In quanto segue, a partire dalla considerazione che è solo accogliendo questo secondo orientamento che si rende possibile il dibattito economico e dunque la sua comunicazione[5], si argomenterà a favore della tesi stando alla quale non si dà comunicazione in ambito economico se non presupponendo una ‘scelta di campo’ di natura – in senso lato – politica. In tal senso, e ferme restando alcune necessarie precisazioni deontologiche, si accoglie qui la tesi stando alla quale la comunicazione in ambito economico riflette – in via diretta o indiretta – interessi sociali specifici. L’esposizione è organizzata come segue. La sezione 2 presenta lo schema teorico di riferimento per un comunicazione in ambito economico di ordine competitivo. La sezione 3 fornisce illustrazioni di casi che rientrano in questa modalità di comunicazione, la sezione 4 affronta il problema della determinazione delle posizioni teoriche dominanti e nella sezione 5 vengono proposte alcune considerazioni conclusive.
2 – Un modello di comunicazione competitiva
Che il tema della comunicazione in Economia sia della massima rilevanza può testimoniarlo il fatto che il maggior economista del Novecento – John Maynard Keynes – abbia dedicato molte delle sue energie alla persuasione e abbia scelto come titolo di una raccolta di suoi saggi Essays in persuasion (1932), con la seguente precisazione che si legge nella Prefazione:
“Here are collected the croakings of twelve years –the croakings of a Cassandra who could never influence the course of events in time. The volume might have been entitled , for the Prophecy, un fortunately, has been more successful than the Persuasion. But it was in a spirit of persuasion that most of these essays were written, in an attempt to influence opinion.”
Va detto che gli economisti ben di rado si sono occupati del modo in cui trasmettono le loro idee, e più diffusamente hanno semmai praticato la persuasione. La riflessione sulla comunicazione in Economia, in linea schematica, fa riferimento a due orientamenti.
1) L’economia come “retorica”. Il più autorevole esponente di questa posizione è Donald McCloskey, autore di un celebre volume dal titolo La retorica dell’economia (McCloskey, 1988). Come annota Augusto Graziani, nella all’edizione italiana, si tratta di “un manifesto contro la logica e un appello in favore della retorica, ossia dell’arte del persuadere” (ibid., p.IX). Il principale argomento di McCloskey è che la ricerca in ambito economico non ha a che vedere con lo sforzo del ricercatore di individuare le cause di problemi (disoccupazione, inflazione), ma semmai con lo sforzo di convincere i propri colleghi. Questo meccanismo è amplificato dal massiccio uso della matematica, così che:
“Nel corso della loro conversione a un modo di esprimersi matematico, gli economisti si sono fatti prendere dalla fede di chi partecipa a una crociata, aderendo a un insieme di dottrine filosofiche che li rende, ora, inclini al fanatismo e all’intolleranza” (MacCloskey, 1988, p.17, corsivo aggiunto).
Va detto che questa considerazione è in larga misura vera se si considera l’Economia come un corpus unificato: in tal senso, si può condividere l’affermazione secondo la quale la gran parte degli economisti matematici è intollerante, il che è peraltro ‘giustificato’ dal fatto che chi crede che l’economia sia una scienza esatta, resa tale dagli strumenti formali di analisi e in quanto tale portatrice di verità scientifiche, non può conseguentemente accettare critiche[6]. E tuttavia, la posizione di McCloskey è criticabile alla luce delle seguenti osservazioni:
i) esiste un’ampia platea di economisti, sebbene minoritaria in Accademia, che non ritiene di poter produrre verità scientifiche e non ritiene di poter fornire previsioni corrette. In tal senso, l’accusa dell’autore può essere semmai rivolta a quella che si è definita l’Economia ingegneristica.
ii) Come osserva Graziani (ibid., p. XIV), la convinzione di McCloskey secondo la quale una teoria viene battezzata come scientifica se vi è il “consenso degli esperti” lascia irrisolto il problema della selezione degli esperti stessi e non chiarisce che, di norma, il processo non è solo interno alla comunità scientifica, non essendo esenti ‘incursioni’ di “interessi organizzati”.
iii) Riccardo Bellofiore (in Marzola e Silva, a cura di, 1990) fa rilevare che la posizione di McCloskey non è per nulla neutrale. Sintetizzata nella teoria “tutto è concesso perché nulla conta”, essa costituisce, ad avviso dell’autore, il tentativo di condurre il discorso economico nell’alveo di una precisa posizione filosofica – il post-moderno – che espelle da tutto ciò che è possibile definire scienza la Storia e soprattutto la dimensione politica.
