto di vista, una bozza di programma di politica economica che il precedente Governo non ha messo in atto, e che questo Governo intende perseguire. Occorre allora chiedersi quali sono gli interessi dell’industria tedesca, partendo da un dato.
L’economia tedesca riesce a garantirsi tassi di crescita significativamente più alti rispetto alla media europea grazie al fatto che le sue imprese riescono a penetrare i mercati internazionali e, in tal senso, la crescita tedesca è trainata dalle esportazioni. Ciò è reso possibile non soltanto per il maggiore avanzamento tecnico della struttura produttiva di quelle imprese, ma anche in virtù di un decennio (almeno) di moderazione salariale e, dunque, di compressione dei costi di produzione e dei prezzi. La Germania vende circa il 50% dei suoi prodotti ai partner europei. Può farlo grazie all’esistenza di un mercato unico europeo, in assenza di misure protezionistiche. Non potrà farlo nel caso di deflagrazione dell’euro e del conseguente venir meno del mercato unico. La riduzione della spesa pubblica e/o l’aumento della pressione fiscale in Italia servono, in ultima analisi, a favorire e consolidare questi interessi, nell’ambito di un conflitto intercapitalistico intorno al quale si gioca il destino dell’Unione monetaria europea. Si tratta di questo. Come è noto, la struttura produttiva italiana è formata, in larga misura, da imprese di piccole dimensioni, con basso contenuto innovativo, poco presenti sui mercati internazionali, con forte dipendenza dal sistema bancario e, soprattutto, con forte dipendenza dal settore pubblico. In questo contesto, la riduzione della spesa pubblica riduce i profitti delle imprese italiane, sia perché viene meno l’erogazione di fondi pubblici a loro sostegno diretto (si pensi al sistema degli appalti e, cosa già realizzata, al divieto di aiuti di Stato alle imprese prossime al fallimento), sia perché si riducono i mercati di sbocco interni. La costituzionalizzazione del vincolo di bilancio, in questa prospettiva, costituisce il primo passo verso la desertificazione produttiva in Italia: desertificazione produttiva – incidentalmente – già realizzata nel Mezzogiorno.
La tenuta dell’euro ruota, in definitiva, intorno alla possibilità che il capitale tedesco riesca ad espandere il suo “spazio vitale”, se si vuole usare una triste metafora bellica, e dunque intorno alla capacità da parte dei c.d. Paesi periferici di contrapporsi a questa strategia. Non sembra che la linea di questo Governo si muova in questa direzione: del trinomio rigore – crescita – equità, al momento, si è visto solo il primo termine. Ovvero quello che va a maggior vantaggio dell’imprenditoria tedesca.
L’argomento secondo il quale la spesa pubblica è solo fonte di spreco e di corruzione risulta, a questo punto, meramente retorico.