I biografi di Carlo Azeglio Ciampi, ottimo Presidente della nostra Repubblica, raccontano che alle scolaresche in visita al Quirinale, il Presidente era solito sottoporre un quesito. Recitava, senza rivelarne l’autore, i versi iniziali della canzone di Petrarca: «Italia mia, benché il parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio…»; e poi i versi iniziali del componimento di Leopardi: «O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo…». Invitava quindi gli studenti a riconoscerne gli autori o almeno a capire quale dei due testi era più antico (tra l’uno e l’altro corre un intervallo di quasi cinque secoli). Di fronte alle incertezze dei ragazzi traeva la seguente conclusione: la lingua italiana, nata già nel Trecento, è poco cambiata nel corso dei secoli, non ha avuto gli strappi e le accelerazioni di altre lingue europee come il francese o l’inglese. Ecco perché possiamo accostarci con fiducia ai classici della nostra letteratura e in buona misura comprenderli, se possediamo l’attrezzatura grammaticale che una scuola ben fatta è in grado di fornire. I professori sono capaci, salvo eccezioni, pur mortificati da circolari e normative vischiose.
Torniamo al punto di partenza, Dante è il padre della lingua italiana. La sua influenza si fa sentire anche in ambiti che non sospetteremmo. Ne abbiamo enumerati alcuni, nella rubrica del 26 luglio. Rispondendo alle sollecitazioni dei lettori (Dante interessa moltissimo) aggiungo qualche altro esempio. Il più importante storico dell’arte del Novecento, Roberto Longhi, sulle pagine di un numero dell’«Europeo» (una rivista che oggi non si pubblica più, diffusa negli anni Cinquanta-Ottanta del secolo scorso) affermava che compito primario di uno Stato sollecito della cultura è quello di divulgare correttamente la «Commedia»di Dante. La lingua del poema dantesco è perfettamente intelligibile, ancor più se le si affianca (a virtuoso scopo didattico) un corpusselezionato di illustrazioni delle cantiche prodotto dagli artisti contemporanei a Dante oposteriori a lui di un secolo al massimo, che meglio potevano intendere e rappresentare visivamente episodi e personaggi dell’opera dantesca. Il fondatore della storia dell’arte italiana, il toscano Giorgio Vasari (1511-1574), usa spesso versi della «Commedia» per illustrare le opere dei «più eccellenti pittori, scultori et architetti» che egli, con competenza e precisione straordinarie, quasi miracolose, andava a esaminare di persona nelle città d’Italia, visitando chiese e palazzi. Mario Schifano, pittore che rappresenta la Pop Art italiana ed europea, morto nel 1998, dichiarava senza tema di smentite che «Dante ha scritto nella lingua che tutti capivano e oggi quella lingua è la televisione, il nostro linguaggio “primario”».
Dante parla direttamente delle arti, in varie occasioni. Nel canto undicesimo del Purgatorio scontano la loro pena i superbi. Sono puniti non perché in vita hanno aspirato ad eccellere (tale aspirazione è ammessa, se si manifesta correttamente come amore del proprio bene), ma perché il sentimento di eccellenza personale si accompagna alla tendenza a squalificare il prossimo, spesso denigrandolo. In questo peccato è incorso il miniatore Oderisi da Gubbio che per superbia ha negato la grandezza di un altro miniatore, Franco bolognese, la cui arte è onorata da tutti, mentre quella di Oderisi è caduta in secondo piano. Così vanno le cose del mondo, constata Dante. Cimabue era considerato il migliore nella pittura e ora la sua fama è soppiantata da Giotto. Guido Guinizelli era il poeta migliore dei suoi tempi e ora «la gloria della lingua» è passata a una figura della generazione successiva, Guido Cavalcanti. Miniatura, pittura, poesia, in successione.
C’è altro. Nel canto ventottesimo dell’Inferno sono puniti i seminatori di scismi e di discordie, che con i comportamenti e con i consigli mettono in crisi l’unità di stati, religioni, istituzioni, famiglie. Tra gli altri, nel girone è rinchiuso Bertran de Born, trovatore provenzale che istigò re Enrico il giovane, figlio di Enrico II Plantageneto, a rivoltarsi contro il padre, per impossessarsi della corona d’Inghilterra. Per aver provocato divisioni, Bertran non ha più la testa attaccata al collo: il suo corpo cammina tenendo in mano il capo, come se fosse una lanterna. Un’illustrazione di Gustave Dorè raffigura l’episodio. Allo stesso modo sfila un modello di Gucci, per la sfilata milanese di presentazione della collezione autunno-inverno 2018-2019 (riassumo le informazioni su Dante, le arti visive e la moda dall’articolo «Memoria di Dante nel lessico visivo di Roberto Longhi, da Boccioni ai Pisani (1914-1966)», apparso in «Studi di Memofonte», 23/2019, pp. 293-320, scaricabile dal sito della Fondazione Memofonte: https://www.memofonte.it/studi-di-memofonte/numero-23-2019/).
Dante e la moda, il binomio non è inedito. A Dante si ispira la fragranza «Tuscan Soul Quintessential Collection» dello stilista Salvatore Ferragamo. La pubblicità del profumo garantisce che la «Commedia» «è una poesia liquida che ripercorre il percorso delle tre cantiche al contrario, è un perfetto equilibrio tra luce e oscurità, tra peccato e redenzione». Non alla poesia dantesca ma ad altre arti (musica, canto, danza) si è ispirata la recentissima (22 luglio) sfilata di Dior in piazza Duomo a Lecce. Molto si è scritto e parlato. Leggo affermazioni del tipo: «La bellezza è un dono di Dio nelle sue tante sfumature», ecco perché ospitare la sfilata a Lecce; coprendo con le luminarie gli edifici barocchi (aggiungo). Prendo atto, ma vorrei capire di più.
Certo questi non sono tempi per riflessioni sottili e l’arte, nelle sue diverse manifestazioni, non è una monade. Abbiamo visto Chiara Ferragni fotografata nella galleria degli Uffizi, con alle spalle «La Primavera» di Botticelli. L’abbiamo vista nella Basilica di santa Caterina d’Alessandria a Galatina, mentre ripete tante volte «pazzesco» di fronte a quegli affreschi. E passeggiare per le stradine del centro storico di quella città seguita dalla banda, come capita alle sante portate in processione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 9 agosto 2020]