2) La persuasione finalizzata alla politica. Keynes – Come osserva Bellofiore (in Marzola e Silva, 1990, a cura di, p.107, corsivo aggiunto): “La strategia retorica di Keynes rivendica l’obiettivo di convincere il destinatario come mezzo per trasformare la realtà”. Più in dettaglio, Keynes distingue fra inside opinion e outside opinion, dove la prima attiene al circuito della riproduzione del sapere e, dunque, sostanzialmente all’opinione degli ‘addetti ai lavori’ e degli economisti di professione, e la seconda riguarda il circuito della diffusione delle idee economiche attraverso i media e, dunque, i loro fruitori. Scrivendo in un contesto storico nel quale l’urgenza è dettata dall’impostazione della Pace di Versailles (e, dunque, secondo Keynes, dalla ricerca di una soluzione che non penalizzi eccessivamente la Germania sconfitta nella prima guerra mondiale), Keynes ritiene che sia innanzitutto l’opinione esterna a essere oggetto di persuasione: ed è questa convinzione che caratterizza – nelle sue linee generali – l’impostazione di Keynes e degli economisti keynesiani in materia di comunicazione/divulgazione delle idee economiche. Una questione che si pone a latere dell’impostazione keynesiana – e che attiene alla persuasione della inside opinion – riguarda la maggiore incisività delle critiche ‘esterne’ rispetto alle critiche ‘interne’. Le prime riguardano la costruzione di modelli economici alternativi rispetto a quelli dominanti; le seconde riguardano l’individuazione di incongruenze logiche ed empiriche delle tesi prevalenti[7]. Anche all’interno dell’Economia Politica ‘critica’, non vi è unanime consenso sulla prevalenza dell’una o dell’altra strategia, e non si esclude che possano coesistere. Si può osservare, a riguardo, che la tradizione keynesiana ha generalmente fatto propria la prima impostazione. Uno fra i suoi più autorevoli esponenti, Augusto Graziani (1997, p.17) ha motivato questa scelta come segue:
“… risulta debole la posizione di coloro che, volendo combattere l’una o l’altra visione, si sforzano di scoprire un errore nella costruzione logica della scuola nemica. Debole perché arriva quasi ad ammettere che, se gli errori potessero essere eliminati, la costruzione teorica che si intende criticare risulterebbe accettabile; mentre, trattandosi di visioni contrapposte, ciascuna delle due, anche se riportata alla sua formulazione più rigorosa, deve risultare incompatibile con l’altra”.
In sostanza, e ferma restando quest’ultima questione, il discrimen fra le due posizioni (McCloskey versus Keynes) verte intorno alla questione se la persuasione in Economia sia, nei fatti, destinata a uso interno, e, dunque, faccia proprio il ricorso a espedienti retorici che avvantaggiano solo chi comunica, per propri specifici fini attinenti alla sua professione o, per contro, se la persuasione abbia finalità generali, ovvero sia pensata per incidere sugli indirizzi della politica economica. Al di là delle motivazioni che sono alla base dell’uso di strumenti retorici in Economia, ciò che maggiormente conta – ai fini del nostro discorso – è che la prima posizione, su un piano squisitamente normativo, è inaccettabile per chi ritiene che la teoria economica abbia una qualche utilità sociale.
Riprendendo quanto qui stabilito inizialmente, solo se si accoglie l’idea che esistano teorie economiche contrastanti, tutte di pari dignità scientifica, ha senso porsi la domanda che dà il titolo a questo contributo, ovvero “come comunicare l’economia?”, se per comunicazione non si intenda la mera informazione relativa alle nuove verità della scienza economica, o il loro aggiornamento.
La tesi che si intende qui sostenere può riassumersi nei seguenti punti.
1. La teoria economica è un campo nel quale si esercita il confronto fra posizioni contrastanti. Tali posizioni, seguendo Schumpeter (1990 [1954]), riflettono la “visione pre-analitica” dell’autore e, in quanto attengono alla sua ’visione del mondo’, riflettono anche la visione in senso lato politica di chi elabora teorie economiche. A titolo esemplificativo, una teoria economica che ‘dimostri’ che la flessibilità del lavoro crea occupazione non è affatto neutrale rispetto a giudizi di valore, laddove presuppone che chi si è impegnato a ‘dimostrare’ questa proposizione fa proprio – sebbene, di norma, implicitamente – un orientamento teorico-politico di matrice liberista. A ciò si può aggiungere che, soprattutto nei contesti istituzionali nei quali la ricerca è direttamente finanziata da imprese private, si manifesta (implicita o esplicita) una domanda politica di idee economiche, che con ogni evidenza non può confliggere con gli interessi dei quali quelle imprese sono portatrici.
2. Se una teoria economica viene elaborata (anche) per influenzare le scelte di politica economica, e il meccanismo di trasmissione dalla teoria alla policy passa mediante la comunicazione, la teoria cessa di essere oggetto di disputa sulle riviste accademiche ed entra nel dibattito pubblico. Una volta resosi possibile questo passaggio, si attivano meccanismi di persuasione nei confronti dei ‘non addetti ai lavori’, che, per grandi linee, si articolano sulla base delle traiettorie descritte in fig.1.
Sia A una data proposizione e B una proposizione di segno contrario. Ciascuna delle due proposizioni è già suffragata da argomenti (x, y nel primo caso; a e b nel secondo). Si assuma di riconoscersi nella posizione B. Un modello di comunicazione competitiva impone di persuadere circa la ‘falsità’ della proposizione A. Il che può essere fatto sostanzialmente in due modi. Il primo (1) attiene all’individuazione di fallacie di ordine teorico e/o empirico eventualmente presenti nella tesi A. Il secondo (2) attiene all’individuazione di nuovi argomenti (g, d etc.) a sostegno della tesi che si vuole accreditare.
