di Rosario Coluccia
Il 13 luglio abbiamo assistito a immagini insolite, mai viste prima. Due Capi di Stato, il presidente italiano Mattarella e il Presidente sloveno Pahor, mano nella mano davanti all’ingresso della foiba di Basovizza a Trieste, commemoravano le vittime italiane delle foibe nei mesi finali della seconda guerra mondiale; dopo l’omaggio dei due si è ripetuto davanti al cippo che ricorda quattro membri della comunità slovena che nel 1930 furono messi a morte a seguito di una condanna emessa da un tribunale speciale italiano. Successivamente i due presidenti hanno incontrato lo scrittore sloveno con cittadinanza italiana Boris Pahor, vecchio venerabile (compirà 107 anni il 26 agosto), simbolo vivente del travagliato rapporto fra i popoli italiano e sloveno. A lui sono state consegnate onorificenze importanti dei due Paesi. In un lungo articolo apparso in un numero di aprile della «Lettura» lo scrittore parla della pandemia che oggi ci ha colpito e rievoca l’influenza Spagnola che devastò il mondo un secolo fa (1918-1920), quando lui era bambino; ricorda la paura che investì l’umanità anche allora, l’illusoria «pastiglia» che veniva distribuita nella speranza di contrastare l’epidemia, percorre le catastrofi dei decenni successivi, la seconda guerra mondiale e oltre. Chiudendo con una nota di speranza utopica: un giorno, forse, un Parlamento mondiale sarà in grado di affrontare e risolvere le intollerabili disuguaglianze che affliggono i popoli della terra, un pianeta in cui troppi muoiono ancora di fame e di sete.
La pandemia che devasta il nostro paese e il mondo obbliga a riflettere, nel bene e nel male. Mi ha colpito la sfrontatezza con cui sono state espresse opinioni mai sentite o lette prima: «Tanto, tutti alla fine dobbiamo morire» (per giustificare l’inazione); o anche, pur non dichiarata in maniera esplicita, la presupposizione che la vita di tutti non ha lo stesso valore, e che a partire da una certa età è già come se si fosse un po’ morti. Comunque la si pensi, la malattia ha provocato e provoca enormi problemi medici, economici e sociali. Forse un barlume si intravede alla fine del tunnel, se non comprometteremo il buono con comportamenti sciagurati, che trasformano l’«homo sapiens» (l’uomo moderno che dall’Africa ha popolato il pianeta) in «homo stupidus stupidus» (come argutamente mi suggerisce Domenico Lenzi, matematico). E allora, con ottimismo ingenerato più dalla volontà di normalità che dall’ottimismo di quel che vedo e sento, torno a trattare un aspetto non trascurabile delle novità introdotte nella nostra vita dalla pandemia. Parlo delle conseguenze che essa ha provocato nella lingua.