Soltanto una condizione di superficialità e di provvisorietà culturale può ignorare la funzione essenziale che assume la memoria.
La memoria è profondità. Ricordare è un movimento in verticale. Un discendere. Uno sprofondare. A volte l’essenziale si trova nel corso del movimento, a volte a conclusione di quel movimento. Però è comunque in quel discendere, in quello sprofondare, nell’attraversamento – nel perforamento- delle stratificazioni che si possono rintracciare i segni dell’evoluzione di una civiltà. E’ in quei segni che una civiltà si può riconoscere.
La civiltà che abitiamo si muove in orizzontale, prevalentemente, forse quasi esclusivamente. Si guarda quasi sempre intorno. Quasi mai si guarda dentro. Non discende dentro i suoi significati. Si limita a decodificare quello che appare. Rimane in superficie. Quindi non ha memoria. Restando in superficie non può averne.
Forse si sente appagata da quella identità superficiale, dal suo volto senza storia. La memoria viene oscurata o comunque relegata in spazi senz’aria, come qualcosa di marginale, improduttivo, o che può addirittura rappresentare un impedimento per lo sviluppo. Come dice la voce di Edith Conant nell’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, la memoria, le memorie, se ne stanno sole, perché nessun occhio le vede; sole, timorose, con gli occhi chiusi nell’infinita tristezza di piangere.
Ci muoviamo nei territori culturali come turisti che fotografano qualcosa nel modo in cui è sconoscendone la storia e quindi i suoi significati.
Ci lasciamo attrarre da una molteplicità di richiami estemporanei, distrarre dalle loro promesse di offerte immediate, sedurre dalle loro apparenze luccicanti.
Molte contraddizioni di questa civiltà sono determinate dalla mancanza di memoria, dalla trascuratezza nei confronti della sua storia, dalla disattenzione nei confronti del suo passato. Molti errori sono dovuti alla stessa cosa. A parte la scienza, con le sue evoluzioni da strabilio, riesce difficile rintracciare eccezioni.
Così questa civiltà si ritrova in una bolla – spesso anche molto colorata – che ballonzola senza stabilità. Una bolla che non ha consistenza e che di conseguenza può dissolversi nel tempo di un istante.
Una civiltà, invece, ha necessità di svilupparsi sulla solidità delle sue strutture. Quindi sulla storia che presenta il catalogo dei fatti positivi e di quelli negativi, concedendo la possibilità di adottare come riferimenti i primi e di rifiutare gli altri.
Allora bisogna confrontarsi con la storia, che vuol dire confrontarsi con la memoria di una civiltà.
La memoria è quella condizione che consente di comprendere l’esistenza degli uomini nel tempo e nello spazio, con le loro fortune e le loro sfortune, con le loro nobiltà e le loro miserie. E’ quella condizione che consente di comprendere perché siamo qui, ora, così, e perché il qui è nel modo in cui lo vediamo, perché ora è diverso da allora e perché chi c’è ora è diverso da chi c’era allora, che cosa ha provocato il cambiamento di noi, del qui, del così.
La memoria non è uno sguardo rivolto al passato. E’ piuttosto uno sguardo rivolto all’orizzonte con la consapevolezza della strada che si è fatta e di chi si è incontrato nel corso del viaggio, del tempo bello e del tempo brutto che è venuto, del pericolo che si nascondeva o si mostrava spavaldamente in qualche punto e del soccorso che si è manifestato. Diceva Paul Ricoeur che è nella misura in cui torniamo alle nostre origini e in cui ravviviamo il nostro passato che possiamo essere, senza scontentezza, gli uomini del progetto. Ma in questa tensione verso il progetto, il passato ci interpella continuamente. Ci interroga sulle ragioni e sui sentimenti che motivano le nostre scelte. Vuole sapere in che modo custodiamo la bellezza incantevole che ci ha lasciato, in che modo pensiamo di riparare alla tristissima bruttezza. Pretende da noi una coerenza nei processi di sviluppo, nei percorsi di progresso. Pretende da noi il rifiuto di ogni indifferenza, una concreta appartenenza alla storia che ci ha condotti sulla soglia di un presente dalla quale scrutiamo immaginari i paesaggi di un avvenire.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 2 agosto 2020]