Si osservi che il principale vincolo deontologico che occorre rispettare, in questa prospettiva, ovvero quello più immediatamente proprio della comunicazione economica, attiene alla corretta indicazione delle fonti dalle quali si attingono i dati per confutare la tesi A. Questo vincolo, oltre ad avere natura ‘etica’, è esso stesso funzionale alla riproduzione della ‘gara’, dal momento che – laddove il vincolo non fosse rispettato – il sostenitore della tesi A non sarebbe posto nella condizione di replicare. Inoltre, il rispetto del vincolo è anche funzionale ad accreditare la propria tesi, dal momento che si può ragionevolmente supporre che maggiore è l’autorevolezza della fonte citata maggiore è la capacità di persuasione. E’ agevolmente comprensibile che un dato riportato dall’ISTAT ha maggiore valore persuasivo rispetto a un dato riportato da un centro di ricerca non ufficiale e meno noto. A riguardo, e incidentalmente, occorre soffermarsi sul ruolo della Statistica ai fini dell’argomentazione economica. E’ cosa ben nota ai commentatori economici – e ovviamente agli statistici – che i dati possono essere ‘manipolati’ al punto da far dire loro ciò che conviene che essi dicano: è questo il senso dell’affermazione ricorrente fra gli ‘addetti ai lavori’ secondo la quale “usiamo le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni: non a scopo di illuminazione, ma a scopo di sostegno”. Il che può essere mostrato con un semplice esempio. Se si intende dimostrare che i cittadini italiani sono sensibili all’igiene dei servizi pubblici, alla domanda “Lei è disposto a pagare per avere servizi pubblici puliti?” si sostituisce la domanda “Lei ritiene che i servizi pubblici debbano essere puliti?”. I risultati dei questionari somministrati daranno verosimilmente una elevata percentuale di risposte positive; il che induce a ritenere che i cittadini italiani – come si voleva dimostrare – sono attenti alle condizioni igieniche[8].
3 – Esemplificazioni del modello
In questa sezione, si dà conto di alcune possibili esemplificazioni di comunicazione competitiva in ambito economico, traendo spunto dalla contingenza del dibattito sui grandi temi della politica economica del 2009. E il grande tema sul quale si sono esercitati i commentatori nel corso dell’ultimo anno è la crisi economica. Schematicamente, il dibattito si snoda interno alle seguenti posizioni. In ambito liberista, la posizione dominante fa propria la convinzione che la crisi dipenda, in ultima analisi, dal greed di banchieri e speculatori, ovvero dalla loro avidità e dal perseguimento ‘esagerato’ di rendimenti crescenti delle loro attività finanziarie. Sul fronte opposto, si ritiene che la crisi sia imputabile alla caduta dei salari e al connesso crescente indebitamento privato, che ha dato luogo – in condizioni nelle quali esso è stato finanziato anche in assenza di garanzie reali (i cosiddetti mutui subprime) – a crescenti insolvenze da parte dei risparmiatori e, a catena, a crescenti sofferenze bancarie, riduzioni dell’offerta di moneta, dunque della produzione e dell’occupazione[9]. In tal senso, si può affermare che, nel primo caso, la crisi ha origini nella sfera finanziaria, mentre nel secondo caso la causa ultima va rintracciata nelle dinamiche dell’economia reale e, in particolare, del mercato del lavoro.
Al di là dei contenuti specifici del dibattito, che evidentemente come ogni dibattito di politica economica ha natura strettamente contingente, occorre rimarcare che, anche in questo caso, la direzione di causalità del polemos va dalla posizione critica a quella liberista, nel senso che – dato l’ampio spazio riservato agli esponenti di quest’ultimo orientamento – i primi sono costretti, per così dire, a ‘rincorrere’ criticamente l’orientamento dominante[10]. Nel dettaglio, la critica alla tesi del greed sta nella constatazione che la presunta avidità dei banchieri e degli speculatori si sarebbe manifestata, in primo luogo, nel pieno rispetto della legalità e, in secondo luogo, si fa rilevare che non è chiarito per quale ragione d’un colpo questi operatori sarebbero diventati maggiormente propensi al rischio, secondo la direzione (1a) dello schema 1[11].
Ciò che, in questa sede, merita di essere discusso è soprattutto il fondamento ultimo del confronto. Evitando di addentrarsi in questioni di ordine tecnico relative al funzionamento dei mercati azionari, può essere sufficiente considerare che l’implicazione di politica economica che discende dalla tesi dell’avidità consiste in una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari ed esclude, di conseguenza, la possibilità di interventi dello Stato per migliorare l’assetto distributivo. Per contro, è precisamente quest’ultima opzione che viene invocata dagli economisti qui definiti critici: in quanto la crisi ha origine nella diseguale distribuzione del reddito e, in particolare, nella caduta dei salari reali, occorre che lo Stato si faccia carico di accrescere la domanda mediante interventi di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle fasce sociali più deboli.
Nell’ambito del dibattito sulla crisi, viene ripresa la controversia relativa agli effetti della ‘flessibilità del lavoro’ sull’occupazione. A fronte della vulgata liberista secondo la quale “solo sapendo di poter licenziare le imprese assumono”, gli economisti di orientamento critico fanno osservare che ciò non accade per almeno due ragioni. In primo luogo, la flessibilità riduce la propensione al consumo dei lavoratori, perché a fronte della possibilità di mancato rinnovo del contratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di disoccupazione, dunque riducendo i consumi. D’altra parte, per l’operare dell’effetto di disciplina, la ‘minaccia’ di licenziamento aumenta l’intensità del lavoro. L’aumento della produttività e la contestuale caduta della domanda, per effetto della compressione della propensione al consumo, determina, in ultima analisi, la riduzione dell’occupazione. A ciò si aggiunge che l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di compressione dei costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese.Come rilevava Keynes: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale” (cfr. Forges Davanzati, 2005). In più, stando ai dati ufficiali (OCSE, in particolare), l’evidenza empirica mostra che nei Paesi nei quali l’indice di protezione dei lavoratori è più alto sono più alti i salari e, di norma, è maggiore il tasso di occupazione. Stando allo schema 1, la critica muove lungo le direttrici 1a, 1b e 2 e, tuttavia, per le ragioni esposte a seguire, l’opinione dominante – non solo in ambito accademico, ma anche fra i policymaker – continua a essere derivata dall’impostazione neoclassico-liberista.
