Mirabile è l’abilità della Gasparotto nell’accompagnare, senza forzature e artifici, il lettore nella realtà di una terra tanto aspra e dura quanto laboriosa (terra che non viene mai apertamente nominata ma sappiamo essere il basso Friùli) e in un’esistenza, la sua, sulla quale si staglia e incide la figura di un padre silenzioso, pressoché misterioso, poco comunicativo, poco accogliente, poco Padre, ma da cui urge emanciparsi; ed è interessante notare quanto, in maniera forse speculare, il distacco e l’emancipazione da quella figura paterna si innestino nel distacco dalla cultura contadina di origine, cultura che a tratti produce nella protagonista insofferenza e disagio visto che si colloca in antitesi con i paradigmi socio-culturali della sua epoca di ragazza.
La distanza, l’approdo in una nuova città, una città capoluogo, città di grande cultura e ampie vedute com’è Trieste, agevolerà l’inattesa riconciliazione con quel padre che, in procinto di divenire nonno, forse diviene finalmente Padre della figlia che sta per divenire madre. Il distacco e la ricerca quasi ossessiva della memoria riescono così, quasi di pari passo, a sciogliere i tanti grumi affettivi stratificatisi nel tempo senza averne avuto mai voce e parola alcuna.
In fondo, dice la protagonista/Autrice,“tra me e lui è sempre stata una questione di parole” e “le cose che non ci siamo detti mi assediano, bussano alla finestra”. E qui, l’impressione che aleggi lo spirito di quel bellissimo libro di Marie Cardinal Le parole per dirlo, che, sebbene per altre motivazioni e differenti strade, poneva al centro della vita e della sua narrazione la “parola” e la sua immensa portata, sorprende piacevolmente.
Calibrato e adatto è apparso, infine, l’utilizzo della terza persona in alcuni passaggi che, rappresentando momenti essenziali d’introspezione e riflessione, richiedevano il necessario, ulteriore distacco.