Forse è stata così anche l’esistenza di coloro che hanno attraversato una parte di quel tempo cercando di annodare le storie personali con quelle di tutti, scavando nella profondità della propria storia alla disperata ricerca di un significato che giustificasse il proprio essere, il proprio esistere, il proprio scegliere di fare qualcosa invece di un’altra.
Per se stesso, Dino Buzzati si interroga sul senso del suo mestiere in particolare, sul senso della scrittura in generale.
Sono venti righe di interrogativi; venti righe di bellezza. Dice Buzzati che si comincia a scrivere per se stessi, quasi nascondendo quello che si scrive. Poi un giorno si rilegge, si scopre che è bello, e poi qualcuno conferma che è bella quella cosa che si è scritta, che si dovrebbe pubblicare. Allora si pubblica. Da quel momento cambia tutto. Da quel momento si smette di scrivere per se stessi. Si scrive per un’ombra: per l’ombra di colui che leggerà, per un’ombra che ti guarda da dietro le spalle mentre scrivi, e tu hai paura che sogghigni. Dal momento in cui si pubblica, si scrive con un’ombra dietro le spalle, alla quale si deve dare conto.
Chi legge il frammento di Buzzati si chiede a chi possa appartenere quell’ombra. Forse può appartenere ad uno sconosciuto. Forse può appartenere ad una persona cara. Forse è l’ombra di coloro che verranno. Forse è l’ombra degli antenati. Forse è l’ombra di chi si era quando si scriveva senza pubblicare. Forse è all’ombra di un ragazzino che si deve dare conto, giustificando ogni parola, dimostrando che gli anni non hanno cambiato il cuore.
Poi viene un tempo in cui si presta la macchina da scrivere ad un amico, che come tutte le cose prestate non ritorna più. Un tempo che la stilografica si rompe, il calamaio che si usava a scuola non si trova più perché “ miliardi di uomini nel frattempo sono morti e nati, e con essi deve essere stato sepolto”.
Allora si scrive con la matita: “ Un mozzicone veramente, trovato in una vecchia scatola, per caso. Gli ho fatto la punta, amici miei, e sulla poca carta bianca che rimane stasera io scrivo”.
Il libro finisce così. Con questa scena. Con una carta bianca che rappresenta la vita, su cui si deve scrivere qualcosa che abbia senso essenziale, una parola con cui si possa giustificare se stessi al cospetto dell’ombra del ragazzino che si è stati.
Un uomo nel Novecento. Appassionato, disorientato, triste, esitante, ironico, disilluso. Felice, anche, qualche volta: malinconicamente felice. Un uomo circondato da ricordi a volte veri, a volte simulati. Un uomo che si muove in un secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, cercando di ricomporre identità, di renderle di nuovo riconoscibili, possibili di amore, o anche solo di pietà.
Un uomo che si confronta con l’incognita delle storie e della Storia, con l’imprevedibilità dei destini, con la provvisorietà delle esperienze.
Un uomo solo. Perché solo è stato l’uomo del Novecento, in fondo. Solo con le sue speranze e le sue paure, con le sue illusioni, le sue delusioni, i suoi entusiasmi, le sue depressioni, i dubbi lancinanti, gli astratti furori. Qualche volta ha avuto la buona sorte di ritrovarsi in compagnia di se stesso. Spesso neanche sulla consolazione di quella indulgente compagnia ha potuto fare affidamento.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 26 luglio 2020]