4 – Come si determinano le posizioni teoriche dominanti
Le esemplificazioni qui proposte costituiscono un chiaro esempio del fatto che la comunicazione in ambito economico ha natura competitiva dal momento che riflette ‘visioni pre-analitiche’ (e, dunque, lato sensu politiche) inconciliabili. Il problema che ne deriva attiene all’individuazione dei fattori che portano al successo dell’una o dell’altra visione, intendendo per successo l’adesione alla tesi A (o B) del massimo numero di lettori e, soprattutto, la traduzione dell’una o dell’altra tesi in provvedimenti di politica economica. In altri termini, ciò che occorre rilevare è il meccanismo che porta alla determinazione delle posizioni teoriche rilevanti. A riguardo, possono essere rappresentati due scenari:
a) La comunicazione in regime di alta alfabetizzazione economica. In questo scenario, in larga misura ipotetico nel quale si può supporre che coloro che ricevono le informazioni siano in grado di valutarne la correttezza scientifica, la prevalenza della tesi A dovrebbe teoricamente dipendere dal giudizio puramente scientifico formulato da chi ne viene a conoscenza. Questo esito è meramente ipotetico, dal momento che – per le medesime ragioni esposte supra – così come chi comunica lo fa sulla base di visioni pre-analitiche, chi riceve la comunicazione ne valuta i contenuti sulla base di ‘visioni pre-analitiche’. In tal senso, si può affermare che, in uno scenario di questo tipo, è maggiore – rispetto a quello descritto a seguire – la probabilità che vengano individuati possibili errori o incongruenze in una o nell’altra tesi, ma ciò non appare dirimente ai fini dell’esito della controversia.
b) La comunicazione in regime di bassa alfabetizzazione economica. In questo scenario, ciò che cambia rispetto al caso precedentemente descritto attiene alla minore probabilità che eventuali errori, imprecisioni, incongruenze vengano individuate dai destinatari del messaggio. In tal senso, il secondo scenario lo si può intendere come meno ‘democratico’ rispetto al primo, dal momento che la comunicazione, anche di natura competitiva, è meno soggetta a valutazione da parte di terzi. In altri termini, è relativamente più semplice – in questo scenario – imporre come vere teorie economiche suscettibili di confutazione.
Gli scenari ora delineati fanno riferimento al modo in cui l’esito della ‘gara’ può essere eventualmente modificato da interventi ‘dal basso’. Non si esclude, e appare anzi di massima rilevanza, che l’intervento dal basso possa tradursi in modifiche negli orientamenti di voto, dal momento che – sulla base di quanto fin qui esposto – gli indirizzi di politica economica sono parte integrante (e di rilevanza crescente) degli indirizzi di politica generale. Realisticamente, tuttavia, occorre riconoscere che – nel panorama contemporaneo, e non solo italiano – la dialettica prevalente assume un segno diverso: in estrema sintesi, ‘vince’ chi ha più spazio nell’arena comunicativa e lo spazio disponibile è strettamente correlato con le risorse disponibili.
Sebbene questa conclusione possa apparire sotto molti aspetti di buon senso, essa poggia su un meccanismo di riproduzione del sapere più complesso, che solo in un secondo momento diventa comunicazione-divulgazione. In altri termini, la disponibilità di risorse è condizione necessaria ma non sufficiente per acquisire egemonia: anche grandi spazi di comunicazione disponibili possono generare esiti inefficaci ai fini della persuasione, se non sono ‘riempiti’ da efficaci contenuti della comunicazione. L’efficacia dei contenuti dovrebbe rispondere a un duplice requisito: i) le teorie divulgate devono avere un adeguato sostegno teorico ed empirico; ii) devono essere sufficientemente semplici o almeno facilmente semplificabili, e tanto più semplificabili quanto più il contesto nel quale ci si muove è un contesto di bassa alfabetizzazione economica.
Il problema diventa, allora, l’individuazione delle ragioni che rendono (o hanno reso fin qui) dominante la teoria economica neoclassico-liberista. La Rivista italiana degli economisti, organo ufficiale della S.I.E. (Società italiana degli economisti) ha dedicato ampio spazio a riflessioni su questi temi. In estrema sintesi, anche in queste sedi, si confrontano due posizioni confliggenti. Da un lato, vi è il richiamo a maggior pluralismo nella ricerca economica; dall’altro, vi è la convinzione che il pluralismo in Economia porta a difendere – per usare un’espressione di Guido Tabellini – “specie in via di estinzione” (v. Porta, 2007). In questa sede, ci si può limitare a individuare due cause dell’egemonia del pensiero liberista: i) quello che viene definito il “riflesso pantaleoniano” (Porta, 2007, p.309), ovvero la convinzione – tratta dall’economista italiano Maffeo Pantaloni, attivo gli inizi del Novecento – che non esistano teorie economiche alternative, ma una sola verità economica (così che l’Economia si dividerebbe in due scuole: chi la conosce e chi la ignora); ii) la maggiore rispondenza delle implicazioni di policy del mainstream rispetto agli interessi materiali in campo[12].
