La presenza così marcata di Dante in un autore del secondo Novecento, nostro contemporaneo, non è eccezionale. È impossibile anche semplicemente enumerare gli episodi di citazione, riutilizzazione, riappropriazione, riconversione di lemmi, interi brani, personaggi, temi della «Commedia» che hanno costellato la nostra storia culturale, già dal Trecento fino ai nostri giorni. Limitandoci alle fasi più recenti, è intrisa di Dante la grande letteratura italiana novecentesca. Nell’elenco spiccano i nomi di Rebora, Montale, Sereni, Amelia Rosselli, Pasolini, Sanguineti, Luzi, Fortini, Zanzotto; lo stesso Levi nella prigione di Auschwitz rievocava nella propria mente il canto di Ulisse e così immaginava dignità e speranza di salvezza, per il singolo e per il genere umano.
Dante si legge pochissimo nelle scuole e poco perfino nei corsi di Lettere all’università. Eppure non è così difficile, come spesso sentiamo ripetere. La lingua della «Divina Commedia» è diventata, nel tempo, l’italiano che noi parliamo e scriviamo. Tullio De Mauro, linguista di fama mondiale scomparso pochi anni fa, ha scritto: «Quando Dante comincia a scrivere la “Commedia” il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La “Commedia” lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi».
Naturalmente non troveremo nel testo dantesco i vocaboli, tipici della modernità, che ricorrono quotidianamente nella nostra lingua, non troveremo televisione e computer, e neanche calciatore, velina e giornale. Ma certamente vi troveremo molte parole del vocabolario fondamentale, il segmento di lessico che comprende le circa 2000 parole che ricorrono nella nostra lingua con altissima frequenza e servono per la quotidianità. Lo sappiamo per esperienza, alcuni professori ne danno conferma: un adolescente con anni di scuola alle spalle, in possesso di un livello medio di cultura, se ha voglia di impegnarsi e non si arrende al primo ostacolo, può arrivare a comprendere senza grandi difficoltà il significato di tantissime parole, forme, intere espressioni che nascono nella nostra lingua a partire da Dante. Impiantate nella lingua, sono componente stabile del nostro vocabolario, anche se usandole non ne riconosciamo la provenienza remota e illustre. L’opera di Dante ha circolato nei gangli più intimi della cultura italiana con enorme successo, rappresentando nei secoli il riferimento linguistico (letterario, ideologico, concettuale) di milioni di italiani. Davvero non si capisce perché uno dei capolavori dell’intelletto umano, apprezzato nel mondo intero, sia così poco presente nella scuola e nell’università italiana, non sfruttato come si potrebbe.
La sostanziale continuità tra la lingua di Dante e l’italiano contemporaneo si può verificare nella concretezza se consideriamo, a mo’ d’esempio, un piccolo gruppo di lemmi, che fino a tutto il Trecento sono presenti solo nella «Commedia» e nei commenti collegati. Parole come avvantaggiarsi, inoltrarsi, luminosità, minoranza, minuzia, ossame (e molte altre), che tutti noi usiamo, testimoniano la fortuna del lessico di Dante nella lingua a lui coeva e nei secoli successivi, fino all’italiano contemporaneo. Le parole usate da Dante non si restringono all’ambito letterario, in alcuni casi si travasano perfino nei dialetti.
La percezione più vistosa dell’enorme influenza che la «Commedia» ha esercitato sull’italiano si ha considerando il numero di frasi celebri di origine dantesca, che hanno dato luogo a espressioni idiomatiche o veri e propri proverbi, usate in forme del tutto svincolate dal contesto originario. Nella lingua di tutti i giorni usiamo frasi come «lasciate ogni speranza o voi che entrate», «non ti curar di lor, ma guarda e passa», «sanza ’nfamia e sanza lodo», «mi fa tremar le vene e i polsi», «dolenti note», «a viso aperto» senza ricordare che sono state inventate da Dante. A volte affiorano dove meno ce lo aspetteremmo. «Lassate ogni speranza o voi k’entrate» si trova scritto sui muri di Bastogi, quartiere romano degradato, nel film «Come un gatto in tangenziale», con Antonio Albanese e Paola Cortellesi (dicembre 2017). «Lasciate ogni speranza o voi che entrate nella A 6» recita un cartello affisso all’inizio di un tratto autostradale intollerabilmente intasato dal traffico. A volte chi le usa sbaglia. Molti dicono: «mi fa tremar le vene dei polsi» (ma in Dante «polso» significa ‘arteria’, e quindi è giusto «le vene e i polsi» ‘le vene e le arterie’). La locuzione «capo ha cosa fatta», nella variante «cosa fatta capo ha», ha avuto una fortuna secolare, fino ai nostri giorni. La usò D’Annunzio, per sancire l’irrevocabilità dell’impresa di Fiume, la usò Curzio Malaparte, la troviamo sulla bocca di politici dei nostri giorni (chissà se questi ultimi sanno chi ce l’ha regalata!).
Chi ne vuol conoscere la storia in dettaglio, durata secoli, consulti il sito www.accademiadellacrusca.it > lingua italiana > consulenza linguistica > risposte ai quesiti > Cosa fatta (e risposta data) capo ha!
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 26 luglio 2020]