Poi, nell’intervista Camilleri diceva: “Vedo una cecità che mi fa spavento, più della mia stessa cecità”.
Forse i vecchi hanno la capacità di esplorare territori di pensiero che agli altri sono impediti, di giungere a profondità che per altri sono irraggiungibili. Forse chi racconta storie ha una visionarietà che agli altri viene risparmiata: vedono oltre, perforano l’istante.
Forse fu per questo motivo, per questa condizione, che alla fine della sua esistenza e della sua esperienza di scrittura, Andrea Camilleri diventò Tiresia. L’indovino, la creatura multiforme, colui che, come dice Dante, mutò sembiante/ quando di maschio femmina divenne/ cangiandosi le membra tutte quante. Con Tiresia, Camilleri fa esperienza dell’azzardo di una profezia, penetra nell’universo scuro dell’incognita e lo attraversa con il raggio di un pensiero che vorrebbe metterci sull’allerta come sentinelle a difesa dei nostri tempi.
Andrea Camilleri si fece Tiresia, dunque. Una sera di giugno. Seduto al centro del Teatro Greco di Siracusa. Con quel volto che sembrava scolpito nella pietra. Con quella voce arrochita che pareva provenisse dall’antro di un tempo misterioso, con quelle parole che s’inchiodavano nell’aria, con le mani che si aprivano e si congiungevano, le braccia che si stendevano ad abbracciare la sera, e poi si appoggiavano sul petto, come per cercare un riposo.
Disse Camilleri, interpretando Tiresia, che da quando Zeus, o chi ne fa le veci, decise di togliergli la vista, a novant’anni, sentì l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità.
Ma
forse l’eternità si può percepire soltanto attraverso l’azzardo di un
vaticinio, di una profezia, con l’energia di uno sguardo cieco che trapassa la
densa fumaglia del presente e raggiunge orizzonti di verità diversamente
impensabili, e vede una luce che senza quella cecità non si può vedere.
Il monologo di Tiresia è un confronto, forse anche un corpo a corpo, con
l’ansia o la speranza o il desiderio nemmeno nascosto di comprendere
l’eternità.
La
voce vortica nell’aria. Andrea Camilleri racconta e riempie il buio con un universo di colori immaginari,
fantastici, con un meraviglioso onirico che in qualche modo compensa il suo
sguardo sbarrato.
Lui sapeva perfettamente che, al principio, non c’è una scrittura ma una voce.
Probabilmente è questa la ragione profonda del suo Tiresia raccontato con la
voce. E’ il ritorno all’origine, alla radice, all’essenza della narrazione. Al
respiro che si fa una sola cosa con l’aria, con il vento, l’umidore, la calura,
il silenzio. Al racconto che non è mai definitivamente chiuso, che si rende
disponibile alla sovrapposizione delle voci, ad una continua riformulazione,
alla contaminazione, al rimando, all’innesto, alle interferenze, alle
manipolazioni, che si sfrangia in digressioni, si interrompe, riprende, si
dilata, che subordina la sua possibilità di esistenza esclusivamente alla
possibilità della memoria.
Il Tiresia di Andrea Camilleri è la messa in scena della narrazione che si
riproduce ininterrottamente, che scombina
l’ordine del tempo, sconfina da
ogni spazio, si affida ad una voce che dice in una lingua ogni volta diversa,
che si affida alla modulazione, alla sonorità, all’eco.
Per una benedizione e una maledizione, Tiresia poteva scaraventare lo sguardo
del pensiero nella nebbia del futuro, e diradarla. Andrea Camilleri non può.
Nessun essere che sia umano può. Per fortuna. Ciascuno di noi può soltanto
affidare il proprio futuro ad un Dio, se ci crede, oppure semplicemente alla
buona sorte.
Alla fine del suo monologo, Camilleri disse: può darsi che ci rivediamo tra
cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro. Ve lo auguro.
Nessuno di coloro che hanno vissuto quell’istante si ritroverà, lì, fra cent’anni. Ma alla fantasticheria di uno strabiliante contastorie, di questo sogno si poteva anche fare concessione.
Diceva che di lui non resterà niente, che sarà dimenticato come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi.
Nessuno può sapere come gira il tempo e che destino l’oblio e la memoria riservano alle creature. Per ora siamo sicuri che di Andrea Camilleri si sente la mancanza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 19 luglio 2020]