Viene così a configurarsi il seguente circuito di riproduzione del sapere e della relativa comunicazione in ambito economico: 1. Il maggiore finanziamento alla ricerca mainstream genera la maggiore numerosità di studiosi impegnati in quell’ambito; 2. Il che produce una maggiore numerosità di ricerche di orientamento neoclassico-liberista; 3. Il che consente, in sede di divulgazione, di disporre di una più ampia mole di materiale teorico ed empirico alla quale attingere per persuadere.
5 – Considerazioni conclusive
In questo saggio, si è affrontato il modo in cui gli economisti comunicano le proprie teorie ai ‘non addetti ai lavori’. Assunto che l’Economia politica non è una scienza esatta, si è mostrato come sul suo terreno si confrontino teorie alternative e confliggenti, che riflettono ‘visioni pre-analitiche’ contrastanti. Ciò comporta che la comunicazione in ambito economico non può non essere di natura competitiva e che, dunque, ciò che viene comunicato/divulgato non è meramente la scoperta di una nuova verità scientifica, ma una teoria che, in quanto tale, è sempre suscettibile di essere respinta e alla quale, comunque e di norma, si contrappone una teoria alternativa. Si è mostrato come l’acquisizione di posizioni dominanti passi innanzitutto attraverso il canale della comunicazione nell’ambito propriamente scientifico e come, in questo stesso ambito, esistano meccanismi di natura lato sensu politica che condizionano la natura e gli indirizzi della produzione scientifica.
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Riferimenti bibliografici
Brancaccio, E. (2009). La crisi del pensiero unico. Milano: Angeli.
Forges Davanzati, G. (2005). Distribuzione del reddito, istituzioni, moneta. Lecce: Milella.
Graziani, A. (1997). I conti senza l’oste. Torino: Boringhieri.
Marzola, A. e Silva, F. (1990). John M. Keynes. Linguaggio e metodo. Bergamo: Lubrina Editore.
McCloskey, D. (1988). La retorica dell’economia. Scienza e letteratura nel discorso economico. Torino: Einaudi, con Introduzione di Augusto Graziani.
Porta, P.L. (2007). Eccellenza con pluralismo, “Rivista italiana degli economisti”, n.2, pp.308-315.
Realfonzo, R. (2007). Intervento nel dibattito sulla valutazione della ricerca, “Rivista italiana degli economisti”, n.2, pp.315-319.
Roncaglia, A. (2001). La ricchezza delle idee. Roma-Bari: Laterza.
Schumpeter, J.A. (1990 [1954]). Storia dell’analisi economica. Torino: Boringhieri
Sen, A. (2002). Etica ed economia. Bari: Laterza.
[1] Per un inquadramento storico-teorico di questo paradigma, cfr., fra gli altri, Roncaglia (2001).
[2] Ciò è reso possibile essenzialmente dall’assioma stando al quale esiste un’unica motivazione dell’agire economico, che attiene alla cosiddetta razionalità strumentale: la massimizzazione di una data funzione-obiettivo, dati i vincoli di moneta e di tempo, ovvero la ricerca – su basi individuali – della scelta più conveniente, in condizioni di informazione perfetta e completa.
[3] Si osservi che questo assunto incorpora gli assiomi della ‘sovranità del consumatore’ – stando al quale la scala e la composizione merceologica dell’output riflette le preferenze esogene dei consumatori stessi (il che attiene, a sua volta, all’individualismo metodologico ed etico) e della scarsità esogena delle risorse, secondo il quale tutte le risorse disponibili sono scarse relativamente ai bisogni per un vincolo di natura esclusivamente naturale.
[4] Come è noto, secondo questa posizione, una teoria è scientifica non quando è vera ma quando contiene elementi che possono essere oggetto di falsificazione. Il più accreditato esponente di questa posizione in Economia è stato Milton Friedman.
[5] In quanto segue, si intenderà per riceventi coloro che non sono economisti di professione, con particolare riferimento all’opinione pubblica, comunque la si voglia intendere, e i responsabili della politica economica.
[6] E’ possibile anche che l’autore esageri nell’attribuire agli economisti matematici una consapevole visione filosofica.
[7] Questa demarcazione riflette la logica del modello di comunicazione competitiva (v. infra, fig.1): il primo ordine di critica riguarda la traiettoria (2), mentre il secondo ordine di critica è riflesso nella traiettoria (1).
[8] Ringrazio il collega Enrico Ciavolino per avermi segnalato questo esempio.
[9] Per una ricostruzione analitica di questa posizione, si rinvia a Brancaccio (2009).
[10] Stando alle considerazioni relative al dominio del mainstream nei media che verranno svolte a seguire, si può ragionevolmente affermare che – ad oggi, e non solo nel panorama mediatico italiano – il dibattito è fortemente asimmetrico, a danno delle posizioni ‘critiche’.
[11] Il tema è trattato, in particolare, da E. Brancaccio, Un’ombra in fondo al tunnel, www.economiaepolitica.it, al quale si rinvia per approfondimenti.
[12] A ciò si può aggiungere il fatto che i finanziamenti della ricerca, o anche la sola reputazione del ricercatore, in Economia sono calibrati sulla base di indicatori (in primis, l’”Impact Factor”) che premiano le riviste più lette che, a loro volta, sono le riviste che godono di maggiori finanziamenti. Per una critica a questa impostazione si rinvia a Realfonzo (2007).
