di Ferdinando Boero
Sono in vacanza in un posto dove non c’è niente. È un minuscolo paesino tra la provincia di Genova e quella di Piacenza, in una valle nei pressi della Val Trebbia. In inverno non c’è nessuno, la popolazione residente se n’è andata negli anni sessanta, per trasferirsi in gran parte a Genova. Tornano in estate, per sfuggire al caldo cittadino, ridando vita al paese. Da qui viene la famiglia di mia moglie che, da bambina, passava qui le sue estati, quando la scuola finiva a giugno e ricominciava a ottobre. Non c’è niente significa: niente negozi, locali, giornali, niente linea per i cellulari e nessuna copertura per la rete; bisogna fare la spesa nel paese più vicino, a circa 15 km di distanza, e percorrere una stradina stretta, lunga e tortuosa, asfaltata solo in parte, che sale a 1500 m e scende in una valle a 1000 m. D’inverno la neve isola il paese, ma con il riscaldamento globale l’isolamento è sempre più breve. I boschi di faggi, tagliati in passato per fare carbone, stanno ricrescendo e la boscaglia di 30 anni fa sta prendendo la forma del bosco colonnare tipico delle faggete. Ci sono: cinghiali, daini, istrici, aquile, ghiri, faine, ramarri, vipere (poche), scoiattoli, lupi, lepri, ghiandaie, upupe, gufi reali, allocchi e altri uccelli di cui non riconosco il canto (sono un biologo marino e sui monti sono un dilettante). Persone poche, pochissime. Intorno al paese gli abitanti temporanei allestiscono orti per limitare i viaggi nel paese vicino, e coltivarli è una delle attività principali, oggetto di maniacali attenzioni. Le case sono addossate le une alle altre, di pietra, anche se qualche orrore anni sessanta c’è. Le pietre grigie dei tetti sono state sostituite con tegole rosse. Due case abbandonate sono venute giù, ma il resto del paese “tiene”. Io passo parte delle mie giornate nei boschi.