di Antonio Errico
Sul frontespizio del libro c’era scritto così: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Il libro era “Dialoghi con Leuco”. Un capolavoro. Il libro che lui ebbe più caro. Le parole erano le stesse che scrisse Majakovskij. Letteratura fino all’ultimo istante. Letteratura a qualsiasi costo.
Cesare Pavese se ne andava in questo modo, settant’anni fa, la notte fra il ventisei e il ventisette di agosto, nella camera numero 346 dell’albergo Roma in Piazza Carlo Felice a Torino. Sessantatré giorni prima aveva vinto il premio Strega per “La bella estate”. Tredici giorni dopo avrebbe compiuto quarantadue anni.
Cesare Pavese se ne andò così, a quell’età. Per imprudenza. Aveva scritto: “Gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di raccontarla, non può arrivare al suicidio se non per imprudenza”.
Cesare Pavese se ne andò così: per imprudenza.
Accade spesso che ci si ponga domande sull’attualità dell’opera di uno scrittore. Accade che si leggano i suoi libri con la sola intenzione di trovare un riferimento al presente, con il risultato appagante di trovarlo (o di inventarlo) o con quello inappagante di non trovarlo ( o di non riuscire ad inventarlo). Accade quasi sempre nelle ricorrenze. Quasi che si avesse bisogno di quel riferimento all’attualità per poterne parlare. Accade anche per Cesare Pavese. Accade che ci si chieda se i suoi romanzi, le sue poesie siano attuali. Ma la domanda che ci si pone per Pavese e per qualsiasi altro forse non ha nessun significato e sarebbe più corretto domandarsi in che cosa consista l’attualità di un’opera letteraria, anzi di un’opera di qualsiasi arte.