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Manovra fiscale. Perché il Sud paga i costi più alti
[“popoliecostituzioni.blogspot.com” del 7 novembre 2010]
La manovra finanziaria predisposta dal Ministero dell’Economia comporterà minori spese per un ammontare complessivo di circa 24 miliardi di euro, accentuando una linea di rigore finanziario che i Governi italiani degli ultimi decenni, con intensità variabile, hanno tenacemente perseguito, l’obiettivo di portare il rapporto deficit/PIL dall’attuale 5% al 2.7% nel 2012. Si badi che il rigore finanziario non è affatto un bene in sé, e tantomeno un male necessario, come viene diffusamente sostenuto. La linea del rigore finanziario non è altro che una linea che si usa definire di “lacrime e sangue”, ovvero di sacrifici – in termini di minori servizi pubblici e/o maggiore imposizione fiscale – che vengono chiesti ai cittadini e, in particolare, ai percettori di redditi più bassi, ai lavoratori dipendenti, ai pensionati. E’ opportuno premettere che questa manovra è sostanzialmente imposta dall’Unione europea ed è pensata, in quella sede, per scongiurare possibili effetti di contagio sull’economia italiana della crisi greca.
In altri termini, si ritiene che solo contenendo l’espansione del debito pubblico l’Italia può evitare di incorrere in attacchi speculativi di entità rilevante, e tali da prefigurare ulteriori problemi per la tenuta stessa del progetto di unificazione monetaria europea. Occorre rilevare che non si tratta di una tesi ‘neutrale’ e che, proprio per questa ragione, è essa stessa suscettibile di una critica radicale, che si può porre in questi termini. Si parta dalla constatazione che l’oggetto del contendere non è l’elevato volume del debito pubblico, ma un rapporto giudicato eccessivamente alto fra debito pubblico e prodotto interno lordo. In tal senso, seppure si accoglie la tesi stando alla quale gli attacchi speculativi sono determinati in ultima istanza da un rapporto debito pubblico/PIL che gli speculatori giudicano eccessivo, da ciò non segue necessariamente che la terapia debba consistere nella riduzione del numeratore. E’ ampiamente dimostrato, e per molti aspetti è intuitivo, che l’aumento della spesa pubblica accresca il prodotto interno lordo, per il tramite di un aumento dell’occupazione e della produzione, e che dunque si può ridurre il rapporto debito pubblico/PIL accrescendo la spesa pubblica. Non è tuttavia questa la strada che si intende percorrere. E non lo è per almeno due ragioni. In primo luogo, l’assetto istituzionale europeo è fondato su un’impostazione teorica di matrice liberista, stando alla quale lo Stato è il problema e l’intervento pubblico in economia è solo fonte di inefficienze e di distorsione dei meccanismi di allocazione delle risorse che si suppone il mercato sia in grado di realizzare in modo ottimale. In secondo luogo, e sul piano degli interessi materiali, l’aumento della spesa pubblica è visto, di norma, dalle imprese come un freno alla crescita dei loro profitti, dal momento che, associandosi a un aumento dell’occupazione, accresce il potere contrattuale dei lavoratori e conseguentemente i salari. Per quanto specificamente attiene alla manovra finanziaria italiana, i provvedimenti in esame sono molteplici e, fra questi, il blocco del turnover nella pubblica amministrazione, il rinvio dei rinnovi dei contratti pubblici e il taglio di tredicimila miliardi euro agli Enti locali sono quelli che fanno maggiormente discutere. Si tratta di provvedimenti molto discutibili, non solo per ragioni di equità distributiva e di coesione sociale, ma anche per il raggiungimento dei fini che ci si propone. Non si tratta cioè semplicemente di rivendicare l’inaccettabilità di misure che scaricano i costi della crisi (ammesso che di questo si tratti) sui ceti più poveri: il che è indiscutibilmente vero, ma attiene ad argomentazioni non strettamente economiche. La critica si pone in questi termini: la riduzione del reddito disponibile comporta – a parità di aliquote d’imposta – una riduzione del gettito fiscale. A sua volta, e per conseguenza, la riduzione del gettito amplifica il problema della sostenibilità dei conti pubblici, prefigurando un percorso vizioso di ulteriori riduzioni di spesa finalizzate a compensare la perdita di entrate fiscali. Questo effetto è evidentemente ben chiaro ai tecnici del Ministero dell’Economia, dal momento che i provvedimenti in discussione sono associati a politiche finalizzate al contrasto all’evasione fiscale. Qui si pone un problema, che è sì strutturale per l’economia italiana, ma che l’attuale Governo non ha saputo fin qui fronteggiare. E’ opportuno preliminarmente chiarire che i dati sull’evasione fiscale sono lacunosi. Ad oggi, si dispone delle stime dell’ufficio studi dell’Agenzia delle Entrate sull’evasione dell’Iva (dal 1982 al 2004) e dell’Irap (dal 1998 al 2002), e di quelle dell’Istat sul sommerso economico (fino al 2006, ma con una rottura nella serie dal 2000). Per l’ultimo biennio, è stato stimato (rapportando il gettito netto dell’IVA ai consumi delle famiglie), che l’evasione fiscale è aumentata di oltre un punto percentuale e, fra gli addetti ai lavori, è diffusa la convinzione che questo Governo non sia riuscito a fronteggiare il problema, sebbene si possa riconoscere che il fenomeno è anche imputabile alla crisi in corso. Vi è dunque motivo di dubitare del fatto che la lotta all’evasione fiscale riesca a compensare la riduzione di gettito conseguente alla caduta del reddito disponibile del lavoro dipendente. Si noti, non incidentalmente, che il taglio agli Enti locali non può che peggiorare il quadro macroeconomico, se non altro perché contribuisce, con l’ennesimo provvedimento in tal senso, ad accentuare i dualismi regionali, penalizzando ulteriormente le Regioni meridionali. Per le quali non si prevede alcun intervento finalizzato alla crescita, ma, ancora una volta, solo sottrazione di risorse. E’ piuttosto ovvio associare questa manovra all’aumento delle tariffe dei servizi locali (si pensi alle mense o ai trasporti), con maggior danno per le aree più povere e per i percettori di redditi bassi in quelle aree, ovvero di coloro che maggiormente si fruiscono di tali servizi. Il tutto, ci viene detto, per pagare i costi della crisi; crisi rispetto alla quale le popolazioni del Sud d’Italia non hanno certamente alcuna responsabilità.
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Le delocalizzazioni. Le opinioni e i fatti
[in http://www.popoliecostituzioni.blogspot.com del 20 novembre 2010]
I commenti critici alle recenti dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in ordine alla scarsa redditività degli stabilimenti Fiat in Italia e alla conseguente necessità delle delocalizzazioni, si sono – per lo più – concentrati sulle capacità gestionali del management dell’azienda e sulla censurabilità di quelle dichiarazioni alla luce dei cospicui finanziamenti pubblici ricevuti in passato da Fiat.
Si tratta di rilievi condivisibili che, tuttavia, sembrano non tener conto di una considerazione che prescinde dal singolo caso e che può porsi nei seguenti termini: l’accelerazione dei processi di delocalizzazione industriale conferma che il capitalismo contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla piena sovranità della grande impresa. Una piena sovranità che si manifesta anche mediante il potere che essa esercita sulle scelte di politica economica e, in particolare, di politica del lavoro[1]. Sono in molti a ritenere che gli assetti istituzionali e decisionali ereditati dal Novecento siano oggi inadeguati e che le norme giuridiche debbano adeguarsi alle ‘nuove’ esigenze di competizione delle imprese nell’economia globale. A ben vedere, si tratta di una opzione ideologica; d’altronde, non sempre ciò che è nuovo è necessariamente meglio di ciò che lo ha preceduto[2].
Schematicamente, le scelte di delocalizzazione vengono ricondotte a due ordini di fattori.
1) Si ritiene che le delocalizzazioni dipendano dall’eccessiva regolamentazione dei mercati, dall’elevato onere burocratico, dall’elevata imposizione fiscale e, più in generale, dalla peggiore ‘qualità delle istituzioni’ del Paese dal quale le imprese migrano. Si tratta di una tesi che non sembra trovare adeguati riscontri empirici. Può essere sufficiente, in questa sede, richiamare l’ultimo rapporto della Banca Mondiale che certifica che, con riferimento ai governi italiani, in una scala compresa fra lo 0 e il 100%, la qualità delle istituzioni italiane (in primis, la continuità governativa) si è ridotta dall’80% del 1996 al 55% del 2009, essendo di gran lunga superiore la qualità delle istituzioni tedesche. Ma, a fronte della migliore qualità delle istituzioni tedesche, le delocalizzazioni sono state più massicce in Germania che in Italia.
2) E’ opinione diffusa che le imprese decidano di delocalizzare se i salari sono più alti nel Paese nel quale operano e più bassi nel Paese nel quale potrebbero migrare[3]. Evidentemente occorre che sussistano le condizioni che rendano possibile la delocalizzazione sul piano tecnico, ovvero che sia possibile investire altrove con costi ragionevolmente bassi. Si consideri, a riguardo, che l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che ha dato maggiore accelerazione alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (e nel quale i salari medi sono fra i più bassi in ambito europeo) e, contestualmente, che ha sperimentato un’intensificazione dei processi di delocalizzazione in uscita molto significativa, con ben scarsi flussi in entrata.
Quest’ultima interpretazione razionalizza parte del fenomeno. Altri fattori concorrono a determinarlo e, fra questi, è opportuno considerarne almeno due.
a) La quantità e qualità delle delocalizzazioni è significativamente influenzata dall’erogazione di finanziamenti per l’attrazione di investimenti nel Paese ospitante. Il caso della Serbia, in tal senso, è emblematico[4]. Con il Decreto 70/2008 della repubblica serba è stato stanziato un fondo specificamente destinato a questo fine, con la clausola che – per l’erogazione di finanziamenti – occorre tener conto in primis della quotazione in borsa dell’impresa e della sua capacità di trasferire “alte tecnologie” (art.13). Questo dispositivo costituisce una spinta rilevante, per le grandi imprese, a lasciare nei Paesi d’origine le filiere di produzione a bassa intensità tecnologica e, conseguentemente, ad occupare prevalentemente lavoratori con basse competenze o sottoccupati. Ovvero, di norma, lavoratori ai quali viene somministrato un contratto di lavoro a tempo determinato.
b) Le delocalizzazioni possono essere favorite dalla precarietà del rapporto di lavoro non solo nel Paese di destinazione ma anche in quello di partenza. Infatti, la diffusione di rapporti di lavoro precario costituisce una condizione permissiva per la mobilità dei capitali, almeno nel senso che consente all’impresa di non rinnovare i contratti di lavoro nel Paese dal quale intende migrare[5]. Ciò accade a ragione del fatto che, somministrando contratti a tempo determinato, l’impresa non è vincolata a produrre in loco, o comunque lo è meno rispetto al caso in cui vi siano vincoli alla libertà di licenziamento. In quest’ultimo caso, infatti, l’impresa dovrebbe sostenere costi di licenziamento che, in regime di precarietà, non sostiene.
Occorre chiarire che la piena mobilità internazionale dei capitali contribuisce ad aggravare la crisi, in quanto rafforza la concorrenza fra Stati al ribasso dei salari e della spesa pubblica e, dunque, alla caduta della domanda aggregata e dell’occupazione, su scala globale, riducendo i mercati di sbocco e rendendo, conseguentemente, più difficile la realizzazione monetaria dei profitti per le imprese nel loro complesso[6]. E in fine dei conti, per ogni singolo Paese, le politiche di bassi salari, precarizzazione del lavoro e riduzione dei diritti dei lavoratori – oltre a essere socialmente dannose – possono non risultare efficaci nel contrastare le scelte di delocalizzazione e il conseguente aumento del tasso di disoccupazione. E ciò per il possibile innescarsi di una spirale perversa, che va dalla caduta dei salari al ristagno della domanda aggregata interna (a causa della contrazione della domanda di beni di consumo[7]) e può portare al disinvestimento in quell’area e ad ulteriori compressioni salariali[8]. A ciò si aggiunge che, a fronte del calo della domanda, le imprese sono disincentivate ad introdurre innovazioni, generando, per questa via, riduzioni della produttività del lavoro[9].
Le scelte di localizzazione possono essere, dunque, significativamente determinate dall’ampiezza dei mercati di sbocco e dalla dinamica della produttività e, per le cause qui individuate, i bassi salari sono, di norma, associati a bassa produttività. E la reiterazione di politiche di deflazione salariale e di precarizzazione del lavoro non può che accentuare il problema.
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[1] Si veda, fra gli altri, e con riferimento al c.d. statuto dei lavori, Piergiovanni Alleva, Cosa c’è dietro lo Statuto dei lavori, “Liberazione”, domenica 14 novembre 2010.
[2] Si pensi, a riguardo, al dibattito sulla revisione del dettato costituzione o dello Statuto dei lavoratori: il fine è chiaro, e consiste nel comprimere i diritti dei lavoratori estendendo, nel contempo, gli spazi di discrezionalità delle imprese, dunque il loro potere economico e politico. In tal senso, affermare che i diritti acquisiti dai lavoratori sono oggi non più accordabili significa con ogni evidenza affermare che la crescita economica oggi è necessariamente trainata dall’accumulazione dei profitti (e da bassi salari). Con ogni evidenza, questa proposizione non può considerarsi ‘neutra’, né sul piano etico e tantomeno sul piano dell’analisi economica. Sul tema, si rinvia a A. Bhaduri, and S. Marglin, Unemployment and the real wage: The economic basis for contesting political ideologies, “The Cambridge Journal of Economics”, 1990, 14, pp.375-393.
[3] Si stima, a riguardo, che il rapporto tra la retribuzione di un lavoratore di un paese industrializzato e quella di un lavoratore bulgaro o filippino è di 10 a 1. Questo differenziale è ancora più evidente se, ad esempio, si confronta il costo di un lavoratore di Zurigo con uno di Bombay o Karachi: in questo caso il rapporto è di 26 a 1.
[4] Lo è soprattutto perché, come evidenziato dalla X Indagine sulle imprese manifatturiere pubblicata da Unicredit, le delocalizzazioni delle imprese italiane riguardano per oltre il 50% i paesi dell’Europa a 15, per quasi il 15% i nuovi paesi membri dell’Europa a 27 e per oltre il 27% i paesi asiatici (Cina innanzitutto).
[5] Per una verifica empirica di questo effetto si rinvia a A. Aminghini, A.F. Presbitero, M.G. Richiardi, Delocalizzazione produttiva e mix occupazionale, Mofir working paper n.42, May 2010.
[6] Per una trattazione divulgativa del problema, si rinvia al mio articolo Sciopero del capitale, austerità e bassi salari.
[7] La precarietà del lavoro è associata a bassa domanda aggregata perché comprime la propensione al consumo, in condizioni di incertezza sul rinnovo del contratto di lavoro. Sul tema si rinvia al mio La precarietà come freno alla crescita.
[8] Il che, a sua volta, può spingere le imprese (se internazionalizzate) a vendere all’estero, almeno nei casi in cui i costi di trasporto siano sufficientemente contenuti. Diversamente, non essendovi incentivo ad accrescere la produzione, politiche di bassi salari concorrono a determinare il ‘nanismo’ imprenditoriale che caratterizza la struttura produttiva italiana e meridionale, in particolare. Sulle dinamiche delle localizzazioni di imprese, si rinvia al pionieristico lavoro di Paul Krugman, Increasing returns and economic geography, “Journal of Political Economy”, vol.99, n.3, 1991 .
[9] Cfr. H.Hein and A. Tarassow, Distribution, aggregate demand and productivity growth: Theory and empirical results for six OECD countries based on a post-Kaleckian model, “Cambridge Journal of Economics”, 2009, 34, pp.727-754. Sui fattori che determinano avanzamento tecnico, si rinvia, fra gli altri, a S. Davidson and H.Spong, Positive externalities and R&D: Two conflicting traditions in Economic Theory, “Review of Political Economy”, vol.22, n.3, July 2010, pp.355-372. Stando al ben noto teorema smithiano, la produttività del lavoro cresce al crescere della divisione del lavoro all’interno dell’impresa, che, a sua volta, dipende dall’estensione del mercato. Politiche di riduzione dei salari, riducendo la domanda, riducono – per questa via – la divisione del lavoro e, conseguentemente, la produttività.